1 - Sono molto contento di essere qui con voi oggi, anche se il nostro incontro avviene via Zoom. Ringrazio di cuore Simone per l’invito e mi fa molto piacere avere la possibilità di intervenire subito dopo di lui. Spero anche che in questa importante occasione possano riemergere le molte positive energie da Guido investite nella costruzione della nostra famiglia professionale, e che questo ci permetta di rivivere anche quel piacere di lavorare insieme che pure faceva parte del suo insegnamento e quindi anche della sua eredità. Comincerò il mio intervento con l’abstractche Simone mi aveva chiesto di preparare.
2 - Col titolo del mio intervento – che prendo a prestito dal titolo che lo psicoanalista viennese Hans Sachs (1881-1947) usò per il suo libro di ricordi: Freud, maestro e amico – intendo riferirmi all’amichevole clima del mio rapporto con Guido, il mio primo maestro di psicoanalisi. Fatto con lui, nel luglio 1986, il primo dei tre colloqui di ammissione alla Scuola di Psicoterapia Psicoanalitica(SPP) (gli altri due, a seguire, furono con Cantoni e con Elia), a fine agosto del 1988 ci rivedemmo a Torino, nell’ambito del IX Simposio sulla Psicoterapia della Schizofrenia, dell’International Society for the Psychotherapy of Schizophrenia(ISPS), organizzato da Gaetano Benedetti (1920-2013) con l’aiuto di Pier Maria Furlan. Ma il mio ricordo più vivido non va al Centro del Lingotto dove il Simposio – quello col più grande numero di partecipanti di tutta la serie – si svolse, ma all’esserci trovati, con Guido, a ballare l’uno accanto all’altro nella serata di gala, ospiti di Furlan. Paolo Migone, che era presente, può testimoniarlo – ricordo anche lui a ballare con tutti noi. Ebbene, con Guido non so più quando iniziammo a darci del tu, anche se non ricordo che ci fossimo mai dati del lei. E questo fu il clima in cui qualche settimana dopo, analista-in-formazione del primo anno, iniziai a discutere con Guido il mio lavoro clinico, al quale a suo parere mancava ancora un ingrediente fondamentale: il lettino analitico. Evidentemente non aspettavo altro che di trovare il supervisore che mi stimolasse – ovvero mi autorizzasse – a comprarne uno. Se scelsi il famoso modello di Le Corbusier, non fu solo perché lui stesso lo usava coi suoi pazienti, ma anche perché era anche quello della mia analista – con cui stavo finendo la mia analisi personale. Non sorprende dunque che, dopo una tale cruciale iniziazione, con Guido mi scoprii anche disposto ad accogliere il suggerimento, apparentemente egoistico e auto-promozionale, che “La cosa più importante è avere un buon supervisore!”. Ovvero: “Con un buon supervisore a disposizione, i pazienti non mancheranno di arrivare!”. Di fatto questa fu anche una delle prime nozioni che trasmisi ai giovani colleghi in supervisione con me – declinando la formula di Guido, secondo la quale prima viene il supervisore e poi il paziente, con parole del tipo: “Solo così la Sua voce suonerà sufficientemente professionale e rassicurante al paziente che Le chiederà un primo appuntamento”. Già questo fu un ottimo inizio, non solo sul piano professionale, ma anche su quello personale, considerando il fatto che avevo avuto un rapporto per nulla facile con mio padre. Fu così che, pur discutendo il mio lavoro anche con altri supervisori (in particolare con Lilia D’Alfonso e Ciro Elia), continuai a lavorare con Guido per tutti i cinque anni della mia formazione – terminata nel luglio 1993. Conclusa la mia formazione, il nostro rapporto si diradò sempre di più, entrando a far parte del bagaglio dei miei ricordi, che grazie all’invito di Simone ho potuto nel frattempo rivisitare e che già ho cominciato e ora continuerò a condividere con voi.
3 - A quello che dirò premetto anche che riparlare di Guido con Simone, come abbiamo avuto occasione di fare un paio di volte per Skypenegli ultimi mesi, mi ha inoltre permesso di approfondire finalmente la mia conoscenza della rivista on-lineda lui fondata nel 2009: Pratica Psicoterapeutica. Il Mestiere dell'Analista. Rivista semestrale di clinica psicoanalitica e psicoterapia. In questo modo non solo ho riletto alcuni dei suoi contributi, come ad esempio quello su Gaetano Benedetti del 2010, ma ho anche scoperto un suo lavoro su Johannes Cremerius (1918-2002) che non avevo mai letto. Anzi, mi sono anche trovato a rileggere il famoso libro del 1979 Paziente e analista nella terapia delle psicosi, curato da Benedetti insieme a Medri stesso, Ciro Elia, Lilia D’Alfonso, Teresa Corsi Piacentini e Marina Saviotti, incluso il bel capitolo di Guido dal titolo “L’identificazione reciproca come struttura fondativa del rapporto terapeutico con lo psicotico”.
