1- Vorrei iniziare con una domanda tecnica all’infettivologo: cosa di specifico distingue e rende più grave, sotto il profilo clinico, il Covid-19 rispetto alle epidemie virali che ci hanno colpito negli ultimi decenni?
R. Innanzitutto vorrei ringraziarti molto per questo invito: è un piacere poter collaborare con te, tanti anni dopo essere stato un tuo alunno al liceo. Grande insegnante, una fortuna.
Purtroppo questa pandemia, come in genere le altre grandi pandemie della storia dell’uomo, ha un grande impatto in termini di mortalità, di morbosità, incluso un serio impatto sulla nostra psiche, e sulle relazioni interpersonali. Questi effetti si vedranno probabilmente per anni a venire.
Il SARS-CoV-2 è riuscito a mettere insieme alcune caratteristiche che rendono questa pandemia unica, come la vediamo tutti i giorni ormai da quasi un anno. Il virus si trasmette molto bene per contatto e per goccioline (droplet in inglese): nelle fasi più critiche della pandemia il valore di R0 (o RT), l’indicatore epidemico di trasmissione dell’infezione, diventato patrimonio culturale di tutti, è arrivato a circa 2,5. Ciò significa che ogni persona ne infetta altre 2,5: non poco. Ma neanche troppo, dato che il morbillo, una delle malattie più contagiose, ha un R0 di 18 , cioè 7 volte più contagioso del Covid-19. Un secondo aspetto critico è rappresentato dalla frequente assenza di sintomi: circa la metà dei pazienti sono totalmente asintomatici o paucisintomatici e possono quindi diffondere l’infezione in modo involontario. In queste persone solo la ricerca del virus con il tampone nasale può permettere di identificare il virus. Il terzo aspetto importante è rappresentato dalla morbosità, cioè da quanti pazienti presentano sintomi rilevanti che possono rendere necessario il ricovero, e dalla mortalità. I soggetti sintomatici sono circa il 40%, mentre il 20% degli infetti richiede un ricovero. La mortalità invece è stimata intorno all’1,5%
In realtà questa mortalità non è elevatissima, se la paragoniamo per esempio a quella di infezioni come Ebola, che causa la morte del 35-70% degli infetti, arrivando in alcune epidemie addirittura al 90%. L’alta percentuale di soggetti asintomatici o paucisintomatici da un lato, la discreta morbosità e mortalità, in particolare nelle persone di età superiore ai 65 anni, associate alla elevata trasmissibilità del virus, rendono questa pandemia unica. Questo spiega i numeri dei dispacci della Protezione Civile che contano spesso decine di migliaia di casi ogni giorno, migliaia di ricoveri e centinaia di morti. Anche una morbosità e una mortalità relativamente basse, ma su un numero così elevato di casi, possono avere un impatto disastroso sui Servizio Sanitari, inclusi quelli evoluti, come il nostro. L’elevato numero di pazienti con polmonite, determina un rapido afflusso in ospedale - pochi giorni durante la prima ondata, un poco più lentamente nella seconda - con una rapida saturazione dei posti letto prima dei reparti di degenza normale e, dopo 3-7 giorni, delle terapie intensive. E’ utile sapere che quando viene detto che in un solo giorno il numero di pazienti che hanno avuto bisogno di essere ricoverati in terapia intensiva è aumentato di 100 unità - potrebbe sembrare poco - si sta parlando dei saturare in 24 ore l’equivalente di 10 ospedali delle dimensioni di quello di Cremona, un ospedale di medie dimensioni nel panorama sanitario nazionale.
La mancanza di una terapia realmente efficace rende ancor oggi la gestione del Covid-19 molto complessa: questo aspetto, oltre ad avere un importante impatto di salute pubblica, ha anche un notevole ricaduta sulla sensazione di impotenza e di stress dei sanitari e e della popolazione generale.
2- Vorrei porti dei quesiti che vanno certamente anche al di là del problema Covid e di problemi di eccezionalità ed emergenza medico-sanitaria. Ecco un primo quesito:
Il clinico, medico ma anche psicoterapeuta, è abituato a lavorare con la cosiddetta “ bilancia del farmacista “, valutando per ogni scelta terapeutica i pro e i contro, i costi e i benefici. La lotta al Covid ha comportato costi elevatissimi, specialmente a livello economico. Ma anche a livello psicologico perché ha sottratto gli individui agli incontri umani abituali, al guardarsi in faccia, toccarsi, muoversi liberamente negli spazi. La valutazione, essendo anche e soprattutto di ordine qualitativo, non può che essere relativa e personale. Posso chiederti qual è la tua valutazione?
