Pratica Psicoterapeutica

Il Mestiere dell'Analista
Rivista semestrale di clinica psicoanalitica e psicoterapia

NUMERO 24
1 - 2021 mese di Giugno
IL CONTRIBUTO SCIENTIFICO DI GUIDO MEDRI ALLA PSICOTERAPIA PSICOANALITICA INDIVIDUALE DELL’ADULTO
GUIDO MEDRI RACCONTA. PENSANDO A CHI INIZIA A FORMARSI, GLI ELEMENTI PER LUI FONDAMENTALI DI PSICOTERAPIA PSICOANALITICA
di Annamaria Govi

Ringrazio i Colleghi della Spp che mi hanno stimolata a partecipare oggi e saluto tutti i presenti, in particolare Annarita Medri e le figlie.

 

Sono arrivata alla Spp come docente dei Seminari Clinici, perché Guido Medri me lo chiese nel 2003.

Come l’ho conosciuto? Arriva a Parma, la mia città, negli anni ’80, chiamato da Leonardo Dassò e Francesca Campari, due psichiatri che all’interno della tradizione del tutto organicistica della Clinica Psichiatrica dell’Università di Parma volevano creare una enclave formata da psichiatri psicodinamici riuniti in un gruppo clinico di incontri periodici di Supervisione. Gruppo che resterà fino al 2014/15, più di trent’anni.

Una nota di colore per inquadrare il clima: il Direttore, prof. De Risio, diceva che astrologia e psicoanalisi avevano la stessa solidità scientifica (zero), ma che almeno la psicoanalisi era letteratura di buon livello e quindi accettava che noi la praticassimo... la letteratura.

Il suo successore, il prof. Maggini, neppure quello e, nel ’90, ci chiese di traslocare.

 

In realtà, il gruppo fu possibile perché il prof. De Risio stimava il dott. Leonardo Dassò, uno psichiatra e analista colto e serio, dal pensiero elegante, che per molti, compresi Medri e me, fu un autorevole compagno di riflessioni e amico, e che morì pochi mesi prima di lui, dandoci un grande dolore.

Guido ne scrisse il necrologio, sottolineando la loro differenza che li completava, e la grande stima e affetto reciproci.

Molti ex allievi hanno potuto apprezzarlo, essendo stato chiamato da Medri alla SPP per insegnare psicofarmacologia. Son certa che Guido sarebbe stato contento di citarlo.

 

Eravamo dieci psichiatri di età diverse, alcuni in formazione come me, e la sua frase mantra quando portavamo i casi era: “dottore, dottoressa, questo paziente deve venire 3/4volte la settimana, non si scappa!” Ci sgomentava, era diventata un tormentone, e rappresentava uno spartiacque tra noi e la psicoanalisi. Poi capimmo che un po’ ci credeva, allora era così, ma un po’ ci provocava. Ai nostri giovani occhi, quindi, sembrava un freudiano di ferro.

 

Fu anche docente alla Scuola di Specialità della Clinica, (al professor De Risio era simpatico, e a chi no?), e ci stupiva quanto fosse spontaneo e diretto, molto interessato alle nostre “interpretazioni”, senza problemi, se lo convincevano, a mostrare quasi ammirazione.

 

Come diceva Gauguin di Van Gogh, (cito a memoria): “era così sicuro della sua arte da essere libero di imparare dagli altri e di essere generoso nel darsi.”

Comunque era così diverso dagli altri analisti “classici”, così rigidi e innaturali... Era davvero un “freudiano di ferro”?

 

Risulta difficile per me che ho appreso tanto, ma con quella che si direbbe un impregnazione implicita, evidenziare i punti più importanti di questo lungo insegnamento. Ho imparato a cucinare guardando mia madre, ma se mi chiedete una ricetta devo studiare quel che io faccio a occhio, per poter mettere per iscritto gli ingredienti e le dosi.

 

Suddivido le mie riflessioni in due argomenti di base, che hanno caratterizzato la globalità del pensiero di Guido Medri.