4 - È così che quest’ultimo riferimento bibliografico mi riporta col ricordo al nostro primo incontro, in un caldo pomeriggio milanese intorno al 20 luglio del 1986. Un paio di settimane prima mi ero specializzato in psichiatria alla Cattolica di Roma, e avevo molta fretta di passare dalla psicoanalisi applicata alla psichiatria – che avevo cercato di praticare anche in un vecchio O.P., l’Ospedale Psichiatrico di Pergine Valsugana (vedi Conci, 1986) – alla psicoanalisi vera e propria. Qualche anno prima, al mio primo incarico di Assistente psichiatra presso un Centro di Salute Mentale del Padovano, avevo trovato nel sopra citato libro di Benedetti una guida preziosissima al mio coraggioso e ingenuo tentativo di stabilire un rapporto psicoterapeutico con un paio di giovani pazienti schizofrenici. Un lavoro che mi aveva coinvolto e impegnato al punto da scrivere – insieme alla psicologa che avevo trascinato nell’impresa – un breve articolo, “Saverio e noi: vicissitudini terapeutiche nell’incontro con un paziente psicotico”, che inviai alla rivista di psichiatria che allora conoscevo meglio: i Fogli di informazione diretti da Agostino Pirella (1930-2017) e Paolo Tranchina (1938-2018), che faceva capo a Psichiatria Democratica, il movimento anti-istituzionale di allora [1]. Ebbene, se a orientarmi verso la SPP era stato il carattere dialogico, collaborativo e creativo del libro del 1979, era come se Paolo Tranchina, che conoscevo bene avendolo frequentato a Firenze, studente di medicina, nella seconda metà degli anni 1970, fosse stato anche presente tra noi, in quel primo colloquio – probabilmente evocato in Guido dalla lista delle mie pubblicazioni. Solo più tardi, lavorando con lui, appresi da Guido che con Tranchina erano stati molto amici – avendo Tranchina fatto parte del primo gruppo di lavoro con Benedetti e Cremerius. Ma ecco come Edmondo D’Alfonso caratterizzava il clima del gruppo di lavoro dal quale il volume del 1979 era emerso e che mi aveva così affascinato:
«Da questo documento emerge innanzi tutto la figura di un maestro che non si pone come modello, non si sente depositario e trasmettitore di un metodo consacrato e immutabile, ma si pone a fianco dei suoi allievi-collaboratori come ricercatore e terapeuta, come loro e con loro. Seminari, supervisioni di gruppo, supervisioni individuali, riflessioni teoriche sono momenti di una ricerca comune, fondata sull’esperienza clinica diretta. L’essere maestro per Benedetti è essenzialmente uno scoprire insieme, un rivelare ai suoi collaboratori le loro capacità terapeutiche, potenziandole, differenziandole al massimo. In modo che nessuno abbia a risultare una copia di Benedetti, ma ognuno possa, nel rapporto con lui, meglio riconoscere se stesso» (D’Alfonso, 1979, p. 7).
5 - Ma la spinta definitiva a rivolgermi alla SPP l’avevo avuta da Cremerius in persona, che avevo avuto la fortuna di incontrare all’inizio del 1986 – il 2 gennaio 1986 – nella sua casa di montagna al confine tra le province di Trento e di Bolzano – dove stava trascorrendo le vacanze di Natale con sua moglie, Annemarie. Sotto Natale, a mio padre, ingegnere, ostile alla mia scelta di diventare medico e psichiatra, era venuto improvvisamente in mente che un suo vecchio amico, un architetto di Monaco di Baviera, era da tanti anni molto amico di un famoso psicoanalista, “un tale Cremerius”, avendo l’architetto stesso una casa di vacanza nella stessa località della Val di Non. “Può essere che tu lo conosca?”, mi chiese mio padre. “Eccome se lo conosco!”, riposi io, avendo avuto già occasione di leggere, di Cremerius, i Seminari di psicoterapia, il volume del 1982 che raccoglieva alcuni dei seminari da lui tenuti presso Il Ruolo Terapeutico – la rivista del settore che allora leggevo di più. Da questo incontro e dai successivi non solo emerse l’indicazione per la SPP come scuola in cui completare la formazione analitica che aveva avuto il suo momento fondativo nella mia analisi personale, ma ne scaturì anche il contatto con la rivista Psicoterapia e Scienze Umane, in collegamento con la traduzione in italiano di una serie di importanti articoli di Cremerius. A partire da “Alla ricerca di tracce perdute. Il ‘movimento psicoanalitico’ e la miseria dell’istituzione psicoanalitica” del 1986 – il testo della relazione tenuta da Cremerius a Zurigo ai primi di giugno del 1986, nel cui ambito avevo conosciuto anche Pier Francesco Galli.
