RIFLESSIONI SUL TEMPO IMMOBILE
di Elisabetta Romanò
Che me ne faccio delle girandole dei verbi?
Non sono il padrone del tempo, sono il suo asino.
Va bene per gli scrittori il passato e il suo ceraunavolta.
E il futuro fa comodo agli indovini che si arrischiano coi pronostici.
Io conosco le vite che durano un giorno
e arrivare a notte è già morire vecchi.
Erri De Luca, Tre cavalli (1999, p. 93)
Di cosa si parla quando si parla di tempo? Qual è il tempo del viaggio analitico? Cosa farsene del tempo immobile? Qual è il legame tra paziente e tempo? Come si intreccia il tempo del paziente e quello dell’analisi? Ma soprattutto cos’è il tempo fermo che porta il paziente in seduta?
Il problema della temporalità è un aspetto importante del processo analitico inserito esso stesso nel tempo lineare della storia, ma fedele a un tempo interno, circolare, caratterizzato da continui ritorni e passaggi all’indietro. Freud (1937, p. 551) scrive che il lavoro analitico consiste “nel liberare il brano di verità storica dalle sue deformazioni e dai suoi agganci con la realtà del presente e nel riportarlo al punto del passato cui propriamente appartiene” . Sembra fare riferimento a un viaggio che è anche oblio, non degli eventi, ma della loro ombra sul vivere presente. È inoltre percorso che accompagna verso l’adattarsi al tempo sociale (Spira 1959), sopportandone, contemporaneamente, la discontinuità e la ritmicità ordinata, oltre alla sua finitezza.
Possiamo, perciò, intendere il processo analitico come “organizzatore di temporalità” (Chianese, 1997, p. 88): gli eventi vissuti vengono messi in una successione temporale e il tempo ricomincia a fluire, il paziente cessa di vivere in un eterno tempo del trauma. Il filosofo Natoli (2003) parla di una patologia della memoria caratterizzata dall’incapacità di lasciare scorrere il passato, trasformato in eterno presente che imprigiona, immobilizza e impedisce il futuro. L’Autore scrive: “Saper dimenticare: la parola importante è sapere, che non vuol dire cancellare il passato ma trattenerlo senza che incomba, senza che sia un peso, un gravame, senza che stia in noi come un presente indelebile. Sapere dimenticare vuol dire far vivere il passato come qualcosa di cui siamo fatti, ma da cui ci dobbiamo, in un certo qual modo congedare, per avanzare” (2003, p. 46). Proprio all’oblio, si riferisce Neri (1987) quando parla di un inserire nel tempo lineare ciò che è accaduto nel passato, lasciandolo poi andare.
DEFINIZIONE DEL FOCUS E RIFLESSIONI INIZIALI
Vorrei provare a cogliere alcuni aspetti di questo tema così importante, senza ovviamente pretendere di esaurirlo, ponendo come focus centrale il tempo interno e immobilizzato del paziente.
Si tratta di riflettere su alcune delle possibili origini dell’immobilità e della rigidità che affliggono i pazienti ingabbiati all’interno di singoli eventi e impossibilitati per questo ad affrontare gli ostacoli e i cambiamenti della vita. Per raggiungere questo obiettivo, parto dalla trascrizione di alcune righe di Sostiene Pereira, romanzo di Antonio Tabucchi, scritto nel 1994 e ambientato nella Lisbona di fine Anni Trenta, mentre si faceva strada il regime autoritario dell’Estado Novo. Le vicende del protagonista ci accompagnano lentamente e con delicatezza verso un momento di passaggio, linea di demarcazione tra ciò che era prima e ciò che sarà. Siamo nella terra dell’incertezza, della cesura che preannuncia un cambiamento controverso. In questo delicato momento, Pereira parla con il dr. Cardoso, medico conosciuto nella clinica talassoterapica dove si è recato per curarsi. Si tratta di un dialogo molto intimo, nel quale dobbiamo entrare in punta di piedi, quasi come se fossimo in seduta, occupati nell’ascolto di un nostro paziente. In questo scambio, si tocca un tema fondamentale, l’elaborazione del lutto e il tempo futuro. Tabucchi scrive: “L’elaborazione del lutto, disse il dr. Cardoso, […] lei ha bisogno di elaborare un lutto, ha bisogno di dire addio alla sua vita passata, ha bisogno di vivere nel presente, un uomo non può vivere come lei, dottor Pereira, pensando solo al passato. E le mie memorie, chiese Pereira, e quello che ho vissuto? Sarebbero solo una memoria, rispose il dr. Cardoso, ma non invaderebbero in maniera così prepotente il suo presente, lei vive proiettato nel passato, […] se lei continua così diventerà una sorta di feticista dei ricordi” (p. 157). L’espressione feticista dei ricordi richiama alla memoria ciò che, come vedremo più avanti, Freud (1909) definisce la malattia della reminiscenza nelle isteriche. Altrettanto interessante è il riferimento alla fissazione al passato che estranea dal presente e dal futuro, almeno finché non si venga a capo della situazione traumatica e si riesca a “risolvere un’esperienza che ha una tonalità affettiva eccessiva.” (Freud, 1915-17, Lez. 18, p. 437).