 

A) Il ruolo del terapeutanella relazione (citando Balint: il terapeuta come farmaco).

B) La fiducia nel metodo analitico

 

A) IL RUOLO DELL’ANALISTA “FARMACO”

 

Il curantecome diceva Balint, è simile a un farmacocon i suoi effetti placebo(come ad es. la guarigione di transfert) e gli effetti iatrogeni(ricordiamoci la parola greca “pharmacon” nella duplice accezione di “medicina”e “veleno”).

Deve essere quindi:

1) autentico, non contraffatto

2) monitorato

3) dosato

 

1) L’IMPORTANZA DELL’AUTENTICITÀ, (si deve sapere offrire quello che si può garantire con coerenza).

Medri ci faceva esempi di come avrebbe risposto o interpretato, ma ci suggeriva di non ripetere esattamente le sue parole, di trovare il nostro stile per essere credibili, se no non avrebbe funzionato.

Autenticità dunque, non brutte copie.

Diceva Medri: “Non parlate finché non avrete capito e quindi possiate essere convinti e autentici in quel che direte”, (e non parlate finché il paziente non potrà capire e reggere ciò che gli direte: quindi una grande attenzione al timing, e soprattutto un grande RISPETTO per il paziente’’).

Altra sincerità indicata da Medri come necessaria era il voler davvero bene al paziente, almeno un po’, credere nella sua possibilità di crescita, almeno un po’, se no non si procede. Ma senza farsi travolgere da desideri su di lui o da un’affettività collusiva. È lì l’arte.

Tutto questo lo sentivamo incarnato con naturalezza in Guido Medri. Ci chiedeva sempre di cercare una verità: “Cosa sentite per lui\lei? Vi piace? E perché? Come vi fa sentire? D’accordo, questo è quel che dice, ma cosa avrà voluto dire davvero? Cosa avete percepito voi, nelle sue parole?” Cercare dunque una verità, una realtà più profonda, inconscia.

 

2) MONITORARSI

Si tratta di interrogarsi sul Controtransfert, per capire meglio il transfert del paziente, ma anche di stare attenti alle nostre aree personalidi risonanza o di difficoltà e contrasti con i pazienti. Momenti, questi, che, se gestiti, riteneva rappresentassero una grande opportunità per crescere assieme al paziente o... perdersi. Dunque all’erta e molte supervisioni.

Monitoraggio stretto di sé stessi nella relazione: ci metteva in guardia dal permettere che i pazienti ci facessero recitare un loro lato scisso e proiettato.

Ci suggeriva anche di porre attenzione alle seduzioni narcisistiche…“Quando una terapia va troppo bene, l’analista bravo si interroga, non si compiace!”, diceva.

 

3) IL DOSARSI DEL TERAPEUTA

Circa la questione della neutralità, Medri aveva una sobria capacità di utilizzare, raramente, una forma di disvelamento pensato e ad hoc, una cauta self disclosurealla Jacobs, potremmo dire. Lo faceva soprattutto con certi pazienti, per sbloccare le resistenze e favorire le alleanze, diversamente difficili da avviare.

Ci ricordava poi (ed era una cosa difficile per noi da capire), che, per rispettare il paziente, non dovevamo essere né troppo buoni, né troppo intelligenti, perché avremmo fatto il suo male impedendogli di poter esprimere parti aggressive, oscure, e, arrivando noi troppo presto a spiegare, non gli avremmo dato la fiducia di poter pensare con la sua testa, (facendolo inoltre dipendere sempre più da noi).

Diceva: “Io a volte faccio il tonto: se una cosa non è chiara, chiedo spiegazioni, chiedo aiuto al paziente e restiamo concentrati sul tema assieme”.

 

Non aveva problemi anche con noi a dire, “non ho capito, non saprei, è difficile, abbiamo almeno un sogno?”

Di fatto, qualcosa di utile e talora fulminante (una sua caratteristica) a fine incontro usciva sempre, ma comunque ci mostrava la fisiologia dei momenti di impassee ci incoraggiava a non allarmarci e ad aver fiducia che un filo di senso si sarebbe snodato nel tempo.

 

B) LA FIDUCIA NEL METODO

 

Medri sapeva che lo strumento psicoanalitico era efficace, e sapeva di possederlo e che avrebbe funzionato dandogli tempo, lasciandosi in ascolto.

(In modo simile scrive Semi: “L’importante è che, come il paziente deve lasciarsi pensare, anch’io mi lasci pensare – e che entrambi stiamo ad osservare quel che passa, quel che succede”).

Diceva di darsi il tempo di pensare anche dopo la seduta: a volte mi chiamava dopo la supervisione dal treno e svelava l’arcano dietro un nodo rimasto irrisolto in supervisione: “Ecco cosa voleva dire! Ecco perché sentivi quello!”

La sua passione per il lavoro con i pazienti, e con gli allievi, era contagiosa.

Aveva uno stile non ripetibile, “alla Medri”, che restava stile personale anche nel linguaggio colorito e provocatorio dei suoi commenti, non sempre da salotto buono.

Era aperto e curioso, autorevole, fulminante, capace di sorprendersi, comunicativo; una sua risata ti sommergeva, ma mai, mai ti seppelliva.

Aveva questo doppio registro, che trasposto in campo artistico potrebbe essere così descritto: da pittore materico e concreto eppure anche da acquarellista, raffinato e lieve.

Poteva dire cose molto forti e non spostarsi da lì, ma anche accoglienti rispettandoti, e restare sempre autentico.

 

Aveva un sorprendente, grande tatto e garbo verso i colleghi in difficoltà nel gruppo... piuttosto sferzava i bravi, ma aveva un gran riguardo verso i fragili.

Quando sentiva la sincerità di un tuo limite o l’autenticità di una tua scelta, lui, che era un po’ “caterpillar”, arretrava, seppure, magari, neppure concordasse, e con una tenerezza inaspettata, ti rispettava e accettava.

Rispetto e accettazione: elementi imprescindibili per un terapeuta, ma anche per un amico.

 

Guido era certo uno tosto, un combattente, gli piaceva anche esserlo, la sua volontà e predisposizione a lottare gli facevano da propulsore, ma non era solo questo; aveva anche dubbi e si interrogava.

Un verso della bella poesia della Del Zompo sulla speranza, che aveva imparato a memoria: “un dolore che non si arrende”, credo lo descriva bene.

Gli devo molto e la cosa rara è che non ha mai preteso nulla in cambio. Come dovrebbero fare i veri maestri, gli amici e le belle persone con una marcia in più.

 

Lo so, vi ho proposto un aperitivo, non un pranzo. Ma adesso passo al pranzo, cioè alle sue parole.

Lo scritto, forse del 2002, era per le Giornate Residenziali della Scuola ed era diretto agli allievi. A noi lo diede pochi anni prima del 2014.

 

La lettura integrale durerebbe troppo; ho cercato di contenerla pur rispettandola al massimo. Propongo alla vostra attenzione una serie di citazioni, a mio avviso particolarmente significative.

 

 

Da ELEMENTI FONDAMENTALI DI PSICOTERAPIA PSICOANALITICA

di Guido Medri

 

Per prima cosa devo commentare il titolo della mia relazione, perché è troppo altisonante… È evidente, infatti, che uno scritto di qualche pagina non possa sviluppare che qualche breve concetto, (da ampliare ovviamente in altra sede).

 [...]

Anni fa ho tenuto una relazione sui modelli impliciti che guidano la pratica del terapeuta.

Sandler sosteneva che gli analisti seguono nel loro lavoro dei modelli clinico pratici che si erano venuti formando nella loro mente, a livello preconscio e che differivano da quelli della letteratura.

Ero anch’io di quest’opinione, lo stesso Freud non si comportava esattamente come aveva descritto si dovesse fare.