6 - Vi ho dato queste informazioni preliminari non solo per spiegare il carattere accogliente, se non addirittura amichevole, del clima in cui questo mio primo incontro con Guido si svolse, ma anche per meglio illuminare quella che ricordo come la direzione del tutto collegiale in cui esso si sviluppò – nel mio ricordo. Per non parlare del fatto che, grande seduttore, Guido riuscì definitivamente a convincermi che la SPP poteva diventare anche la mia casa. Del resto, facevo così fatica a vivere la mia famiglia di origine come la mia casa che, da questo punto di vista, non deve essere stato così difficile conquistarmi all’idea. Sta di fatto che, dopo questo primo colloquio, non mi detti più da fare per cercare altre strade, fiducioso che, una volta superati gli altri due, sarei stato accettato come analista-in-formazione. Quale fu dunque il modo in cui Guido gestì il nostro primo colloquio? Nel mio ricordo, ricorrendo al suo articolo sopra citato, adeguatamente abbreviato in “L’identificazione reciproca come struttura fondativa del rapporto”, ovvero, fuor di metafora, raccontandomi quello che lui stesso aveva imparato, sia da Benedetti che da Cremerius. E raccontandomelo così bene che ancora me lo ricordo. Nonostante la grande stima che aveva per Benedetti, la sua maggiore simpatia andava senz’altro a Cremerius. Da Cremerius aveva imparato un metodo di lavoro che poteva usare tutti i giorni con i suoi pazienti, a differenza di Benedetti, così geniale da essere inimitabile – e quindi, tutto sommato, non proprio così utile, nel lavoro quotidiano. Con entrambi aveva comunque potuto non solo condividere la passione che lui stesso aveva per il nostro lavoro, ma addirittura coltivarla e aumentarla al punto da volerla condividere con i vari gruppi di giovani colleghi a cui il gruppo originario cominciò a offrire l’iterformativo della SPP, a partire dalla seconda metà degli anni 1970. E proprio questo era quello che cercavo, un mestiere che potesse continuare ad appassionarmi, per tutta la vita, così come aveva avuto la fortuna di fare mio padre col suo lavoro. Da questo potete facilmente capire la potenza del transfert, ovvero l’importanza del mio incontro con Medri, con cui collego non solo la mia iniziazione e formazione psicoanalitica, ma anche, in realtà, la rivisitazione del rapporto con mio padre, incluse le successive due analisi fatte con due uomini. All’epoca in cui, nel settembre 1983, avevo iniziato la mia analisi personale a Trento, il mio rapporto con mio padre era ancora così difficile che non sarei stato in grado di fidarmi di un analista uomo. Incontrando Guido Medri, e sviluppando con lui il rapporto di cui vi ho descritto le basi, mi resi conto che non bastava aver lavorato al problema con un’analista donna, ma che era anche necessario, sullo stesso problema, lavorare anche con un analista uomo – che potessi ammirare, con cui potessi litigare, ovvero vivere un’esperienza alternativa.
7 - A questo punto, se transfert vuol dire – seguendo un autore a me caro come Harry Stack Sullivan (1892-1949) – guardare alle persone che, evocate dal nostro scambio duale, sono presenti nella stanza insieme a noi, oltreché di Benedetti e Cremerius, Galli e Tranchina, devo parlare di un ultimo collega che il colloquio che si era sviluppato tra noi evocò in Guido. Ricordo bene come, molto coinvolto nel dialogo con me, fu lui stesso a parlarmi – in una maniera che altrimenti avrebbe potuto suonare indiscreta – di Giorgio Ferlini, morto nel frattempo anche lui, il 5 febbraio 2017, a quasi 83 anni [2]. Fu anche in questo modo che Guido, dopo avermi dimostrato la sua capacità di accogliermi in maniera così amichevole e collegiale, e di essere stato in grado di conquistarmi al progetto formativo della SPP, mi mostrò la sua grande, incredibile capacità di intuizione. In effetti, Giorgio Ferlini, ex-direttore dei Servizi Psichiatrici della Provincia di Trento, che proprio l’anno prima aveva finito la sua formazione presso la SPP (cosa che io avevo intuito, ma che fu Guido a confermarmi), faceva anche parte del mio mondo, sia esterno che interno, e dei motivi per cui mi ero rivolto alla SPP. Tra l’altro, Ferlini era stato il primo collega a parlarmi proprio di Sullivan, la cui teoria interpersonale della psichiatria svolgeva una parte importante nel suo insegnamento all’Università di Padova. Ebbene, Guido – e anche questo è un dettaglio che ricordo bene – evocò Ferlini per dirmi come lui lo vedeva e per chiedere a me che cosa io ne pensassi. Ma, ripeto, non per essere indiscreto, quanto – nel mio ricordo – per meglio definire le coordinate del lavoro che ci aspettava. Grande ammiratore di Benedetti, Ferlini, secondo Guido, era però ben lontano dalla sintesi delle dimensioni tecnica e personale del nostro lavoro per cui Benedetti andava famoso. In secondo luogo, aveva lavorato troppo a lungo come psichiatra a tempo pieno per poter sviluppare una vera e propria identità psicoanalitica. Se la prima osservazione poteva far pensare a un problema di rivalità tra allievi dello stesso maestro, presi così seriamente la seconda che, quando incominciammo a lavorare insieme, nel settembre del 1988, mi ero già dimesso dal Servizio Sanitario Nazionale e avevo aperto, a Trento, il mio studio privato, pronto a dedicarmi a tempo pieno alla nuova professione. Prima di farlo, avevo espressamente consultato anche Paolo Migone, che all’epoca era uno dei pochi colleghi che aveva fatto questa stessa scelta, cavandosela molto bene.