Quando parliamo di tempo in analisi, ci riferiamo sia al tempo riguardante il setting (orario di inizio e di fine della seduta, durata del colloquio, numero delle sedute e disposizione delle stesse nella settimana), sia al tempo interiore che non segue il procedere cadenzato dei giorni e che rimane difficilmente afferrabile. Abraham, De Senarclens (1999, p. 32) scrivono “analista e analizzando saranno entrambi soggetti a due tipi fondamentali del manifestarsi del tempo. Un tempo irreversibile, che va sempre nella stessa direzione e non può tornare indietro: ciò è espresso dalla nozione della freccia del tempo. E un tempo reversibile, che è circolare e si concretizza nel ripetersi del rito analitico delle sedute. Ci si potrebbe chiedere se non esista pure un’ulteriore struttura temporale, quella che permette di effettuare un ritorno all’infanzia, con la reviviscenza delle emozioni del passato nel transfert”.
Il setting definisce il tempo cadenzato, da difendere con cura dagli attacchi che provengono da più parti, attacchi che rientrano nella quotidianità dello scorrere della vita, ma anche in ciò che si muove nel Sé del paziente. Il tempo interiore, pur intrecciandosi con il primo, è da conoscere, quasi fosse la prima volta, e da ri-conoscere: è il tempo del troppo tardi, oppure del mai, del non ancora, del sempre uguale, è il tempo lento o addirittura fermo, è il tempo della crisi, ma è anche mistero che interroga.
Pur consapevole che il tempo dell’analisi, fatto di pieno e di vuoto, di silenzio e parole, di dentro e fuori dal setting, si intrecci con il tempo interno del paziente nel raccontare la propria storia, il mio lavoro di scrittura vuole soffermarsi su quest’ultimo aspetto che può trovare spazio nella stanza d’analisi proprio perché in essa vi è prevedibilità e ritmo.
Per delimitare meglio l’area da me considerata, parto da una citazione di De Simone (1979): “Ci sono pazienti che si presentano con una loro storia ben definita, rigidamente strutturata, e pazienti che sembrano non avere o asseriscono di non avere una storia. Nei primi casi il compito dell’analisi è quello di destrutturare questo schema rigido difensivo, nel secondo caso il compito è piuttosto quello di costruire una storia” (p. 348). Restringendo ancora di più il campo, nel mio scritto intendo soffermarmi sul primo gruppo di pazienti, quelli cioè che portano con sé una storia senza spazi bianchi, completamente saturata da rigidi significati. Nella mia esperienza, però, ho potuto constatare che non ci sia una netta separazione, poiché spesso si incontrano pazienti che, all’interno di una storia rigidamente costruita, presentano aree di non storia e, viceversa, pazienti fluidi nei quali si intravedono improvvisamente oasi di narrazione storica.
In un articolo successivo, la stessa Autrice (1982, p. 541), parlando di sintomo, scrive: “Penso che, seguendo questo vertice temporale, possiamo essere autorizzati a considerare il sintomo come una sorta di incistamento di una situazione emotiva che resta, così, al di fuori del processo evolutivo generale e quindi dal flusso delle esperienze trasformative. Un «grumo congelato» di tempo o addirittura una zona di «tempo parassita» che assorbe energie senza dare in cambio nessuno dei suoi elementi, che restano per questo esclusi dal processo evolutivo.”. Questo grumo congelato richiama alla memoria l’immagine poetica dell’ostrica e del granellino di sabbia attorno al quale si costruisce una perla (Freud, 1901).
