Pratica Psicoterapeutica

Il Mestiere dell'Analista
Rivista semestrale di clinica psicoanalitica e psicoterapia

NUMERO 1 (UNICO 2009)
1 - 2009 mese di Dicembre
FORMAZIONE
LA FORMAZIONE NELL'SPP
di Guido Medri
La prima parte di questo scritto è la sintesi di una relazione rivolta agli Allievi della Scuola di Psicoterapia Psicoanalitica di Milano e Torino di cui sono stato Presidente per 14 anni. La seconda parte è un commento alla relazione che ha soprattutto lo scopo di promuovere una discussione Può apparire quindi che affronti il tema della formazione a partire dalla ristretta angolatura che riguarda le Scuole di Specializzazione. Questo è senz'altro vero , ma occorre considerare che è questo oggi il luogo di elezione della formazione, non fosse altro che per l'enorme quantita di allievi che vi partecipano. Chi volesse leggere la relazione per intero può trovarla sull'ultimo numero di Setting ( numero 26 ).
Che formazione diamo ai nostri specializzandi? Questo è il filo lungo il quale si svolge la mia relazione. La risposta si articola prendendo come punto di riferimento la mia stessa esperienza formativa e presenta degli esiti abbastanza sorprendenti. Poichè io sono stato il Presidente della Scuola fin dall'inizio e per i successivi 13 anni ed ho contribuito in maniera determinante all'assetto organizzativo e culturale della Scuola, sia pure ovviamente insieme agli altri docenti, dovrei trovare un'evidente somiglianza fra la formazione che ho avuto io e la formazione che questa istituzione propone agli allievi. E invece più che cogliere aspetti di sovrapposizione osservo elementi di discontinuità.
Ho partecipato ai gruppi con Benedetti e Cremerius che si tenevano presso il nostro centro di allora per molti anni, ma a parte questa esperienza per altro sicuramente molto importante tanto che l'abbiamo riprodotta questa sì, nei programmi della Scuola, io ho fatto soprattutto moltissime supervisioni individuali. Con loro due, per l'appunto, e poi con Muraro, con Ferradini, con Zapparoli e, in maniera episodica, con Resnik, Brenman, Senise, Frank ecc. . Tutte figure di grande personalità, i miei “maestri”, con i quali mi sono intrattenuto in rapporti molto intensi con forti sollecitazioni a movimenti di identificazione. Gli specializzandi invece fanno riferimento contemporaneamente ad un ventaglio di docenti; inoltre lavorano sempre in un gruppo e hanno rapporti continuativi soprattutto con l'istituzione nel suo complesso.
Io mi sono venuto formando lentamente, nell'arco di decenni. La loro formazione dura i canonici quattro anni; continuerà poi ovviamente e con più calma, ma di fatto con il diploma si considera terminata. Per converso procede a ritmi intensissimi, trecento ore l'anno, i quali se si traducono in un più che evidente salto di qualità potrebbero però avere un effetto di saturazione sulla domanda di formazione.
Nessuno ha mai sancito in termini ufficiali la mia competenza; non ho superato esami, non ho dato una tesi. L'allievo invece si muove lungo un percorso istituzionalizzato, decisamente costrittivo da un lato, ma forse più rassicurante dall'altro.
Così come non ho mai veramente finito posso dire di non avere mai veramente incominciato; per anni accanto all'attività di psicoanalista ho lavorato come psichiatra sia in ospedale che privatamente. Gli allievi invece chiedono di incominciare i corsi di specializzazione appena dato l'esame di stato (non tutti in verità, ma certo la gran parte e parecchi addirittura prima ) e sono anche tenuti a convincere noi della bontà della loro motivazione. La scelta della scuola è molto condizionante, una volta incominciata la si finisce. E' vero che questo va di pari passo con la grande fretta di arrivare, ma non manca loro il tempo, il lusso direi per riflettere sulla motivazione alla professione di psicoanalista? Sono parecchi comunque gli allievi che se lo chiedono durante il corso e qualcuno si ferma o cambia; ma il momento in cui la domanda si fa sentire davvero è paradossalmente alla fine quando, ottenuto il diploma, nulla più impedisce che si apra uno studio e finalmente la si pratichi.