8 - Ma prima di completare il quadro di tutto quello che ricordo di aver vissuto con Guido e imparato da lui come supervisore e come collega, permettetemi di dialogare un attimo con lui su Benedetti e Cremerius, sulla base di come poi li conobbi e frequentai io stesso, dentro e fuori della SPP. Con questo mi riferisco ai due testi sopra citati, “Il mio lavoro con Gaetano Benedetti” del 2010 e “Cremerius e gli anni settanta” del 2012. Ecco come Guido concludeva il primo dei due contributi:
«Nel libro affermo che Benedetti era buono e io no. Si tratta di un’affermazione curiosa perché per altro non saprei neppure ben definire cosa è la bontà. Ma che Benedetti fosse un terapeuta del tutto particolare era opinione di molti. Cito Muraro, ad esempio, il quale diceva che non si poteva prendere Benedetti come modello perché avrebbe fatto la psicoterapia anche a un cavallo. Ci ho ripensato e sono arrivato a un tentativo di spiegazione. Benedetti era molto religioso, mentre io sono un ateo convinto. Ciò che potevo, che posso dare al paziente, è la mia competenza oltre a un impegno professionale che consiste soprattutto nel condividere la sua sofferenza. Per Benedetti invece il gesto di un uomo che risponde alla sofferenza mentale di un altro essere umano era all’insegna di un amore che stava al di sopra dell’accidentalità dell’evento e dava alla relazione un carattere sacrale. Questa fede conferiva una legittimitàa prioriall’aiuto che egli offriva. Lui aveva dunque una marcia in più rispetto a me» (Medri, 2010, p. 5).
Ebbene, per come ho conosciuto Benedetti, sono d’accordo con Guido che Benedetti aveva una o più marce più di noi. Ma se è vero, religiosamente parlando, che una buona azione ha buone probabilità di evocarne un’altra, e se questo era il registro che Benedetti offriva mettendo a disposizione del paziente il proprio inconscio terapeutico come ponte verso il ritrovamento di se stesso, la stessa cosa può essere detta anche con le parole, laiche, di Sullivan. Sullivan fu il primo a capire come ogni nostra iniziativa relazionale, adeguatamente espressa, ha in sé intrinseca la potenzialità di sviluppare nel e col paziente quel rapporto di reciprocità e di collaborazione che rappresenta il motore del nostro lavoro. Questo punto di vista è quello che ha fatto di lui il pioniere del concetto contemporaneo di “campo analitico”, attorno a cui è ad esempio costruito tutto Il colloquio psichiatrico, il suo libro più famoso (Sullivan, 1954) Cito Sullivan perché lo ritengo essere una delle fonti nascoste e sottovalutate dell’opera e dell’eredità di Benedetti – come dimostra la brillante Prefazione che Benedetti scrisse nel 1961 a La moderna concezione della psichiatria di Sullivan (1940).In parte sottovalutato, nella sua portata, da Benedetti stesso.
9 - Ma ecco ora quanto Guido scrisse di Cremerius:
«Quando lo abbiamo festeggiato per il suo ottantesimo compleanno a Milano, ho voluto ringraziarlo pubblicamente per la continuità del suo impegno verso di noi e dirgli della nostra riconoscenza e gratitudine, perché è per merito del suo incoraggiamento che siamo diventati quello che siamo. Dicendo che Cremerius offriva se stesso pensavo però un’altra cosa. La psicoanalisi per lui non era solo una pratica e una teoria, ma qualcosa di veramente importante, un modo di essere, di pensare, di leggere il mondo. Ci metteva un entusiasmo e un interesse incredibili, travolgenti. Io ero un fanatico della psicoanalisi (adesso molto meno), ma lui lo era decisamente più di me» (Medri, 2013, p. 3).
Ebbene, io stesso non avrei passato ore e ore a tradurre i lavori di Cremerius dal tedesco, e probabilmente non avrei – dopo essere diventato membro dell’Associazione di Studi Psicoanalitici (ASP) nel 1996 – proseguito la mia strada diventando membro della Società Psicoanalitica Tedesca (DPG) nel 2002, dell’International Psychoanalytic Association(IPA) nel 2010 e della Società Psicoanalitica Italiana (SPI) nel 2012, se non avessi avuto la passione di entrambi. Una passione che, per quanto mi riguarda – ma forse anche per quanto riguarda loro – deriva dall’aver trovato nella psicoanalisi e nella comunità analitica una famiglia alternativa. Una famiglia per tanti versi migliore della mia famiglia di origine. In tutte le famiglie in cui c’è un’azienda famigliare, la logica capitalistica spesso prevale sulla dimensione umana, e chi cerca di trovare una strada diversa viene spesso ostacolato fino a rischiare di ammalarsi. Questo è il modo in cui la psicoanalisi mi ha salvato la vita.
10 - A questo punto, posso tornare al mio lavoro con Guido, con Guido come il mio primo supervisore e maestro di psicoanalisi, sapendo di poterlo fare partendo da parecchi aspetti del suo modo di lavorare a cui già ho accennato. Per esempio, se una delle più importanti acquisizioni dell’analisi personale è quella di imparare ad associare liberamente, ovvero di affidarsi alle proprie emozioni e ai propri sentimenti, e di essere in grado di formulare entrambi, la prima cosa di cui abbiamo bisogno, quando cominciamo noi stessi a lavorare analiticamente, è di trasformare questo atteggiamento nella cosiddetta “attenzione liberamente fluttuante” dell’analista. E questo era il tipo di ascolto che Guido stesso in genere sviluppava nella prima parte della supervisione, ponendo da una parte attenzione alla dinamica transfert/controtransfert, e dall’altra identificandosi con me come analista in termini del capire a che punto del lavoro ero arrivato, e come andare avanti. A che punto del lavoro di emancipazione dell’Io da Es e Super-Io, per usare il “modello strutturale” così caro a Cremerius. Ovvero, a che punto rispetto al compito mio di trovare la mia voce di analista e rispetto al desiderio del paziente di trovare la sua – per usare un punto di vista del giorno d’oggi. Detto in altro modo: a che punto è arrivata “la coppia analitica al lavoro”? Proprio questo era del resto stato il suo comportamento anche nel primo colloquio che avevo avuto con lui, il colloquio sopra descritto, in cui – come abbiamo visto – non si era limitato a studiare la mia situazione dall’esterno, ma si era molto coinvolto nel rapporto con me. Grazie a questa sua capacità di coinvolgimento, Guido aveva inoltre – nel mio ricordo – anche un orecchio e un occhio per quelli che con Winnicott e con Green chiameremmo gli aspetti negativi, ovvero quelli mancanti, nel discorso sia del paziente che dell’analista. Per non parlare del suo atteggiamento eminentemente clinico, ovvero la sua attenzione per gli aspetti strutturali, del comportamento e del discorso dei pazienti. Con questo mi riferisco a come mi abbia insegnato a cogliere il tipo particolare di rimozione delle pazienti isteriche, sulla cui intelligenza nascosta Guido era del parere che valesse sempre la pena puntare, al significato dinamico del rimuginare ossessivo, in termini della relativa carenza affettiva. Così come mi aiutava a prendere per mano il paziente e ad accompagnarlo nel suo lavoro su se stesso, così prendeva me per mano sul piano teorico, consigliandomi di leggere Analisi del caratteredi Wilhelm Reich (1933), per quanto riguarda l’analisi sistematica delle resistenze, e l’articolo di James Strachey (1934) sull’“interpretazione mutativa” per quanto riguarda tutto il lavoro di interpretazione. Se la sfida più difficile rimaneva sempre quella della dimensione transferale, ossia quella di riuscire da una parte ad accogliere e a lasciarci condizionare dal transfert del paziente, e, dall’altra, a rifletterlo e formularlo in parole, dall’altra, Guido mi trasmetteva pure l’insegnamento di Cremerius, per cui la cosa più importante era quella di non perdere mai d’occhio il paziente, ovvero di stabilire con lui il più profondo contatto possibile. In effetti, il comune denominatore di entrambi questi discorsi è il concetto sullivaniano di “osservazione partecipe”, di come essere partecipi della relazione e, al tempo stesso, essere in grado di costantemente monitorarne la natura e l’evoluzione. In tutto questo, ci divertivamo pure molto, all’insegna di quella che potrei chiamare, seguendo Winnicott, una “concezione ludica del lavoro ben fatto”. Mi riferisco sia al piacere della buona intesa e del buon lavoro col supervisore che al piacere dell’evoluzione che si manifesta nel nostro lavoro col paziente. Ovvero Guido si divertiva alle mie spalle, col suo modo indiretto di raccogliere determinate informazioni, come ad esempio sul mio controtransfert, chiedendomi a bruciapelo che aspetto fisico avesse la paziente di cui stavo parlando. Andando a ruota libera come sto facendo, mi viene ora in mente anche la sua grande elasticità e disponibilità a parlare di volta in volta della situazione e del paziente che più mi creava difficoltà in quel momento, senza bisogno di alcun preavviso. Quello che potrei chiamare, con Bion, “il Dr. Medri senza memoria e senza desiderio”.