R. Le scelte fatte durante la pandemia sono state senza dubbio estremamente difficili e dure per tutte le società del pianeta. Purtroppo in questo frangente si sono dovuto fare scelte aggressive, non secondo la tradizionale prudenza e moderazione ben raffigurato dal bilancino del farmacista ma secondo criteri di emergenza. Ci troviamo spiazzati perchè l’infezione causa una forma respiratoria acuta che non si può non curare e che richiede l’accesso al pronto soccorso, il ricovero in reparto e spesso le cure in terapia intensiva: non si tratta di una patologia procrastinabile nella gestione, anche se le cure sono solo marginalmente efficaci.
Come hai ben detto, agli elevatissimi costi economici si aggiungono i costi sociali e i costi psicologici. Non credo che questi ultimi abbiano rappresentato nella prima fase di clausura o lockdown un aspetto tenuto in particolare considerazione, ma forse in primavera non era ancora il momento giusto per considerare questi aspetti per il ruolo che realmente vestono. Credo che in questa seconda ondata, più vasta della prima in termini geografici e che viene dopo mesi di sofferenza e di illusione, l’aspetto psicologico sia stato valutato con maggiore attenzione. Mi fa piacere in particolare che le scuole, anche se solo parzialmente, siano rimaste aperte perchè sono un servizio essenziale, come gli ospedali: ritengo che il legislatore e i tecnici abbiano considerato anche l’aspetto psicologico dei nostri bambini e dei nostri giovani quando hanno deciso come riapre le scuole. Si sono riaperte solo le scuola primarie e la prima media, mentre con la reintroduzione delle zone rosse gli adolescenti dovranno ancora soffrire sia le carenze educative che quelle psicosociali. Spero che la chiusura non si protragga per tempi lunghi per i possibili effetti sui giovani. Purtroppo l’isolamento richiesto dalla nuova ondata, anche per le persone anziane, è molto triste e richiede oggi e richiederà in futuro un forte supporto emotivo e psicologico ai nostri cari, che dobbiamo pensare e organizzare da oggi. Anche il Natale sarà una festa diversa quest’anno e dovremo cercare di capire come sarà possibile gestire al meglio questa necessità.
Credo che una rigida adesione alle regole di prevenzione possa - avrebbe potuto - permettere di controllare almeno in parte la pandemia riducendo l'impatto sanitario, economico e psicologico: 1) uso sistematico delle mascherine, a cui comunque noi della provincia di Cremona ci siamo abituati, obtorto collo, ma forse questo non vale in tutto il Paese o in tutta il pianeta; 2) igiene delle mani: facile; 3) distanziamento interpersonale: difficile, soprattutto per un popolo come il nostro, ma ritengo che un po’ di distanziamento non sia difficile, soprattutto per chi abita in zone dal clima mite, dove è più facile fare due chiacchiere in piazza. Tutto questo è senza dubbio vantaggioso rispetto all’isolamento necessario durante la quarantena. Cerchiamo di prepararci alla terza ondata, in attesa di vaccinarci.
In ospedale abbiamo vissuto e stiamo vivendo la parte forse più dura del distanziamento, della possibilità di incontrarsi, di guardarsi in faccia, di toccarsi. I malati sono soli, anche se aiutati dai mezzi tecnologici - telefonini e tablet - ma il contatto fisico è importante. Si è soli nella sofferenza e si è soli anche nella morte e quesa è uno degli aspetti più terribili di questa pandemia.
3- Gli effetti della lotta al virus sono anche più sottilmente insidiosi. Si è creato un clima di medicalizzazione certamente assolutamente necessario nell’emergenza, ma che potrebbe contribuire a incrementare processi pervasivi di controllo sociale, che potrebbero ledere l’assetto liberale e democratico della società. Ci sono limiti che forse non dovrebbero essere superati?
R. È difficile stabilire quali sono i limiti in un fase sanitaria così complessa e concitata. Conosco diversi membri del Comitato Tecnico Scientifico, il gruppo di esperti a cui tocca l’ingrato compito di definire le indicazioni tecniche per il controllo della pandemia, e so che sono persone equilibrate, di ampie e rigorose vedute: non dubito che abbiano considerato questi aspetti così critici con estrema attenzione.
Forse la applicazione Immuni che traccia i contatti fra esse umani, ne tiene memoria e informa chi deve decidere l’eventuale quarantena, può rappresentare ciò che potremmo vivere in futuro distopico, come è già stato raccontato da Orwell e Huxley in “1984” o “Il mondo nuovo”. I limiti della nostra libertà sono però già stati ampiamente superati dall’uso diffusissimo degli smartphone attraverso i quali possiamo già ora essere controllati da sistemi di intelligenza artificiale per indirizzare le nostre scelte commerciali ma anche politiche, si pensi al caso di Cambridge Analythica, e da eventuali registrazioni umane a scopo di spionaggio, come purtroppo possiamo sperimentare quotidianamente con le pubblicità sui nostri telefonini che seguono i nostri discorsi, capitando parole chiave. Forse questa evoluzione distopica e anche dispotica non avverrà a breve nel nostro Paese ma il cima di medicalizzazione controllata potrebbe avere influssi negativi nelle zone del pianeta meno democratiche. Forse questa pandemia potrebbe farci riflettere con attenzione a quali sono i limiti invalicabili della nostra libertà e dei nostri diritti.
4- Si è imposta, e ben prima del Covid, una nuova concezione della vita, per la quale la malattia e la morte devono essere combattute con ogni mezzo; ma la malattia e la morte non fanno pur parte della vita? Combattere malattia e morte “ con ogni mezzo “ può arrivare a ledere la dignità e la libertà del vivere?
R. La morte fa parte della nostra vita, anche se questo può sembrare un ossimoro. Non accettiamo più la morte dei nostri cari anche quando l’età raggiunta sarebbe stata impensabile solo trenta o quarant’anni fa. A mio parere dobbiamo sforzarci di offrire alle persone una buona vita, quanto più felice possibile, non una vita lunga a tutti i costi, anche a quelli di una continua terribile sofferenza. Cercare una soluzione equilibrata per la nostra morte è un obiettivo importante e molto difficile. Credo che su questo tema possa essere d’aiuto l’esperienza di una comunità statunitense dove era stato impostato un programma per far definire a tutti i cittadini quali erano le volontà in caso di una malattia non curabile. La grande parte della popolazione scelse di evitare l’accanimento terapeutico, di non sopravvivere a tutti i costi. Il risultato di queste scelte è stato da un lato, ovviamente, una riduzione del numero di ricoveri e del tempo trascorso in ospedale e dall’altro, paradossalmente, un aumento della durata della vita. In alcune situazioni cliniche meno cure voglio dire meno sofferenza e anche più vita. Consiglio di leggere sull’argomento il bel libro “Essere mortale” di Atul Gawande, un chirurgo oncologo statunitense che insegna a Harvard. Credo sia necessario trovare il giusto equilibrio e non eccedere nella protezione della vita a tutti i costi: una morte dignitosa è meglio di una vita di sofferenza.
Nel corso di questa pandemia il problema della morte si è posto in modo drammatico ma con aspetti ben diversi da quelli che siamo abituati a affrontare: a volte si è dovuto affrontare la scarsità di risorse umane e strumentali e non si è riusciti a curare pazienti che forse sarebbero potuti sopravvivere all’infezione e che invece non ce l’hanno fatta: è stata molto dura per i pazienti in primis ma anche per i familiari e per i sanitari. Non si trattava di difendere la vita a tutti i costi ma di offrire ciò che oggi, nel nostro sistema, viene considerato un livello di assistenza normale. Dobbiamo cercare di contenere le dimensioni della pandemia per evitare un eccessivo impatto sugli ospedali e per poter gestire in modo adeguato le persone malate, per non doverci trovare a non poter assistere chi normalmente verrebbe curato. Non possiamo passare da un eccesso ad un altro.
Proprio a questo riguardo, soprattutto in questa seconda ondata epidemica, sono emersi ulteriori aspetti legati indirettamente alla morte, con alcune affermazioni infelici sull’inutilità degli anziani. Sembra che si sia passati da una protezione tout court della vita ad una certa insofferenza nei confronti di chi, appartenendo a categorie ad alto rischio per il Covid-19, ammalandosi può saturare gli ospedali e i reparti di terapia intensivA, causando gravi problemi al servizio sanitario e quindi un grande impatto sull’economia. Forse queste persone potrebbero più semplicemente ammalarsi e morire?