[...]

La letteratura analitica é sterminata, di una vastità terrificante: solo lo studio di Freud porta via degli anni e poi rimangono decine di altri autori.

Ho pensato, quindi, che potesse interessare agli allievi sapere quali siano, per me, i punti più caratterizzanti della mia pratica clinica e intanto, io avrei fatto lo sforzo, (grazie allo stimolo da Daniela Maggioni a scrivere queste righe), di capire meglio come lavoro e i principi teorici a cui faccio riferimento.

Ecco quindi come avrei dovuto intitolare la relazione:

Gli elementi, per me, fondamentali di psicoterapia psicoanalitica.

Si tratta poi naturalmente di non essere troppo esigenti: non c’è nessuna teoria che copra il campo della clinica, dice Friedman nel suo monumentale lavoro “Anatomia della psicoterapia”, e io sono pienamente d’accordo.

Per giunta, io stesso sono un clinico in continua evoluzione.

Cremerius, diceva che col tempo si era venuto formando nella sua mente un insieme integrato di nozioni, qualcosa che gli sembrava una specie di palla, per cui poteva insegnare...non è il mio caso, purtroppo posso solo affermare alcuni concetti, quelli che troppo spesso mi si ripropongono per non essere considerati qualcosa di stabile. Ma tutto il resto è in discussione.

Forse, il modo più semplice e chiaro per dare un’idea di come la penso e quella di fare riferimento ai testi che per me sono stati, sopra a tutti, veramente importanti.

Ne citerò in particolare cinque, due di Freud, uno di Loewald, uno di Racker e l’ultimo di Reich.

 

Partiamo da “Inibizione, sintomo e angoscia” del 1925.

Freud, discutendo del sintomo del piccolo Hans e dell’Uomo dei lupi, arriva alla conclusione che la fobia di entrambi sia il sostituto deformato dell’angoscia di evirazione.

Il cavallo che morde Hans e il lupo che divora il Russo, sono raffigurazioni della figura del padre e di un suo eventuale attacco.

I due fantasticano della violenza paterna, in relazione a ciò che provano per lui.

Hans è in piena fase edipica e prova aggressività verso suo rivale, l’Uomo dei lupi, al contrario, è mosso da sentimenti di tale tenerezza da supporre di non essere un maschio.

La fobia esprime il conflitto relazionale in forma travestita, e soprattutto ha la funzione di nascondere il tanto temuto moto pulsionale nei confronti del padre.

Essa, quindi, è al servizio della rimozione e ne consegue allora che sia l’angoscia a far sì che scatti la rimozione.

La teoria precedente sosteneva esattamente il contrario, ossia che la libido rimossa si trasformasse in angoscia, (il che comportava che l’angoscia fosse conseguenza della rimozione e Freud non può che ammettere, cosa che fa con la massima franchezza, di avere sbagliato).

Le conseguenze di questo nuovo modo di vedere sono di enorme portata.

[...]

Ridefinisce il come e il perché della rimozione, aggiunge quindi un tassello fondamentale alla teoria, se è vero che la rimozione è, come dice Freud, la pietra angolare della psicoanalisi.

[...]

Adesso, si afferma che si ha paura che il moto pulsionale provochi una reazione da parte dell’oggetto, con un danno per il soggetto.

Quella rappresentazione pulsionale insomma evoca un pericolo e bisogna difendersene, rimuoverla.

La naturale istintualità del bambino deve adattarsi all’ambiente nel quale si trova, per motivi di semplice sopravvivenza.

[...]

Quelle aspettative che non possono venire accolte è quindi meglio disconoscerle, rimuoverle.

[...]

Altrettanto importante, sul piano teorico, è chefinalmente l’oggetto trova il posto che gli spetta.

La teoria infatti si fa relazionale.

 

Da questo scritto emergono aspetti fondamentali anche dal punto di vista clinico.

