Pratica Psicoterapeutica

Il Mestiere dell'Analista
Rivista semestrale di clinica psicoanalitica e psicoterapia

NUMERO 22
1 - 2020 mese di Giugno
ABBIAMO VISTO...
OLTRE LA SOGLIA. CHE COSA PUÒ IMPARARE LA PSICHIATRIA DA UNA FICTION TELEVISIVA?
di Giorgio Meneguz

La serie aderisce al filone delle fiction medical dramainvestigative (vedi Dr. House). Benché le storie siano incentrate sulle vicissitudini professionali (meno sulla storia personale) di Tosca Navarro, primario di un reparto che accoglie le acuzie di neuropsicologia infantile, a tratti la sceneggiatura scivola abbastanza felicemente verso il teen drama. Le concessioni a programmi trashcome i reality showsono quasi impercettibili, ma il finale sbava sfacciatamente verso un prodotto della tv generalista. Alla fine della serie tutti quanti i ragazzi, pazienti vecchi e nuovi, si riuniscono a una festa in cui si canta e si balla felici e contenti, i medici si abbracciano, il primario guarda sorridendo soddisfatta e se ne va, condividendo col suo fantasma adolescenziale, diventato ora – più di prima? − un’amica immaginaria, le parole cantate da gruppo musicale pop e dalla folla di giovani in coro: «Starò bene, te lo prometto». Dichiarazione che può suonare inquietante, quasi un refrainipnotico tipico delle sette, se non fosse che un happy enddopo le tempeste di emozioni scatenate dalle drammatiche vicende dei ragazzi, in cui fortunatamente la sceneggiatura non lascia spazio al melodramma, fa bene al cuore dello spettatore sensibile ed è benvenuto.

Come nascono le puntate? Con ogni probabilità le traversie personali e relazionali dei pazienti originano dallo studio del DSM da parte degli sceneggiatori. A differenza di altre serie, qui l’orientamento narrativo non insiste sulla vita dei medici, ne accenna ma senza approfondire perfino nel caso della figura centrale. Nel reparto ospedaliero i protagonisti del lavoro, diagnostico e terapeutico sono solo i medici e una psicologa. Una psicologa impreparata, spesso maldestra, cui in definitiva è affibbiato un ruolo marginale e privo di spessore clinico. Gli altri operatori sono esclusi dalla discussione e relegati nel ruolo di guardiani, sensibili e anche abilissimi a mettersi in sintonia nella relazione con i pazienti, ma del tutto privi della possibilità di contribuire alla comprensione del paziente. Che non ci sia traccia di un lavoro di équipe tra le diverse figure professionali è già una scelta di campo ideologica. Compito dei tre medici (Tosca Navarro, Alessandro Agosti, Francesco Negri) e della psicologa (Barbara Capello) è definire la diagnosi e la terapia farmacologica; gli unici momenti terapeutici sono l’approccio intuitivo al paziente da parte della dottoressa Navarro e il fattore curativo delle interazioni nel gruppo dei pari. Il ruolo della psicoterapia è ambiguo: incredibilmente a nessun paziente è consigliato un percorso psicoterapeutico, piuttosto è decretato che devono assumere i farmaci per tutta la vita. E con una proposta tecnicamente insostenibile, la dottoressa Navarro consiglia a una coppia una terapia famigliare per ben tre volte la settimana, e lei stessa è in psicoterapia addirittura col collega e amico Alessandro Agosti con cui è quotidianamente a stretto contatto! A differenza dei profili psicologici dei pazienti, abbastanza ben fatti, le figure dei medici, della psicologa e degli altri personaggi sembrano piuttosto dozzinali: il primario pazzo e geniale, l’arrivista narcisista, il mediatore pieno di buon senso, la “spalla” insignificante e priva di valore professionale, il direttore amministrativo sempre preoccupato per eventuali scandali e rogne legali, il PM con idee opposte a quelle della protagonista (è scontato che gli opposti si attrarranno).

Per dire qualcosa sulla dottoressa Tosca Navarro, il personaggio principale, è necessario partire dalla serie E. R., ideata da Michael Crichton, medico regista e scrittore, che ha segnato un punto di svolta nella costruzione narrativa della figura del medico. Da E. R.in poi i medici appaiono come persone problematiche, contorte, conflittuali e addirittura patologiche. La dottoressa Navarro appartiene alla figura di medico tipica delle nuove narrazioni televisive. Si differenzia dai protagonisti di altre fiction, in cui lo psicologo o il profilerè immancabilmente di orientamento comportamentista, talvolta vetero-comportamentista (si veda lo spin-off di Law & OrderCriminal intent, oppure Criminal mindsMindhunter). In Criminal Mind, per esempio, le interpretazioni dei criminali da parte dell’agente speciale FBI del Behavioral Analysi UnitMatthew Gray Gubler (interpretato da Spencer Reid), sfiorano talvolta il ridicolo. Nel nostro caso abbiamo una neuropsichiatra infantile che segue una metodologia piuttosto eclettica. Questo primario è in cura con Risperidone perché, così risulta, “ha” un esito schizofrenico paranoide di un disturbo borderline di personalità adolescenziale (ma lo spettatore vede solo crisi temporanee di stati dissociativi processuali con allucinazioni monotematiche in cui è perseguitata/accompagnata dal proprio demone, cioè lei stessa in età adolescenziale). Il suo talento professionale sembra derivare dalla psicopatologia (che vorrebbe tenere segreta) e dalla capacità di convivere con essa. La dottoressa non segue le regole e i protocolli. È contro-dipendente, anticonformista e cognitivamente libera da preconcetti, nel senso che le azioni seguono l’intuizione fulminea piuttosto che una riflessione o un metodo. