Le strutture sanitarie si sono trovate, al momento dell’esplosione della pandemia, a doversi ristrutturare il più rapidamente possibile per fare fronte all’emergenza che, nella fase iniziale e per un tempo relativamente lungo, riguardava in modo pressoché totale la cura dei contagiati e l’approntamento di strutture adeguate per salvare loro la vita. I servizi che si occupano della salute psichica dei pazienti hanno in questa fase avuto una battuta d’arresto. Le precauzioni necessarie per poter eventualmente continuare ad effettuare i colloqui, le sedute, le terapie di gruppo, le attività riabilitative erano fin da subito tali da scoraggiare i pazienti che non si considerano affetti da gravi patologie psichiatriche dall’intraprendere la serie di operazioni necessarie per lo svolgimento di ciò che il loro progetto terapeutico comportava. Le attività di gruppo sono state le prime ad essere sospese, non solo rivolte ai pazienti ma anche tra gli operatori; poi, dopo l’8 marzo, la sospensione, in particolare per ciò che riguarda il Dipartimento di Salute Mentale e delle Dipendenze, di tutte le attività non caratterizzate da assoluta urgenza. Gli operatori sull’urgenza erano, e sono tuttora, medici e infermieri, mentre le altre figure professionali, in particolare se con un contratto libero professionale (come accade che sia per molti psicologi ed educatori nelle Aziende Socio Sanitarie Territoriali della Lombardia) hanno avuto una battuta d’arresto, durata un paio di settmane. Poi si è cominciato a capire che a fianco della cura della malattia emergeva la necessità di prendersi cura anche degli effetti psicologici che la nuova e inimmaginata situazione produceva nella popolazione. Alcune Aziende, come quella per cui lavoro, hanno autorizzato il lavoro online, e dunque le psicoterapie di pazienti particolarmente motivati hanno potuto riprendere, e anche qualche attività di gruppo, se non altro quelle che, come le psicoterapie, comportano il solo uso della parola.
Rispetto alle psicoterapie private, quelle in ambito istituzionale hanno delle caratteristiche peculiari che questo momento ha evidenziato, e che le differenziano in modo sostanziale.
Un paziente privato che vuole, con la disponibilità del terapeuta, proseguire la terapia online, utilizzando Skype, la videochiamata di WhatsApp o altri strumenti analoghi, lo concorda col terapeuta in un rapporto personale nel quale la modifica del setting si configura in modo chiaro, con una più o meno ridefinita contrattualità. In ambito istituzionale, la contrattualità è più complessa, avvenendo il pagamento in varie forme (alcuni pagano un ticket, altri sono esenti per patologia o per reddito) ed essendo spesso la motivazione iniziale intrecciata con l’indicazione data dallo psichiatra o dal medico di base, e dunque caratterizzata da un’ambivalenza e una conflittualità molto maggiore rispetto al regime privato. La variazione del setting, data da una condizione di pericolosità del mantenimento dello stesso nella modalità consueta, pone le condizioni per porsi delle domande sulla motivazione, e attiva delle difese che facilmente vengono inscritte in una dimensione di ragionevolezza che le giustifica. Pazienti che fanno fatica a venire in psicoterapia, ai quali lo psichiatra o il medico di base ha dato un’indicazione con un certo grado di perentorietà, e che attraverso la frequenza costante hanno acquisito gradualmente una disposizione d’animo favorevole all’incontro, facilmente si appoggiano alla difficoltà di accettare il setting online per sospendere la terapia, aspettando il momento della ripresa degli incontri di persona per riaprire un discorso che in questo modo tende a rinchiudersi su se stesso.