Primo punto:

si attribuisce all’angoscia un ruolo chiave nel determinare lo stato affettivo del paz e quindi il comportamento; ed è quello che ci dicono i pazienti i quali non fanno altro che evitare situazioni che la provochino.

Secondo punto:

Si evidenzia l’errore del funzionamento nevrotico. Il segnale ansioso dovrebbe avere una funzione adattativa, in quanto ci indica il pericolo affinché lo si eviti, ma, in questo caso, scatta per così dire in automatico, in relazione ad un pericolo che attualmente non c’è più, con il risultato che col ripetere un tuo comportamento finisci coll’evitare proprio quello che più desideri.

 

L’importanza della ricaduta sulla clinica di questo testo arriva ad una acquisizione fondamentale: quella del ruolo dell’analista nella relazione analitica (Guido era tra quelli che non pensavano bastasse capire, per quanto conditio sine qua non, ma anche che dovesse accadere una nuova esperienza con un nuovo oggetto, con cui accogliere e integrare meglio i desideri rimossi. Quindi, un conto è cogliere nel transfert la relazione difensiva, che il paziente porta avanti col terapeuta in una ripetizione del passato, e portarla a coscienza, e un conto é sintonizzarsi sul desiderio di transfert, rimosso, perché non è stato accolto [ndr]).


Prima, si considerava che il moto pulsionale libidico andasse frustrato, così che crescesse di intensità e diventasse sempre più evidente, in modo da poterlo mostrare al paziente interpretandolo; da qui, la linea tecnica dell’astinenza, neutralità, anonimato .

Ora, la strada non può essere che l’opposta, cioè far sì che il moto pulsionale originario si attivi nella relazione, con l’obiettivo che il paziente si renda conto che esso non comporta il pericolo temuto.

Ad esempio, nel caso dell’Uomo dei lupi, si può amare teneramente l’analista com’era stato un tempo per il padre, senza per questo perdere la propria identità maschile...

Dunque, è necessario che l’analista non si sottragga al gioco relazionale, al desiderio di transfert, ma, semmai, lo alimenti.

Si tratta, come vedete, di un vero e proprio cambio di paradigma, Freud con la seconda teoria dell’angoscia, ci offre un quadro esplicativo che ci permette di lavorare in un modo completamente diverso da prima.

 

Veniamo al secondo libro:

[...] mi riallaccio al secondo scritto di Freud che volevo citare, il più importante dei suoi lavori sulla tecnica analitica: “Ricordare, ripetere, rielaborare” del 1914.

Cosa viene ripetuto? Un desiderio inconscio e le resistenze ad esso dopo la frustrazione del passato, e quello che ripete sarà la relazione che gli fa male e di cui vorrebbe liberarsi.

Es: Se una persona vuole da te una presenza costante, un accudimento sicuro, perché da piccolo si è sentito abbandonato, è possibile che invece faccia di tutto per mettere a soqquadro il setting, anche per farlo saltare, al fine di evitare la frustrazione intollerabile che si ripeta il fatto che sia l’altro a lasciarlo.

Vedi per esempio il paziente che non torna dopo le vacanze del terapeuta, o che se ne va via prima eccetera

Inoltre, occorre sottolineare che la ripetizione difensivasi presenta come un modo di stare con l’altro del tutto ovvio, egosintonico, si riproduce automaticamente, non presenta una causalità che il paziente possa afferrare e proporre in termini dubitativi.

Questo fatto si evidenzia nel modo più impressionante nel caso della vera e propria coazione a ripetere, la versione maligna della tendenza a ripetere.

Ricordo un paziente che si lamentava di quanto avesse sofferto nei suoi anni trascorsi in collegio e di quanto gli fosse mancata la famiglia, finché si è ritrovato senza lavoro e quindi ha abbandonato la terapia perché non aveva soldi. Lui sapeva di essere stato abbandonato, ma la ripetizione stava altrove, nel suo modo di fronteggiare il problema, ossia, abbandonando lui gli altri per primo, e non era per nulla in grado di fronteggiarla. Non la vedeva.