Il tema della morte associato a Covid-19 è complesso in quanto ci troviamo di fronte a persone che nella maggior parte dei casi godevano di una buona o di una discreta salute, magari erano ipertesi o soffrivano di diabete come tanti, e che sono stati colpiti da una patologia infettiva acuta potenzialmente guaribile. Dopo l’infezione avrebbero potuto tornare ad una vita come quella precedente, magari per molti e molti anni. Solo molto di rado ci siamo trovati di fronte al paziente oncologico terminale, con una breve aspettativa di vita. La difesa della vita nell’evento acuto ha contorni diverso rispetto a quelli della gestione delle ultime fasi dell’esistenza in pazienti terminali. D’altra parte questa infezione ha colpito molto anche i grandi anziani per i quali un evento acuto critico, della più diversa origine, rappresenta spesso la causa della morte.
5- Si è anche imposta l’idea che il “ rischio “deve essere, costi quel che costi, combattuto ed evitato. Ma il rischio non è a sua volta condizione ineliminabile del vivere? Una lotta assolutizzante al rischio (sanitario o meno) non può impoverire la vita e costringerla dentro strettoie sempre più immobilizzanti?
R. Questa è una domanda difficile per uno come me che fa l’infettivologo e che vive costantemente a contatto con persone con malattie trasmissibili, con il rischio di acquisire infezioni più o meno gravi. Nella mia vita professionale mi sono specializzato nella prevenzione e nella cura della infezioni correlate all'assistenza e quindi alla prevenzione del rischio associato alle cure. Non sono un amante del rischio e, per esempio, anche se amo la montagna, non mi piace arrampicare o camminare su sentieri pericolosi: ci sono sempre bellissime alternative, a basso o bassissimo rischio. La mia risposta ha quindi basi personali particolari. Per rispondere però alla domanda, osservo che in questi ultimi anni è cresciuta nella popolazione e nelle istituzioni una grande sensibilità della prevenzione del rischio, che condivido: come dicevo, mi occupo anche di infezioni acquisite nelle strutture sanitarie e credo che ammalarsi o morire per una procedura eseguita in modo inadeguato sia da evitare a tutti i costi. A questo proposito trovo interessante il sistema di riduzione del rischio di incidenti, basato sull’uso di liste di controllo o checklist, che da decenni è stato organizzato dal settore dei trasporti aerei, e cha ha contribuito in modo importante all’aviazione di divenire oggi il sistema di trasporto più sicuro a mondo con 0,06 morti per miliardo di km percorsi, 100 volte meno dei viaggi in automobile. Nonostante tutto credo che molte persone abbiano più paura di viaggiare in aereo che in auto. IL trasferimento di queste strategie anche alla medicina, processo iniziato non molti anni fa potrebbe determinare grandi miglioramenti con un impegno di risorse piuttosto modesto.
L’eliminazione totale del rischio non è evidentemente possibile: la vita in sé comporto il rischio costante di terminare per le più svariate cause e tutti purtroppo moriremo. Già Cicerone scriveva che neppure un diciottenne è certo di arrivare alla fine delle giornata e questo concetto vale ovviamente ancora oggi. E questo anche se il rischio di morire giovani si è nettamente ridotto e la nostra aspettativa di vita si è allungata di moltissimi anni. Non possiamo pensare di vivere senza correre alcun rischio: il rischio deve essere però identificato, compreso ed eventualmente vissuto con raziocinio, soprattutto evitando a mio parere di estenderlo ad altre persone. E’ sempre necessario un confronto aperto e sincero per capire fino a dove ci si può spingere nell’affrontare il rischio senza causare danni ad altri. Strategie anche semplici possono permetterci di vivere riducendo il rischio di ammalarci o di fare ammalare qualcun altro e questo è reso evidentissimo dalla attuale pandemia che si diffonde fra gli uomini attraverso alcuni comportamenti e che possiamo limitare seguendo comportamenti a più basso rischio. Nel caso di una pandemia il problema è complesso in quanto il rischio per una persona rappresenta quasi sempre il rischio anche per altri, che potrebbero ammalarsi anche in modo grave e morire. Le regole e i suggerimenti di vita e di comportamento devono essere semplici e chiare e permettere a tutti di metterle in atto.
