LO SGUARDO
di Emanuele Visocchi
Stiamo vivendo un'epoca. I filosofi scettici chiamavano epoché l'atteggiamento di sospensione del giudizio. Oggi, in qualche modo, per fronteggiare numeri impazziti, si ricorre a una sospensione generale – ma non certo imperturbabile, anzi piena di angoscia. E accanto alle piazze, agli sport, ai negozi e ai punti di ristoro, sembra esserci anche una sospensione dello sguardo. Ricordo le parole di un paziente, al termine del primo lockdown: auspicava che, costrette a indossare la mascherina, le persone imparassero a prestare più attenzione a ciò che comunicano gli occhi, uniche parti della faccia che rimangono svelate. Già dopo l'estate, un'altra paziente lamentava una perdita di identità per via del viso mascherato, "non abbiamo più un volto" aveva detto; e aveva osservato che, là dove non arrivava lo sguardo dell'altro, la gente tendeva a non curarsi: niente rossetto per le donne, uomini che si radevano la barba ogni due o tre giorni. Un aforisma di Karen Blixen, "non dal volto si conosce l'uomo, ma dalla maschera", si prestava ormai a un'interpretazione quasi letterale.
Dal canto mio, avevo ripreso a fare alcune sedute in studio, rispettando tutti i crismi di sicurezza: il ricorso al lavoro da remoto si era rivelato una discreta alternativa, ma non la soluzione ottimale: mancano i corpi e lo spazio che essi occupano, mancano gli odori, gli abiti, la postura. E mancano gli sguardi: sono rimasto interdetto quando ho scoperto che era impossibile guardarsi negli occhi da remoto: o si guarda dritto nella telecamera, perdendo totalmente la vista dell'altro, o si guarda l'altro senza mai poterne incontrare lo sguardo. Certo, la psicoanalisi nasce come clinica dell'ascolto, così che la voce e la parola sono vie regie per il lavoro - e forse anche per questo il remoto non è un palliativo sterile. Ma lo sguardo è un'altra via regia silenziosa e, proprio come il silenzio, se ne percepisce l'importanza quando viene a mancare. È anche vero che, come la parola non coincide con la voce, così anche lo sguardo non corrisponde alla vista né si riduce alla mera presenza di due occhi. Ce lo sta insegnando un essere invisibile, ma di cui sentiamo lo sguardo minaccioso e costante: c'è chi, da solo in strada, scruta ai lati prima di abbassare la mascherina, illudendosi di non essere guardato dal pericolo solo perché non lo vede; oppure la sistema meglio, perché ha incrociato gli occhi di un altro passante e in essi ha scorto lo sguardo del virus. In modo improprio, quindi, si dice che gli occhi sono lo specchio dell'anima: lo è lo sguardo, che oggi ci restituisce il riflesso di anime impaurite. Il noto detto spesso inganna anche in altro modo: ovvero che gli occhi siano lo specchio dell'anima di chi li possiede. In realtà, come ogni specchio, gli occhi rimandano soprattutto l'immagine di chi li osserva, permettendo conoscenza e costruzione di identità. Fondamentale per il neonato è lo sguardo materno, quello che non implica tanto gli occhi della madre, quanto la funzione di riconoscimento per il piccolo: è in quello sguardo che il bambino si sente accolto nel mondo, sente legittimate le sue emozioni e gradualmente ne apprende la coloritura; è in quello sguardo che trova conferma del senso di sé. Un aforisma zen recita che "per vedere gli altri sono sufficienti gli occhi, ma per vedere se stessi ci vuole uno specchio", cioè l'Altro. Qualcosa di analogo accade in seduta con lo sguardo del terapeuta. E' un fenomeno speciale: uno sguardo che ci ri-guarda permette di scoprire qualcosa che ci riguarda. Uno dei miti più famosi, in fondo, dice anche questo: è il mito di Narciso, il quale vede la propria immagine riflessa in una polla d'acqua e, non riconoscendosi in essa, se ne innamora. E' un incontro illusorio, un'autocontemplazione. Ma il passo davvero tremendo è il momento in cui Narciso si rende conto dell'inganno e realizza che non potrà mai godere di quell'amore e del suo sguardo rispecchiante: è condannato all'autoreferenzialità.
Lo sguardo permette anche di strutturare l'identità, prima grazie all'imitazione di ciò che affascina, poi attraverso l'identificazione. È guardando ed emulando il genitore che il bambino apprende movimenti particolari e l'uso del linguaggio e tale fenomeno è supportato dalla presenza dei neuroni-specchio. Ed è con l'identificazione che, crescendo, l'individuo si plasma, guardandosi come chi vorrebbe essere (e risolvendo, così, anche l'Edipo).
La fenomenologia, poi, sottolinea la reversibilità dello sguardo: una volta imparato che lo specchio restituisce la sua immagine, l'individuo apprende la natura paradossale dell'essere: si è spettatori e, insieme, attori del mondo; viviamo un corpo di cui siamo coscienza e abitiamo un corpo che è oggetto e spettacolo; guardiamo e, allo stesso tempo, siamo guardati. Fino all'estremo, con "l'inferno sono gli altri" di Sartre, perché gli altri sono come diavoli che ci guardano, ci giudicano, ci costringono a essere ciò che essi vedono, ci mettono a nudo e ci fanno provare vergogna.
Una visione un po' cupa, ma che nella clinica si amplia in fenomeni di sguardo e di rêverie. Sono molti i fenomeni clinici che rimandano allo sguardo: per fare qualche esempio, le allucinazioni visive, definite come percezioni senza oggetto, ma si potrebbe descriverle anche come un guardare senza vedere; il dismorfismo corporeo, in cui si guarda a un difetto e si giunge a vederlo; oppure il già citato narcisismo, con la sua cinica fame di sguardi d'amore e la condanna a bocconi di sviste; l'esibizionismo e il voyeurismo, perversioni complementari in cui lo sguardo diventa pulsione sessuale; la paranoia, in cui lo sguardo malevole viene traslato dall'interno dell'individuo all'esterno, nel mondo che così diventa minaccioso. E poi ancora, il sogno, via maestra per l'inconscio piastrellata di immagini bizzarre, vivide, fugaci, paurose o eccitanti. E le proiezioni di transfert, in cui il paziente guarda al terapeuta come a figure significative della sua vita; nel verso opposto, possiamo trovare quelle fantasticherie creative che il terapeuta deve avere circa il paziente, mentre il paziente può vedersi congelato da tempo in un'immagine statica: la rêverie del terapeuta lo aiuterà a risvegliare potenzialità vitali latenti. Personalmente, dopo qualche mese di sedute da remoto, ho sentito un po' denutrito questo flusso fantastico, i pazienti hanno incominciato a essere un po' piatti come lo schermo su cui li vedevo: credo che poter appoggiare lo sguardo sulle loro persone sia alimento insostituibile per la rêverie. Insostituibile è anche l'impatto terapeutico dello sguardo dal vivo: penso a un paziente dalla fisicità debordante, una dipendenza orale sempre un po' negata, e la telecamera che ne inquadrava il solo volto, nascondendone il corpo sformato, soprattutto sottraendolo alla vergogna del mio sguardo e risparmiando al suo sguardo il confronto con il corpo del terapeuta.
In pieno lockdown, questo paziente racconta lo scampolo di un sogno attraverso il microfono del computer: era stato assunto nell'azienda di cui è consulente e aveva già avuto una promozione. Si trovava all'interno degli uffici, ma allo stesso tempo gli sembrava di essere a casa sua, come se i due ambienti si mischiassero. Si era affacciato alla finestra e aveva visto dei colleghi entrare nel portone del suo palazzo. L'unica associazione che propone è che gli pare che stesse aspettando qualcuno, "tipo appuntamento al buio" aggiunge, "in cui arriva uno che non ti saresti aspettato". Insomma, la modalità da remoto ha fatto entrare il terapeuta nella casa del paziente e ha colluso con il suo Sé grandioso, tanto che il sogno sembra rimarcare l'inversione di posizione tra paziente e terapeuta e la confusione tra abitazione e stanza di terapia.
Questo tipo di sguardo, quello mediato da uno schermo, mi sembra poter supplire temporaneamente quello di presenza; ma, se si protrae a lungo, rischia di diventare uno sguardo da basilisco o di Medusa, che pietrifica il lavoro terapeutico. Il monitor si fa muro, impedendo allo sguardo di essere quel luogo di transizione tra mondi interni, tra interno ed esterno, tra passato e futuro, tra Sé e l'Altro: ovvero tutto ciò che lo sguardo è in seduta. Tempo fa lessi una descrizione di quanto l'ascolto sia importante nella psicoterapia psicoanalitica che si rifaceva a un passo del Talmud: un giovane chiese al rabbino anziano: “Perché possediamo due orecchie ma una sola bocca?”. Il vecchio maestro rispose: “Perché vuol dire che si deve ascoltare due volte di più che parlare”.
Subito pensai che abbiamo anche due occhi, perché uno sguardo può parlare più di una singola bocca.