11 - Ma ecco quanto Guido scriveva a proposito del suo modo di lavorare, ovvero di quello stesso che aveva imparato da Cremerius:
“L’attenzione insomma era tutta centrata su come il paziente trattava se stesso e si muoveva nella relazione, su quella zona grigia al confine fra il conscio e l’inconscio dove i comportamenti cominciano a delinearsi nel loro significato dinamico. Era importante che l’analista avesse in funzione i suoi canali di ricezione. Non si trattava solo di ascoltare e di guardare, ma di qualcosa di più, direi di fiutare, di sentire l’altro sulla pelle o dentro la pancia. L’analista era messo alla prova con i sensi oltre che con il pensiero, impegnato insomma in una continua identificazione di prova. Contavano i dettagli, erano le inflessioni della voce, i piccoli gesti, le smagliature del discorso a permettere l’accesso al non conosciuto, non tanto il racconto del paziente. In definitiva l’interesse era tutto portato sull’Io inconscio, su come stava nel conflitto, sui pericoli che correva e sugli espedienti che aveva provato e continuava a mettere in opera per porre un rimedio all’angoscia e alla colpa” (Medri, 2013, p. 6).
E, passando alla teoria:
«Le pagine più belle secondo me Cremerius le ha scritte sul rapporto tra Io e Super-io. (...) La strategia si basa nel non dare interpretazioni, ma che sia l’Io a (...) conquistarsi spazio. Bisogna dunque creare le condizioni affinché l’Io lavori e così facendo si espanda (...). È attraverso lo studio e i tentativi di applicazione di questo approccio che ho davvero capito che cosa significa operare affinché l’Io del paziente diventi più forte (...). Comunque tutti i procedimenti tecnici che ho descritto fanno parte del tipico repertorio della Psicologia dell’Io e si rifanno alle sue premesse teoriche» (Medri, 2013, p. 6).
Ma ecco come, qualche riga sotto, Guido esprimeva quella che sentiva come la grande contraddizione che vedeva in Cremerius – e ancora di più, io direi, in se stesso – tra la possibilità di gestire il lavoro analitico attraverso la griglia teorica della Psicologia dell’Io, da una parte, e la grande sensibilità relazionale, di cui entrambi pure disponevano, e che reputavano necessaria per seguire così da vicino il paziente, e per costruire con lui un rapporto analitico che finivano col concettualizzare in termini di un concetto come quello della “coppia analitica al lavoro”, che, non facendo certo parte della Psicologia dell’Io, non sapevano come conciliare con il loro orientamento di fondo. Ma ecco le parole di Guido:
«Chi era allora il vero Cremerius, quale delle due rappresentazioni è corretta, o come si ricompongono tra loro? Da una parte sta l’uomo di scienza, il ricercatore, l’illuminista alla ricerca della verità al di fuori di lui, dall’altra l’umanista romantico che subisce l’attrazione dell’inconscio e si arrende alla suggestione dell’incontro. (...) Ebbene sosterrei che, molto semplicemente, Cremerius era contraddittorio, che cavalcava con grande sicurezza manovrando le due redini senza accorgersi del bisticcio che si creava tra loro. Aveva una teoria che intendeva coprire tutto l’arco dell’intervento dell’analista sul paziente, mentre la clinica gli suggeriva che la stessa era incompleta. Quante volte ci diceva che non si dice nei congressi e non compare negli scritti quello che si fa “veramente” in analisi! La risposta allora finiva paradossalmente per spostarsi in modo eccessivo sul versante relazionale, priva però delle necessarie mediazioni. Questa comunque era la mia impressione (...). A distanza di tanto tempo comprendiamo benissimo il compito che aveva davanti: come tanti analisti della sua generazione si trattava di traghettare l’analisi dal paziente alla coppia paziente-analista, e lui si trovava in mezzo al guado. Negli anni successivi la questione si sarebbe ripresentata come cruciale, non poteva più esser elusa» (Medri, 2013,pp. 8-9).