Durante il percorso terapeutico, ci si accorge, infatti, che la persona nel nostro studio ha come dei noccioli duri nei quali è impossibile entrare: è ferma ad un episodio specifico, a un’impressione, a un trauma, non sempre riconoscibile a prima vista perché determinato da un’atmosfera oltre che da un evento. Nel suo racconto torna insistentemente al momento dell’accadere, all’emozione provata, alla visione di sé, tutto sembra essere raccontato con le stesse parole, in una ripetizione senza variazione. In queste situazioni, il tempo interno è un elemento fondamentale che fa capolino attraverso il transfert e la coazione a ripetere, che vedremo successivamente. La persona ci mostra episodi che accadono nel tempo esterno, ma ci si accorge ben presto della presenza di un’ombra proveniente dal grumo di eventi all’interno del quale non circola pensiero. Si tratta di una stanza chiusa, senza la possibilità di dare aria, una stanza che tiene in ostaggio, irrigidisce le possibilità e, per ritornare al romanzo di Pereira, non permette di “frequentare il futuro” (1994, p. 158). In un articolo del 1995, Nicolaïdis fa proprio riferimento a un arresto dello scorrere del tempo che impedisce un viaggio regressivo verso il passato e una prospettiva riorganizzatrice del futuro.
Per dare maggiore concretezza al focus, narro una breve vignetta clinica nella quale l’arresto dura solo poche settimane, non si è ancora fossilizzato: un ragazzino di dieci anni arriva nel mio studio portato dai suoi genitori perché da qualche mese non riesce più ad addormentarsi, dice di avere paura che possa succedere qualcosa a lui o a qualcuno della famiglia. L’oggetto della paura non è ben identificato, si tratta di pensieri intrusivi che si presentificano ogni volta che sta per addormentarsi. Insieme indaghiamo gli eventi che hanno preceduto la scomparsa della tranquillità, cerchiamo di capire l’origine, il momento nel quale tutto è iniziato. Non emerge nulla di significativo nelle prime due sedute, i racconti si ripetono sempre uguali. Silvano si mostra come un bambino estremamente curioso e intelligente, ma in difficoltà a gestire le emozioni. Ha un buon rapporto con la madre, mentre si sente giudicato e sminuito dal padre che lo vorrebbe forte nella vita e realizzato nello sport (calcio, tennis, sci). Nel terzo incontro fa capolino in modo inaspettato un nuovo personaggio, la morte. Già in precedenza avevamo parlato della malattia e della perdita di persone per lui significative, ma apparentemente non c’erano stati episodi da evidenziare. Mentre ritorniamo sul malessere che lo aveva bloccato a dicembre e che mi aveva già raccontato quasi con le medesime parole, Silvano mi fa una domanda inaspettata: “Ma svenire è come morire?”. Emerge quindi che nel periodo delle vacanze natalizie, a seguito di un esame del sangue legato alla sua influenza prolungata, è svenuto. Quando si era ripreso, aveva provato una grande paura che però non era riuscito a verbalizzare, vergognandosi per la debolezza mostrata. A questo evento, nella mente di Silvano, si aggiunge un nuovo collegamento, cioè la morte improvvisa di un giocatore di calcio, avvenuta nonostante il giovane fosse in buona salute. Appare sempre più chiaro che il bambino è fermo allo svenimento del quale non aveva potuto parlare poiché il padre lo avrebbe deriso, definendolo come un non uomo. Emergono le incertezze sulla sua identità maschile e sul bisogno di venire apprezzato dalla figura paterna. Comincia a sciogliersi la paura poiché si sente accolto, creduto e compreso: in questa stanza, finora rimasta chiusa, sembra ricominciare a scorrere il tempo lasciando spazio alla fragilità. Il conflitto interno tra il proprio mondo emotivo e il desiderio di riconoscimento può cominciare ad essere esplorato. Il sintomo, cioè la paura di addormentarsi, perde la sua valenza di residuo mnestico di un’esperienza passata vissuta come traumatica e non integrata nel proprio Sé.
Da questo esempio, vengono evidenziati i diversi livelli dei racconti portati in seduta, tra i quali non è ancora compreso il livello della relazione analitica. Vi è il livello dell’evento presente che è anche sintomo (la paura di addormentarsi), e quello del passato richiamato, ma non ricordato (le emozioni legate allo svenimento, oltre all’incertezza davanti ad eventi inspiegabili, come la morte del calciatore). Vi è inoltre il livello delle relazioni familiari (relazione critica con il padre). Affinché si possa sciogliere il nodo e riavviare lo scorrere del tempo, si deve creare un legame fra la percezione dell’evento e la sua rappresentazione emotiva attraverso il racconto, ma anche attraverso lo sguardo accogliente dell’altro.