Si è sentito spesso sui giornali e in televisione parlare delle strategie di prevenzione - mascherine, igiene delle mani e distanziamento - da utilizzare per ridurre il rischio: son strategie teoricamente semplici, ma fino a dove siamo in gradi di accettare queste indicazioni? Possono i giovani vivere la loro vita isolati, senza contatti fisici, senza vivere insieme? E cosa possiamo dire dei nostri vecchi, anche loro costretti a vivere più isolati, lontano dalla vivacità e dalla attualità della vita di figli e nipoti? Quanto ancora dovremo soffrire queste limitazioni e quanto saremo in gradi di farlo? Le risposte a queste domande sono molto difficili.
La pandemia ha messo in evidenza come una parte importante che emerge oggi in termini di rischio è quello legato alle patologie acute, come l’infarto miocardico o l’ictus, o evolutive, come i tumori, che risentono della sofferenza del servizio sanitario legato al Covid-19. Vi sono dati che dimostrano un aumento del rischio di morte per le patologie tempo dipendenti perché le persone hanno paura di andare in ospedale, così come si ritardano le visite per problematiche oncologiche, riducendo così le possibilità di cura. Questa situazione mette sotto pressione molti specialisti che da un lato si trovano a dover assistere pazienti affetti da Covid-19 per la cui gestione non hanno tutte le competenze e dall’altro non riescono a curare i pazienti di loro competenza con un ulteriore carico di stress: una situazione di doppio rischio o di doppio incubo se vogliamo parafrasare Schnitzler.
Negli ultimi tempi queste tensioni, relative alla gestione dei pazienti non malati di Covid-19, si stanno scaricando sulle istituzioni ma forse anche sui colleghi di riferimento per la gestione dei pazienti affetti da Covid-19, infettivologi, pneumologi, internisti, intensivisti. Questa nuova situazione clinico-relazionale porta con se ulteriori complicazioni di tipo psico-sociale nella cura di una patologia già difficile da gestire sotto il profilo clinico e ancor di più sotto quello psicologico. Sarebbe necessaria una forte risposta della società e delle istituzioni sanitarie nel loro insieme, ma queste oggi appaiono sotto pressione e difficilmente riusciranno a gestire queste inedite tematiche.
6- Torniamo al problema specifico del Covid-19. In attesa del vaccino, come prepararsi, non solo come individui separati ma anche come società civile e, soprattutto, come istituzioni sanitarie, all’eventualità di una seconda ondata o, addirittura, a possibili future nuove emergenze epidemiche?
R. Credo che aver lasciato questa domanda nell’intervista, domanda che avevi pensato all’inizio di agosto, sia utile perché ci fa capire quanto rapidamente si sono modificate le cose. Da allora tanto è cambiato e le nostre speranze di non dover affrontare un secondo picco pandemico si sono progressivamente ridotte e quindi infrante, dopo esserci illusi di essere riusciti a trovare una strategia realmente efficace ed aver anche ricevuto i complimenti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Come dobbiamo prepararci come singoli credo sia molto complesso da definire. Dobbiamo difenderci dall’infezione, sopratutto se non siamo più giovani, seguendo le semplici regole che tutti abbiamo imparato in questi lunghi mesi: mascherina, igiene delle mani, distanziamento interpersonale. Dal punto di vista tecnico sono tutte indicazioni semplici che però si scontrano con il nostro modo di essere, di esistere, con il nostro modo di socializzare e di relazionarci con i nostri simili. Le distanze interpersonali non sono uguali in Italia e in Svezia, né lo è la vita di famiglia: i Paesi dove si vive una vita più solitaria sono a minor rischio, noi latini corriamo invece un rischio più elevato.
Come dicevamo prima, le pandemie si diffondono per i comportamenti degli uomini: il microbo sfrutta le nostre abitudini e si trasmette nella popolazione. Solo un cambiamento delle abitudini ci può permettere di controllare questa diffusione, ma questi cambiamenti sono difficili perché le relazioni interpersonali sono la base fondante della nostra vita di animali sociali e se anche si possono ottenere delle modifiche dei comportamenti per qualche tempo, questi sono poi difficili da mantenere nel lungo periodo. Se guardiamo i comportamenti sociali dei primati superiori vediamo come le relazioni fra i soggetti siano spesso molto strette, molto simili alle nostre, con abbracci, carezze: le relazioni interumane si sono evolute nell’arco di milioni di anni e modificarle è estremamente difficile. Abbiamo già seguito scrupolosamente le regole della pandemia per due mesi in primavera, con ottimi risultati virologici ma con un impatto psico-sociale tutt’altro che indifferente, continuare così probabilmente per un altro anno è veramente molto molto faticoso.