Prendiamo un altro esempio, un paziente che viene perché non sa relazionarsi con una donna in modo soddisfacente e costruttivo, pur avendone avute moltissime.

In analisi si evidenzia l’altra parte del problema, del tutto al di fuori dal fuoco della sua attenzione, quella del rapporto con l’uomo.

In famiglia la madre era onnipresente, mentre il padre era una persona brillante, seduttiva, che però si assentava continuamente per lavoro e aveva avuto varie vicissitudini .

Il figlio non lo aveva mai stimato e lo rimproverava di non averlo aiutato abbastanza.

In un sogno, si ferma ad un distributore di un paese straniero, vuole fare benzina, ma ha timore che il benzinaio lo freghi sul prezzo, approfittando del fatto che non ha dimestichezza con la moneta di quel paese.

È evidente che non si fida di me...

Gli succede poi nella realtà, qualche giorno dopo, di fare benzina nel chiosco sotto il mio studio e ha il dubbio di non avere pagato. Torna a controllare e il benzinaio gli conferma che è partito senza pagare. Alla fine del mese mi dá l’assegno e in banca non lo incassano ..perché non era firmato.

Come si fa terapia in una situazione del genere? Abbiamo a che fare con una persona impaurita che si considera lei stessa inaffidabile…

Con tutti, non solo con le donne, (non le sa amare e le tradisce, lo abbandonano), anche coi superiori ha un rapporto basato sull’ipocrisia.

Se interpreto i suoi comportamenti, facendoli risalire ai vissuti che ne sono alla base, certamente gli dó un grande aiuto, perché capisce se stesso e così, da un lato, sdrammatizza il pericolo che egli sente di essere per gli altri e gli altri per lui, e, dall’altro, può cominciare a chiedersi perché lui sia così, perché continui a fare così.

Qui sta la grande efficacia delle interpretazioni.

Gli mostro che siamo in una situazione diversa, gli mostro i fraintendimenti che gli derivano da inconsce esperienze passate e quindi ciò che lo trae in errore.

Utilissimo, ma basta?

Un paziente viene per anni a sentirsi dire dove sbaglia?

Come può fare per cambiare e crescere? Basta sapere?

Tutto questo preambolo, per arrivare a quello che, per me, è la chiave della terapia, l’incontro con un nuovo Oggetto

 

E vengo al terzo testo, un articolo che è stato per me veramente di grande importanza, quello di Loewald, comparso sull’International Journaldel 1960, dal titolo “On the therapeutic action of Psychoanalysis”, ve lo riassumo in due parole e molto, molto liberamente. Ciò che più mi aveva colpito tanti anni fa, è che non si parli tanto dell’analisi come la messa in discussione del vecchio, di ciò che è stato, ma che l’analista venga definito come un nuovo oggetto con cui si ha una relazione nuova.

Affinché però questo succeda, occorre, paradossalmente, che io sia quello vecchio, cioè che l’analista sappia porsi al posto dell’oggetto dell’infanzia, altrimenti sarebbe estraneo al gioco conflittuale e ne rimarrebbe fuori.

È così che il paziente cresce e cambia, perché gli viene data la possibilità di riprovare gli antichi affetti e di risperimentarli, ma questa volta in chiave positiva, in una relazione nuova.

Ipotizza, nel desiderio di transfert, una realistica domanda di aiuto e di crescita, che va soddisfatta in analisi.

[...]

A mio parere questo scritto, insieme a “Inibizione, sintomo e angoscia”, che lo ha preceduto di 35 anni, ha gettato le basi per il grande cambiamento tuttora in corso verso l’ottica relazionale in psicoanalisi.

È stata la sua lettura che ha stimolato il mio interesse per Stone e soprattutto Kohut.

[...]

L’analista, ossia il nuovo oggetto, offre quelle funzioni e quelle qualità che mancavano all’oggetto del passato e che il paziente va cercando.