UN ULTERIORE SPAZIO DI RIFLESSIONE TEORICA: LA COAZIONE A RIPETERE
Facciamo un nuovo passo nell’esplorazione del tema che stiamo avvicinando.
In Cinque conferenze sulla psicoanalisi (1909), Freud scrive che i sintomi dei nevrotici sono “residui e simboli mnestici di determinate esperienze traumatiche” (p. 135). Non si tratta, però, di una paralisi completa, le persone continuano a vivere la quotidianità, fanno esperienze arricchenti, in certe aree sembrano estremamente capaci, ma mantengono sentimenti di inquietudine e di sofferenza. La memoria di questi eventi traumatici viene mantenuta viva attraverso il ripetersi di azioni disfunzionali per la propria evoluzione.
Dal punto di vista teorico, possiamo introdurre il concetto di coazione a ripetere del quale ci parla Freud in molte delle sue opere, partendo dal saggio Ricordare, ripetere e rielaborare del 1914. Secondo l’Autore, agire attraverso la ripetizione è l’unico modo per ricordare, ma non è ancora memoria. Nel commentare questo passaggio, Green scrive: “talvolta il paziente ripete invece di ricordare. Ergo, la ripetizione è un sostituto della memoria, una maniera passata inosservata, non riconosciuta dall’analizzato, di ricordarsi di un avvenimento psichico memorabile, ma che si rifiuta di ricordare” (2000, p. 32). In riferimento al concetto di coazione a ripetere, non possiamo non citare lo scritto freudiano Al di là del principio del piacere (1920), opera nella quale questo tema viene ulteriormente approfondito attraverso la teorizzazione, accanto alla pulsione di vita, della pulsione di morte. Mentre la pulsione di vita serve a spiegare la formazione di legami costruttivi nell’evoluzione di un soggetto, la pulsione di morte è destinata a dividere, a portare verso l’informe ed è proprio qui che trova spiegazione teorica la coazione a ripetere. A questo proposito, possiamo considerare aspetti diversi: “la ripetizione dell’azione, qualità principale della «coazione» o «compulsione», e l’azione della ripetizione, nucleo concettuale della «coazione a ripetere» freudiana; la necessità di ripetere, come consolidamento di una struttura o di un processo (struttura dell’Io, conservazione del tratto di carattere, ecc.) e la ripetizione intesa come restrizione o vincolo, modalità predominante se non unica di funzionamento in situazioni di sofferenza estrema e portatrice di una qualità mortifera.” (Garella, 2007, p. 447).
Partendo dal più semplice e iniziale concetto della ripetizione, che nel bambino potrebbe essere anche apprendimento, essa diventa compulsiva quando il soggetto deve sottomettersi ad essa perdendo il nesso con la motivazione, mostrando così la sua valenza patologica. A questo punto, il malato si irrigidisce in un’azione o in una narrazione che non può avere variazioni, che non è più approfondimento, sorpresa, scoperta.
Nel percorso analitico, si sperimenta che, in modo più o meno pervasivo, il tempo è inizialmente ripetizione di uguali per arrivare, solo attraverso molte vicissitudini, impasse, ritorni, riacutizzazioni del sintomo, passi indietro, salti in avanti, ad una riscoperta creatività e fertilità. A tale proposito, è interessante citare un articolo di De M’Uzan (1970) sul tema dello stesso e dell’identico. Nel primo caso, vi è una ripetizione con leggere variazioni, mentre nel secondo caso vi è una sovrapposizione, un continuo ripetersi di uguali, un copiare senza fine. Nell’analisi si tratta di passare da una ripetizione monotona dell’evento che non si è riusciti ad elaborare per arrivare ad una ripetizione simbolica che può trovare un proprio posto nella narrazione del paziente poiché ha raggiunto un significato sfaccettato e non definito una volta per tutte. Il tempo diventa aspetto concreto del muoversi nello spazio e interagire con il mondo, perdendo la sua fissità narrativa.
Nella ripetizione vi è anche un elemento evolutivo che vorrei riprendere.