Al tempo stesso si ha anche la possibilità di un riconoscimento più profondo della motivazione. Pazienti che in regime di psicoterapia in ambito istituzionale trascinavano stancamente lunghe terapie con sedute ripetitive, in questo momento hanno potuto porsi in una nuova prospettiva, ritrovando la voglia di scegliere, in un contesto nuovo e con una distanza e vicinanza diverse, il desiderio di un incontro con caratteristiche rinnovate. È per esempio il caso di Luciana, una paziente prossima alla cinquantina, che viene da molti anni e che in tanti momenti fa dei lunghi silenzi, o a volte se ne va prima della fine della seduta, anche sbattendo la porta, dichiarando di non sentirsi capita. È stata una delle prime ad accogliere di buon grado la possibilità di sedute “a distanza” (sono sedute telefoniche, senza video, perché non ha né uno smartphone né un computer, ma solo un telefonino di più di dieci anni fa, senza la possibilità di utilizzare WhatsApp o Skype), e benché viva con grande disagio la situazione attuale, essendo sola con la madre molto anziana ricoverata in una struttura e il padre, solo a casa con lei, che si lamenta ed è aggressivo in continuazione, riesce a ritagliarsi, nella seduta telefonica, uno spazio di calore e di comunicazione empatica che nella continuità del rapporto vis à vis si è data raramente. Con ciò non intendo dire che Luciana non “senta” molto il legame con me anche nella continuità usuale; solo, riesce in questo contesto, dove trova per certi versi una maggior distanza e per altri una maggior vicinanza, a toccare le corde dell’empatia in un modo che risulta speciale e caratterizzato da un’autenticità per lei inconsueta.
Dal punto di vista dello psicoterapeuta, si apre uno spazio di riflessione che continuerà nel tempo, anche dopo che questo periodo sarà, si spera, superato.
Quella che i sacri testi definiscono “analisi della domanda”, che particolarmente in ambito istituzionale rappresenta un elemento cardine a fondamento del cosiddetto “piano terapeutico”, si riveste, in questo momento, di significati complessi e difficili da dipanare. In molte manifestazioni umane si è stravolto il criterio che definiva ciò che è normale e ciò che è patologico, ed è quindi più difficile rintracciare il filo conduttore di un processo di cura che solo qualche mese fa appariva chiaro, o per lo meno sufficientemente delineato negli obiettivi e nei mezzi per raggiungerli. Pazienti giovani che vivevano perennemente in casa, isolati dal mondo reale e in collegamento col mondo virtuale sviluppando competenze particolari in quest’ambito, sono in questo periodo l’espressione, a volte, di un adattamento alla realtà attuale molto più consono a ciò che è richiesto per la sopravvivenza tesa all’uscita dall’emergenza. Chi non stringeva mai la mano temendo contaminazioni e apriva le porte con il gomito per non infettarsi le mani può oggi a buon diritto rivendicare come plausibili le sue azioni; certo, se tutti fossero stati rupofobici (fobia dello sporco) oggi probabilmente il Coronavirus non avrebbe raggiunto livelli di diffusione così ampi. Arriviamo al punto di assistere, o esservi coinvolti in prima persona, ad incontri terapeutici nei quali un paziente fobico ossessivo, che passa le giornate al computer e non sente il disagio di non uscire e di non vedere altre persone che gli amici “virtuali”, si mostra ben adattato e dentro di sé a volte “trionfante” per le conferme implicite che il mondo dà al suo stile di vita, mentre il terapeuta, amante della natura e rivolto alle attività culturali e ludiche che la vita normalmente offre, si sente frustrato e demotivato ad affrontare la vita di tutti i giorni, a volte cadendo in un pessimismo che sfocia in uno stato a tutti gli effetti diagnosticabile come “depressione reattiva”. In una situazione come quella descritta, tutt’altro che rara a trovarsi di questi tempi, chi è il curante e chi il curato?
Io credo che, a fianco del discorso che propongo nel mio scritto che compare su questo numero della rivista, in cui sostengo che il momento storico ci mette nella condizione di accorgerci dell’importanza del dare, dell’amare e dell’essere parte di una società alla quale apparteniamo e con la quale non possiamo altro che vivere in una dimensione di scambio continuo nella reciprocità, questo stesso momento ci offra l’occasione per recuperare una caratteristica a volte sottovalutata, se non addirittura disprezzata: l’umiltà.
Credo che il buon terapeuta debba essere sempre in contatto con le sue parti più fragili, e farne tesoro per relazionarsi agli altri senza giudicare e cercando il più possibile di identificarsi e di comprendere, e l’occasione che ci è data di ribaltare i criteri fondamentali che fino a oggi hanno tracciato confini precisi fra normalità e patologia è un’occasione da non perdere.
Bion ha scritto questa dedica in epigrafe ai suoi scritti: “Ai miei pazienti, che mi hanno pagato per insegnarmi”. Penso che questa consapevolezza sia il cardine del nostro lavoro, e ci permetta di fare tesoro di un’esperienza come quella che stiamo vivendo, dove, prima di configurarci come pazienti o terapeuti, siamo appartenenti a un genere umano sconvolto e sperduto, che può risorgere solo con l’umile contributo di tutti. INSIEME.