12 - A questo punto, così come sopra ho interloquito, tramite Guido, con Benedetti e con Cremerius, provo a farlo direttamente con lui, dicendo che si tratta di una contraddizione che io non sento, ovvero che non mi sembra più attuale. Infatti, tanto per cominciare, quella che allora a Guido mancava – non solo negli anni 1970, ma anche nel 2012 – era la conoscenza del fatto che anche una colonna della Psicologia dell’Io come Edith Jacobson (1897-1982) aveva uno stile di lavoro accompagnato da un grande calore umano e da una notevole sensibilità relazionale – come documentarono Ulrike May ed Elke Mühlleitener nel 2005. In secondo luogo, è stato percorrendo questa strada che, recentemente invitato a collaborare a ricostruire la storia e i protagonisti della Psicologia dell’Io in Europa per la nuova Enciclopedia della Psicoanalisi varata da Stefano Bolognini, ho scoperto che non possiamo più parlare di Psicologia dell’Io in generale, ma che dobbiamo parlare invece della grande varietà delle modalità con cui è stata formulata e proposta da tutta una serie di autori. Per rimanere in Germania, mentre Cremerius (1989) capì subito il grande valore del Diario clinico di Sándor Ferenczi, un altro protagonista della Psicologia dell’Io come Alexander Mitscherlich (1908-1982) ne aveva addirittura scoraggiato la pubblicazione. In altre parole, non è vero che il lavoro clinico all’insegna della Psicologia dell’Io sia stato accompagnato solo dal tipo di distanziamento dal paziente e di non coinvolgimento nella relazione di cui parlava ad esempio Anna Freud. Per inciso, mutatis mutandis, una posizione analoga a quella di Cremerius – e di Guido – è oggi portata avanti dallo stesso Stefano Bolognini (2020) nel suo combinare una grande attenzione alle vicissitudini dell’Io e del Sé del paziente basata sul modello strutturale freudiano con una grande sensibilità relazionale. Last but not least, dalla critica formulata da Cremerius (1991) alla Psicologia del Sé di Kohut, Guido pur sapeva che la sua sensibilità relazionale gli consentiva di «saper fare ciò che faceva Kohut senza sentire il bisogno di un cambiamento di teoria» (Medri, 2013, p. 12). Ma di questo, dell’interessantissimo tema del rapporto di Guido con la psicologia del Sé, si occuperà questo pomeriggio Paolo Migone.
13 - Arrivato a questo punto, non mi resta che completare il quadro con i pur importanti dettagli che seguono. Guido non è stato per me solo un prezioso collega e un validissimo supervisore, ma anche un grande maestro e un caro amico. A Guido come maestro penso per esempio in collegamento con la fortuna del mio anno di corso (tra cui ricordo, ad esempio, Egidia Albertini e Teresa Longo) di averlo avuto come docente, al primo anno (1988-89), di un corso di introduzione all’opera di Freud. La chiave che ci propose fu quella del concetto di transfert, passando con noi in rassegna i principali scritti in cui Freud ne parla, a partire naturalmente dagli Scritti sull’isteria, in cui lo troviamo definito in termini di un «falso nesso» (Breuer & Freud, 1892-95, p. 437). All’epoca Guido conosceva ancora molto bene Freud, e fu questa sua introduzione a darmi lo stimolo a completare la lettura degli undici volumi dei suoi Scritti,pubblicati da Bollati Boringhieri tra il 1966 e il 1980. Se lui era arrivato a tanto, potevo arrivarci anche io.
14 - Avendolo come supervisore, naturalmente non mancai di partecipare fin da subito, dall’ottobre 1988, al cosiddetto “Gruppo sul Sé”, il gruppo clinico-teorico da lui condotto centrato attorno alla discussione e all’approfondimento della teoria e della tecnica di trattamento della patologia narcisistica. Senza togliere spazio a Paolo Migone, posso testimoniare di quanto importante questo gruppo sia stato per moltissimi di noi come palestra per imparare non solo a collegare teoria e clinica psicoanalitica tra loro, ma anche per imparare a parlare di psicoanalisi tout court. Nel mio studio conservo ancora il grande raccoglitore in cui trovano posto i casi e gli articoli più importanti che discutemmo in quegli anni. Compresa la mia recensione dell’edizione originale del libro di Stephen Mitchell del 1988, uscito in italiano nel 1993 col titolo Gli orientamenti relazionali in psicoanalisi. Per un modello integrato – che uscì nel 1990 su Psicoterapia e Scienze Umane. Quello che ricordo è che, all’inizio, Guido storse il naso, ma che un po’ alla volta fu in grado di coglierne l’importanza. Come ricordo anche nella Presentazione che accompagna l’edizione italiana, nell’aprile 1991 riuscì a portare Mitchell a Milano, dove tenne la relazione “Prospettive contemporanee sul Sé: verso un’integrazione” – che io stesso tradussi in italiano per l’occasione. In effetti, ricordo anche come Guido non mancò di venire a sentire Mitchell a Firenze, nell’aprile 1996 – Mitchell che in quell’occasione presentò un capitolo del libro al quale allora stava lavorando e che uscì in italiano nel 1999 col titolo Influenza e autonomia in psicoanalisi. Per inciso, di questo e altro ho scritto specificamente nel capitolo “S.A. Mitchell (1946-2000) in Italy” del mio libro del 2019 Freud, Sullivan, Mitchell, Bion and the Multiple Voices of International Psychoanalysis. Naturalmente, ho solo informazioni di seconda mano su come Guido finì col rapportarsi con il movimento relazionale, e conto di venirne a sapere di più oggi.