Inizialmente, infatti, nel passare e ripassare sulla narrazione dell’evento traumatico privo di senso e incompreso, è come se il soggetto si mettesse nella posizione di comprendere meglio ciò che è accaduto, di aggiungere un significato che possa lentamente riavviare il tempo stesso integrando l’evento nella complessità della storia del soggetto. Assistiamo a una richiesta di significazione che non può essere elusa. In questa fase del tempo bloccato, sempre uguale, il paziente si irrigidisce su un sapere che crede completo e quindi continuamente replicato: sembra non esserci oscurità nella propria rigida realtà, ma nel suo raccontarsi chiede anche soccorso, cioè che qualcuno possa fermare il rotolare sempre uguale dei suoi pensieri. La narrazione appare senza mistero, senza sfumature, è certezza ripetuta, finché non si intrufola il dubbio (Pellizzari, 2015) che smuove il tempo, il fondamentalismo di alcune certezze, che apre uno spiraglio verso quella stanza sbarrata. Lentamente il dubbio riavvia il succedersi delle stagioni, degli eventi. Si apprende, dunque, la capacità di dimenticare e di restituire al tempo stesso la sua funzione di incontro e di sorpresa. È a questo punto che si può dimenticare, andare altrove, separarsi, acquisire autonomia, uscire dall’accanimento.
Vorrei ora aprire uno spazio alla clinica, portando il caso di un adolescente che ha fermato il suo percorso di crescita, rifiutandosi di andare a scuola. Michele frequenta il primo anno di scuola superiore, ha appena compiuto quindici anni. Dopo un breve periodo di assenza legata alla rottura di un piede, comincia a saltare alcuni giorni di scuola adducendo varie scuse, finché non si rifiuta in modo categorico di uscire di casa. Accetta però di iniziare una psicoterapia, apparentemente obbligato dai suoi genitori. Nel corso delle sedute, si evidenzia un meccanismo di azione ripetitivo: Michele riesce a raggiungere piccole aperture all’interno di un copione ormai noto, ma appena si accorge che questo passo determinerebbe una scelta, un “diventare grande”, si spaventa, sente il rischio del proprio camminare e si ritira nella propria stanza, dove si sente al sicuro, non separato dal bambino che è stato. In questa fase, emerge un ricordo del passato quando, durante un soggiorno estivo in montagna, all’età di cinque anni, Michele decide di tornare da solo nell’albergo: attraversa una piccola strada, chiede la chiave alla reception, entra nella stanza, si mette a giocare con le macchinine. Non trovandolo, i suoi genitori sono terrorizzati, perdono la capacità di pensare. Solo dopo un’ora, pensano alla loro stanza. Appena arrivano lo trovano tranquillo. Da parte loro, invece, c’è solo il terrore, senza un minimo riconoscimento di quanto è stato competente il loro piccolo bambino. Se in un primo tempo questo evento non sembra bloccare l’evoluzione, in una seconda fase, con l’affacciarsi dell’adolescenza, Michele non riesce più a fare nulla da solo: ora potrebbe essere autonomo, ma è lui stesso che teme di venire perso dalle persone per lui significative, ha paura di distruggere l’Altro separandosi. Ogni volta che sembra possibile uscire dal guscio, dal raggio d’azione della propria famiglia, Michele sente il rischio della crescita e chiede di rimanere piccolo. I suoi sogni parlano di questo terrore e, insieme, di questa richiesta, oltre a portare celatamente il desiderio di crescere. Emerge l’immagine di un albero che, sfidando il cielo, viene colpito e bruciato da un fulmine. È lo stesso albero che caparbiamente ad ogni primavera apre le gemme e si riempie di foglie. Nel tempo fermo, fa capolino anche il tema della morte, richiamato dalla scomparsa del nonno e dalla disperazione nel considerare che non avrebbe più potuto fare scelte. Rimanendo immobile, Michele sembra volere tenere in scacco la morte, poiché se il tempo non passa non può finire la vita, quella dei suoi cari, ma anche la sua. Entra in gioco l’onnipotenza e la convinzione che tutto sia ancora possibile, che non ci sia rinuncia. Ascoltando i suoi racconti, emerge il dubbio che questa staticità sia anche un tenere in scacco i genitori, rifiutandosi di fare ciò che si aspettano da lui, “vendicandosi” del loro averlo voluto dipendente. Come fare, allora, a riavviare il tempo della crescita e liberarlo dalla condanna della ripetizione di fallimenti che lo confermano nel suo bisogno dell’altro non più separato da lui? Come accompagnarlo a non spaventarsi per l’autonomia che potrebbe ora acquisire, ma che lo porterebbe a scegliere, rinunciando a possibili strade non più percorribili?