Per esemplificare, torniamo al paziente. È giusto che gli dica del fatto che non si fida, che si affrontino il transfer negativo, le resistenze,

[...]

...il dato centrale tuttavia, così come compare nel sogno, è che la sua auto è senza benzina e lui si ferma da un benzinaio, questa è la domanda di transfert ed è una domanda realisticae sulla sua legittimità non si discute.

Nel senso che non si elabora analiticamente, perché non è nient’altro che il motivo per cui il paziente si trova in terapia.

Lo stesso vale per la risposta: mentre faccio la parte del benzinaio che offre quel che ha, non mi interrogo sul mio agito, perché esso corrisponde alle funzioni di cui mi sono fatto carico nel momento in cui ho preso il paziente in terapia .

Dunque, non può che trattarsi della messa in atto di un moto affettivo che ha ormai gettato l’analista nella relazione.

Ora, che cosa poi del mio dire o del mio fare, significhi dargli benzina e come io possa darla, questo, è un problema tecnico, forse il problema tecnico più appassionante dell’analisi.

Dipende dal contesto, dal tipo di patologia, dalla personalità dell’analista, insomma da molte variabili.

Fra gli autori recenti che più si sono interessati a questo tema vanno citati ad esempio Mitchell, Hoffman, Stern e colleghi.

[...]

È un argomento di così vasta portata… [che non posso fare altro che richiamarlo alla vostra attenzione].

[...]

Per spiegarmi meglio, faccio riferimento al penultimo testo che vi volevo proporre,

quello di Racker, dal titolo Studi sulla tecnica psicoanalitica.

Racker commenta con grande finezza l’accadimento analitico, fino ad affermare una verità che Cremerius nei suoi seminari ci ha più volte ripetuto, e cioè che non si tratta di un rapporto tra un paziente con un medico, ma, tra due persone “malate”, nel senso che anche il terapeuta è agito dall’inconscio, la differenza fra i due è, essenzialmente, che questi ha già fatto un’analisi e dunque si pensa sia più strutturato più informato e più in grado di capire, compito che in effetti spetta soprattutto a lui.

La lezione di Racker che a me è più servita, sta però nelle sue riflessioni sul controtransfert.

Dopo aver ribadito di essere del parere di Paula Heiman, cioè che il controtransfer permette di capire il transfert, egli distingue nella risposta del terapeuta due momenti emotivi che chiama: identificazione concordante e complementare.

La prima è l’identificazione con il paziente, coi suoi desideri, la seconda è l’identificazione con gli oggetti interni, essenzialmente con il suo Superio.

[...]

A mio parere il lavoro dell’analista sta nella dialettica tra questi due momenti.

Riporto un esempio curioso e divertente, tratto da una supervisione.

È il caso di un paziente lasciato da una compagna fallica, che lo ha costruito come un uomo di successo, per poi andarsene quando lui si è trovato in difficoltà. La terapeuta lo segue una volta la settimana in un servizio pubblico. Le consiglio di accogliere il paziente per quello che è, nel suo stato di impotenza e depressione.

La terapeuta si sente però dire dal Tutor di fare delle interpretazioni; torna allora da me per farsi ridire che l’obiettivo è una terapia d’appoggio e nulla più, ma l’altro insiste nel prescrivere un atteggiamento interpretativo.

La collega è interessata dal confronto tra le due tecniche, ma ciò che accade veramente è che l’altro le suggerisce di mettersi al di sopra del paziente, facendo sì che lui capisca, (esattamente come faceva la sua donna), mentre io le propongo di stare col paziente nel suo bisogno di sentirsi accolto nella sua incapacità, nei suoi fallimenti.

Una identificazione complementare quella del Tutor, concordante la mia.

La discussione a distanza tra me e l’altro terapeuta, in realtà è un dialogo interno controtransferale.

Sembra quello che dice Weiss: il paziente, con la dichiarazione della sua impotenza, si aspetta una donna dominante, ma spera, senza dirlo ovviamente, di essere invece accettato per quello che è.