15 - Detto questo, mi manca solo di accennare alla dimensione amicale e privata del nostro rapporto. Con questo mi riferisco a Guido che, per il mio matrimonio del settembre del 1989, mi regalò un libro, allora fresco di stampa, e tuttora di grande importanza per chiunque lavori nel nostro campo, ossia Comunicazione e interpretazione (1987), di Herbert Rosenfeld (1910-1986). Anzi, fanatico come ero di psicoanalisi, riuscì a convincere mia moglie, Claudia, a fare una parte del nostro viaggio di nozze andando in Brasile a partecipare al congresso del VIIIInternational Forum of Psychoanalysisdi Rio di Janeiro del 10-14 ottobre 1989 della Federazione Internazionale delle Società Psicoanalitiche (IFPS) – di cui parlerà Paolo Migone nel pomeriggio. Infatti, con Claudia e con me, non c’era solo Paolo, ma anche Guido e Ciro Elia con le rispettive consorti – mentre Benedetti e la moglie li incontrammo direttamente a Rio. Si trattava del congresso in cui Gaetano Benedetti (1989), Ciro Elia (1989) e Guido Medri (1989) tennero un seminario per presentare il lavoro del nostro gruppo, nel cui ambito io lessi la relazione di Laura Andreoli e Daniela Maggioni (1989), che non poterono essere con noi, a festeggiare in questo modo la nostra amissione all’IFPS. Da allora ho partecipato a tutti gli eventi della Federazione, dal 1994 faccio parte del comitato editoriale della rivista dell’IFPS, l’International Forum of Psychoanalysis, e dal 2007 ne sono condirettore.
16 - È così che l’ultimo capitolo a cui posso accennare è proprio quello dei successivi congressi dell’IFPS a cui partecipammo insieme. Ricordo quello di Stoccolma dell’agosto 1991, in cui vinsi il Premio dei Candidati con una relazione basata su mio lavoro di curatore delle lettere del giovane Freud al compagno di studio Eduard Silberstein per Bollati Boringhieri (Conci, 1991); quello di Monaco di Baviera dell’agosto 1992, con l’inaugurazione alla Vecchia Pinacoteca e la cena di gala sul Lago di Starnberg; quello di Firenze del 1994, in cui Guido tenne anche una relazione (Medri, 1994) ; e quello di Madrid del 1998, a cui intervenne anche Benedetti, accompagnato dalla moglie Annette, con cui visitammo Toledo.
17 - Solo una, massimo due volte, Guido mi invitò dopo il 2000 – l’anno in cui pubblicai Sullivan rivisitato (Conci, 2000) – a tenere una giornata di aggiornamento alla SPP. Fu soltanto Marcello Panero a ristabilire con me uno stabile rapporto di collaborazione a partire dal 2011. All’epoca non c’era ancora Zoom, e io, a novembre del 1997, mi era trasferito a Monaco di Baviera. In altre parole, da una parte avevo da Guido avuto sufficienti stimoli per andare avanti da solo sulla strada che avevo iniziato con lui. Dall’altra, avrei volentieri collaborato di più con lui, ma questo, purtroppo, non successe. Questo è anche il motivo per cui sono così contento di essere oggi qui con voi.
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Marco Conci Via G. Zanella 17, 38122 Trento, e-mail: marcoconci@aol.com
[1] Alla figura di Agostino Pirella è stato recentemente dedicato il n. 385/2020 della famosa rivista aut-aut.
[2] Il 5 febbraio 2018 si tenne a Trento un primo convegno in memoria di Giorgio Ferlini, da cui sono usciti due libri di atti. Nel secondo di essi, curato da Patrizia Guarnieri (2021), è incluso il mio contributo “Giorgio Ferlini tra Ferdinando Barison e Gaetano Benedetti. Con un’appendice documentaria”.