Per alcuni pazienti, il tempo diventa, anche, un oggetto di controllo da non lasciare in mano al terapeuta, ma da gestire per non sentirsi sopraffare da sentimenti di dipendenza. A questo proposito accenno a una vignetta clinica. Con una nuova paziente ci diamo appuntamento ad un certo orario. Pur essendo una persona molto precisa, arriva in studio dieci minuti dopo rispetto a quanto concordato. Lo registro fra gli eventi che accadono nell’incontro, ma, inizialmente, non ritengo sia qualcosa da riprendere. La ragazza comincia a parlare, ad occupare tutto il tempo a nostra disposizione, impedendomi qualsiasi intervento. Sembra che il tempo e lo spazio di parola siano nelle sue mani, io ascolto invasa dai suoi racconti eccessivamente saturi. Introduce il tema del suo sentirsi bloccata nella ripetizione compulsiva di azioni senza che riusca a controllare il tempo a sua disposizione. Mi sovviene il ritardo di dieci minuti. Lo introduco, ne parliamo. Emerge la difficoltà a concedersi del tempo programmato per lei, tutto deve essere rimandato quando riguarda il desiderio di essere guardata. Fa capolino il racconto di una serie di eventi traumatici, accaduti pochi anni prima, che l’hanno portata a perdere molto peso svuotando il corpo e la femminilità, bloccando per la vergogna il tempo degli incontri, del corteggiamento e della sessualità. Dovremo stare attente in futuro al tempo fermo nella ripetizione, ma soprattutto alle parole che diventano cortina di fumo per confondere: sono azioni, non rappresentazioni simboliche di quanto sta accadendo dentro di lei. In questa paziente, prende sempre più spazio il tempo tenuto fermo da rassicuranti ripetizioni: siamo nell’ambito delle ossessioni e delle compulsioni che portano a rendere non accaduto un evento, al tempo annullato, al rinunciare alla vita per non correre pericoli, al sopprimere azioni, parole, pensieri per non commettere peccato e per tenere in scacco la morte (Fachinelli, 1992).
CONCLUSIONI
Per concludere vorrei fare riferimento a strade possibili per nuove riflessioni.
Negli incontri avvenuti, mi sono spesso chiesta se per sciogliere il tempo sia necessario fare riferimento solo alla storia interna e in parte inconscia del paziente, mettendo da parte la verità del paziente. Nella mia esperienza, si è però fatto avanti un dubbio che riguarda la necessità iniziale che quel copione, irrigidito intorno a un evento specifico, venga dapprima accolto proprio nella sua struttura, saturata da significati privi di interstizi e di spazi vuoti. Solo in un secondo momento, per permettere al tempo di ripartire, si può cominciare a lavorare sui legami tra l’evento che ha confermato l’idea riduttiva di sé e la, ben più complessa, storia interna e inconscia del paziente. Riavviare il tempo permette una lettura più ampia, più complessa di sé, lasciandosi toccare da significati fino a quel momento non considerati, fonte di possibile meraviglia. Per la prima volta, è come potersi dire, con stupore e quasi incredulità, “Ah! Ma io sono anche questo!”.
Quando il tempo si riavvia, le porte delle stanze dove si vive il lutto si aprono, almeno in parte, avviene un incontro rinnovato che diversifica ciò che è stato. È come se l’evento traumatico venisse affrontato nella sua complessità: da una parte, il fatto con i suoi particolari ripetuti, dall’altra il significato, il legame con il passato, il posto previsto nel futuro ormai diventato possibile. Ciò che ha rappresentato la ripetizione, il transfert, ora può diventare avvio, incontro, possibilità.
Elaborare il lutto significa, quindi, aprirsi a qualcosa di nuovo, lasciando indietro ciò che è stato, potendolo interrogare, senza che diventi laccio che trattiene. Bolognini (2019) fa riferimento a una fluidità comunicativa fra i diversi oggetti interni del Sé che possono essere consultati, senza che l’Io si irrigidisca in una identificazione con una parte del passato, uguale a se stessa, senza tempo. È come se, dentro ciascuno, possano cominciare a vivere, in comunicazione tra loro, tutti i tempi, insieme alla possibilità di frequentare il futuro.
Vorrei chiudere il mio scritto con una citazione tratta da un articolo di Fiorentini (2009, p. 875): “Per continuare a vivere e creare, il pensiero della fine non dovrebbe portare con sé l’annichilimento dell’illusione ma la speranza dell’ancora possibile, l’apertura verso una prospettiva cairologica di un potenziale continuo di sviluppo, una sorta di «quinta stazione» annidata nelle «pieghe» del tempo.”.
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