La differenza però sta nel fatto che noi capiamo come fare, non con una strategia.... a tavolino, ma attraverso una duplice identificazione che porti il terapeuta dentro il contesto emotivo della relazione, facendo sì che la risposta al paziente attraversi prima il doppio vissuto controtransferale.

 

Provo ora a concentrare in una formula quello che ho detto:

-Fare analisi significa ridare al paziente gli affetti che sono andati perduti, rimossi.

-Il desiderio di transfert è il motore della terapia.

-L’analisi finirà quando il paziente saprà utilizzarlo come il motore della sua vita.(cercare di avere quel che desidera, non evitarlo ndr).

-Fare analisi, dalla parte dell’analista, non significa solo mostrare al paziente che vuole quel buon genitore, ma anche esserlo.

 

A questo punto vi chiederete che fine ha fatto la frustrazione?

C’è pure quella e vorrei vedere che non ci fosse! Essa è una delle funzioni essenziali di un buon genitore, che deve saper essere frustrante quando è il momento di esserlo.

Questo tema mi dà l’opportunità di richiamarvi all’ultimo autore citato: Wilhem Reich e al suo importante libro: “L’analisi del carattere”.

Mi riferisco naturalmente alla prima parte, perché la seconda tratta di altre cose.

Reich ci dà preziose indicazioni su come individuare e trattare il transfert negativo latente, è il primo analista che punta specificatamente la sua attenzione sul narcisismo difensivo, un tema di oceanica vastità e sempre più attuale ora che ci si rende conto di quanto sia periglioso il percorso analitico e sempre più in forse i risultati.

A partire da lui, ne hanno parlato molti altri, come Kernberg, Rosenfeld, Baranger, Steiner, Zapparoli, Green eccetera.

In sostanza, il paziente avverte la relazione con l’analista come un pericolo per le compensazioni che si sono venute creandoin seguito alla frustrazione subita.

L’analista infatti, mentre ricostruisce i primi moti affettivi verso l’oggetto, deve confrontare il paziente con le aspettative onnipotenti che pervadono questi affetti, e con la realtà della sua figura.

Il trattamento di questi nuclei narcisistici qualifica l’intervento come propriamente analitico, se invece si resta al di qua si fa della psicoterapia.

Ho toccato un argomento di vitale importanza, ma non lo posso per ragioni di tempo sviluppare.

D’altra parte ero partito con l’intenzione di scrivere una relazione il più possibile snella e mi pare che ne sia venuta fuori un’altra, piuttosto impegnativa da seguire.

 

Riassumo :

Si tratta di un’operazione volutamente a carattere riduzionistico che, da un canto, mi ha forzato ad individuare i punti salienti che informano il mio operare clinico, e, dall’altro, a dare delle indicazioni a chi sia all’inizio di questa professione, per individuare ciò che può essere più importante rispetto ad altro.

La domanda cui si cerca la risposta é:

Cosa è mutato nel mio modo di lavorare e di intendere la nevrosi e il cambiamento?

1) “Inibizione, sintomo e angoscia” (Freud 1925): la teoria si fa relazionale e fornisce la base teorica per un comportamento attivo e gratificante dell’analista, rispetto alla ortodossia della passività e della frustrazione.

2) “Ricordare, ripetere, rielaborare” (Freud 1914) ci fa intendere la nevrosi come ripetizione.

3) “On the therapeutic action of psychoanalysis” (Loewald 1960) ipotizza, nel desiderio di transfert, una realistica domanda di crescita, che va soddisfatta in analisi.

4) Studi sulla tecnica analiticadi Racker, 1970: viene illustrato il movimento emotivo dell’analista, come un dialogo tra due forme di identificazione, la concordante e la complementare.

5) Analisi del carattere di Reich, 1978, ci dà preziose indicazioni sul transfert negativo latente, e concentra l’attenzione sul narcisismo difensivo. 


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