A mio parere il training è una esperienza fondata sulla frustrazione. Affrontare il giudizio comporta ansie di castrazione, assimilare la regola dell'astinenza e della neutralità, costringe nella camicia di forza del limite. Quando faccio l'intervista di ammissione alla scuola sconsiglio sempre di intraprendere un cammino così lungo e difficile. Si tratta certo di una provocazione, ma non racconto frottole, ci credo davvero. La risposta è: lo so, ma a me piace, non mi vedo fare altro. In altri termini, sono affascinato dall'inconscio, non temo i demoni che lo abitano. Viva il narcisismo; questa si chiama salute e a chi voglia obiettare va risposto che senza un pizzico di paranoia non si può fare l'analista. Se tuttavia questa posizione emotiva ha una deriva megalomanica, se l'ideazione grandiosa più che sul versante dell'entusiasmo sta su quello della compensazione narcisistica la motivazione va riconsiderata e le frustrazioni inerenti al training si fanno davvero pesanti. Con questo tema introduco non tanto un parallelo con me quanto con gli allievi che ho frequentato nel corso degli anni; e mi sembra interessante notare come la figura dell'allievo permaloso, che sembra si offenda quando si cerca di essergli utili (a lui, che sa già tutto) sia sempre meno frequente. I nostri specalizzandi hanno un approccio più realistico, anzi, se mai con sfumature depressive; tanto che il nostro compito più che operare nel dare forma attraverso un ridimensionare, consiste piuttosto nel contrastare un atteggiamento di eccessiva modestia.
Ho scorso in poche parole i temi della mia relazione per proporre come già avevo fatto a Desenzano uno scambio di idee sulla formazione. Una sezione della rivista è infatti dedicata a questo tema.
Incomincio io la discussione.
Partirei dal dato di fatto che la formazione nelle Scuole di specializzazione si è dovuta adeguare alle disposizioni ministeriali: Non è una scelta del corpo docenti il periodo (quattro anni) il numero delle ore di insegnamento (trecento ore), il tirocinio (duecento ore). Questo vale anche per l'insegnamento di alcune materie, quelle cosiddette di base, mentre la “istituzionalizzazione” del percorso (selezione, esami, tesi, la frequenza ecc..) così diversa dal mio è tale appunto perchè inserita in un preciso contesto normativo.
Viene subito da chiedersi: meglio prima o adesso? Se mi rileggo è evidente che me lo domando e con insistenza: forse i nostri specializzandi sono irregimentati, hanno poco tempo per pensare e poco spazio per costruirsi un percorso più su misura, hanno scelto troppo in fretta, fanno fatica con i pazienti. Sono plausibili tutti questi dubbi? Magari mi lascio andare alle solite recriminazioni di chi essendo ormai in età avanzata vede il bello solo in ciò che ha lasciato alle spalle. E poi meglio o peggio rispetto a che cosa? La mia formazione, che pretendo di individuare come punto di riferimento, non si può prendere a modello perchè in verità si è venuta articolando in modo sostanzialmente casuale ed è anzi del tutto atipica. Andava bene a me, ma proprio qui potrebbe stare il suo difetto peggiore. Ad es. il training dell'IPA è tutt'altra cosa, ha una sua precisa regolamentazione a livello internazionale, valga per tutto il fatto che richiede un'analisi didattica. Se mai il dato che io mi preoccupi è significativo in un altro senso perchè mostra le implicazioni sul piano personale dell'attività di formatore, non tanto un giudizio sulla qualità della formazione. Non ci si coinvolge solo con i pazienti, ma anche con gli allievi, ci si sente responsabili e per giunta non solo nei loro confronti ma anche rispetto ai loro pazienti.
Cambiamo punto di vista, la domanda evidentemente è mal posta.
Ci si dovrebbe invece chiedere se il diverso percorso porta davvero a diversi risultati; perchè potremmo anche affermare che tutte le strade portano a Roma e che se il dottor Medri è uno psicoanalista quello che insegna sarà psicoanalisi e dunque i contenuti rimangono gli stessi anche se sono cambiate le modalità dell'insegnamento. Va poi considerata l'importatissima questione dell'analisi personale che quasi tutti gli all'allievi all'inizio hanno appena incominciato. Si trattadi questioni assai complesse. Lascio agli apporti che verranno dalla discussione l'impegno di svolgerlo.
Prima ancora però ci manca qualcosa, una riflessione sul contesto all'interno del quale ci muoviamo. È necessario allargare la prospettiva e considerare tutti i cambiamenti avvenuti nel corso di questi anni.