7- Ha colpito molto il tracollo del sistema sanitario lombardo. Quali nuove misure sono state introdotte e cosa, soprattutto, si dovrebbe ancora fare, a tuo avviso, perchè il sistema ospedaliero regga possibili nuove ondate?
Nel corso degli ultimi 20 anni il Servizio Sanitario Regionale Lombardo ha spostato il suo baricentro sull’ospedale e così il territorio è rimasto fragile, come abbiamo potuto osservare in questa pandemia. Un’altra scelta fatta dalla regione è stato il progressivo spostamento di una parte della sanità ai privati: negli ultimi anni si è osservato un calo generale dei posti letto nelle strutture ospedaliere lombarde ma un aumento dei posti letto nelle strutture private, con una tendenza esattamente opposta fra pubblico, che riduce, e privato, che invece aumenta l’offerta sanitaria. Sono stati inoltre soppressi i Distretti che hanno un ruolo centrale nel controllo della salute pubblica, permettendo una gestione coordinata della salute. Queste scelte hanno reso più debole un sistema che, per poter affrontare adeguatamente la pandemia, avrebbe dovuto contare su una medicina del territorio ben funzionante insieme ad un servizio pubblico molto forte. Certo, la pandemia da SARS-CoV-2 è stata un banco di prova unico e non previsto dalla maggior parte delle istituzioni nazionali internazionali, ma era comunque qualcosa che in parte si era già vissuto negli ultimi vent’anni, con la SARS nel 2003, che si era riusciti a contenere a poche migliaia di casi, e la pandemia di influenza suina H1N1 nel 2009 che ha infettato fra i 750 milioni il miliardo mezzo di persone causando fra 150.000 e 575.000 decessi. E’ da molti anni che nei congressi di malattie infettive si discute del problema di una grande pandemia: nel 1997 l’infettivologo americano Burke aveva ipotizzato una grande pandemia causata da un virus di origine animale della famiglia dei Coronaviridae e nel 2017 Hans Rosling nel suo libro Factfulness avevo posto una pandemia virale come sua prima preoccupazione per il benessere dell’uomo. Purtroppo investire in prevenzione è sempre molto difficile e poco utile dal punto di vista politico: se la pandemia non si manifesta perchè il sistema di prevenzione funziona non si può dedurre l’efficacia del progetto.
Nel periodo che è seguito alla prima ondata si è cercato di organizzare gli ospedali, ad esempio ristrutturando i Pronto Soccorso e attivando o potenziando alcune attività di collaborazione fra ospedale e territorio ma l’arrivo della seconda ondata pandemica non ha permesso di completare ciò che si era programmato. Purtroppo non credo che la storia del Covid-19 possa terminare con questa seconda ondata, anche se lo spero fortemente. La percentuale di popolazione positiva è ancora troppo bassa per poter pensare alla cosiddetta protezione da “effetto gregge”. Per affrontare in modo adeguato il futuro, e non solo il futuro del Covid-19 ma anche di altre ipotetiche pandemie, credo che sia indispensabile condividere i dati in modo trasparente a livello di ogni singola area così da poter capire qual è o stato dell’arte, quali sono i provvedimenti necessari e qual è l’efficacia degli interventi fatti. Inoltre ritengo fondamentale favorire una stretta collaborazione fra tutte le diverse componenti del servizio sanitario, ospedale e case di cura, territorio e strutture per anziani e di riabilitazione. I sanitari competenti devono potere condividere scelte e strategie partecipando attivamente ai “tavoli decisionali” nazionali, regionali e locali sia nelle fasi pandemiche ma soprattutto nei periodi non emergenziali al fine di contribuire tempestivamente all’adeguamento dei sistemi sanitari con l’obiettivo di rispondere alle esigenze di salute dei cittadini. Solo una vera gestione integrata può permetterci di gestire al meglio quanto rimane di questa pandemia, in attesa che arrivino i vaccini, ad oggi i migliori farmaci che abbiamo a disposizione. L’integrazione necessari oggi per gestire la pandemia potrebbe divenire un lascito importante per la gestione futura della sanità.