Io ho da sempre avuto a che fare con un tratto caratteriale che mi consegna immediatamente in una posizione critica se non trasgressiva di fronte alla logica dell'istituzione( sa Dio quanti guai me ne sono derivati quando lavoravo in Clinica Universitaria e in ospedale ). Se da un lato apprezzo le garanzie che ne derivano in termini di solidità, prevedibilità e soprattutto continuità nel tempo, dall'altra avverto con estremo fastidio i limiti e le costrizioni che impone. Figurarsi poi per quanto riguarda la trasmissione del sapere psicoanalitico, che a questo punto dovrebbe chiamarsi, orribile a dirsi, “insegnamento”. All'inizio quindi mi sono trovato ad operare per la fondazione della Scuola ( in base all'attenta lettura del dato di realtà che non ammetteva altra scelta essendo l'alternativa quella di chiudere e scomparire dalla scena) con la convinzione però che si trattava di una scelta sbagliata sul piano culturale.
Adesso questa contraddizione rimane, ma si allontana sempre più sullo sfondo. La formazione si confronta con una domanda che riguarda non più pochi eletti, ma una schiera infinita di psicologi, l'età media del potenziale allievo è decisamente inferiore ai trent'anni, sono sorte decine di nuovi indirizzi psicoterapeutici. La Scuola si muove abbastanza a suo agio in queste acque tumultuose, ha saputo con buona flessibilità rendere percorribile un percorso altrimenti troppo rigido e con tempi improponibili, sa attirare sempre nuovi allievi in numero tale da assicurarsi uno spazio consistente rispetto alla marea montante di migliaia di psicoterapeuti di altra estrazione; ma soprattutto sembra che le regole cui dobbiamo sottostare non tanto ci vengano imposte dall'alto, ma abbiano una loro ragione di essere in quanto sono il portato di una situazione nuova ed in continuo movimento.
Inoltre abbiamo a che fare con una psichiatria che è uscita dal ghetto dell'ospedale psichiatrico e si avvale di una farmacologia assai più efficiente di prima mentre d'altro canto le altre psicoterapie si muovono in modo fortemente aggressivo promettendo risultati in tempi brevi e con poca fatica e, per finire, è cambiata, drammaticamente cambiata, la patologia con la quale ci dobbiamo confrontare e la domanda che ci troviamo a trattare. Questo è un punto fra gli altri che ritengo decisivo. La psicoanalisi, forse è meglio dire l'indirizzo dinamico che si struttura a partire dall'esistenza dell'inconscio, si avvale di una indiscussa superiorità sul piano scientifico e culturale, ma non possiamo certo isolarci nella nostre librerie colme dei sacri testi; dobbiamo invece entrare in competizione avendo ben chiaro in mente che la battaglia si vince o si perde sul piano dei risultati e per il favore che sappiamo riscuotere presso i pazienti rispetto agli altri indirizzi. Risbuca fuori il medico che è in me: uno psicoanalista prima di tutto è un clinico e deve avere dei pazienti da curare altrimenti è meglio che cambi mestiere. E allora, visto che il trattamento psicoanalitico sta diventando un dolce ricordo dei tempi passati (dei miei pazienti solo due sono a tre sedute sul lettino ) arrendiamoci a quello che ormai è il dato di fatto che se vogliamo lavorare (e dobbiamo lavorare, non solo per noi, ma per la disciplina nella quale crediamo) facciamo tutti, gli psicoanalisti della SPI inclusi, quasi sempre psicoterapia. A questo punto non si può più considerare la psicoterapia come l'ancella della psicoanalisi o un suo fastidioso surrogato e lo stesso, se si vuole essere coerenti, vale per la formazione che non più essere intesa in subordine al training psicoanalitico.
Dovremmo invece, visto che di fatto già ci siamo allontanati da tanti precetti un tempo indiscutibili di teoria della tecnica a partire dal setting, accingerci al compito di trovare nuovi assetti teorici che facciano da punto di riferimento alle nuove condotte terapeutiche. A mio parere siamo già in grado di farlo.
Insomma la “diversità” dei nostri allievi va misurata in base al contesto nel quale si trovano a lavorare; e più ci ragiono, sempre meno mi sembra debba considerarsi in senso peggiorativo perchè anzi sta al passo con i cambiamenti degli ultimi decenni. Insisto, se discutendo di un collega che aveva accettato un paziente a tre sedute dopo che questi non aveva accettato la prescrizione di un altro analista che gli chiedeva quattro sedute, arrivassero a dire, come ho sentito affermare allora, che il collega aveva colluso con le difese del paziente, avremmo formato degli ottimi analisti... cui non resterebbe altro che il suicidio. Vorrei continuare perchè mi si aprono dinanzi continuamente altri scenari di discussione. Ma è bene che altri lo facciano e mi fermo qui.

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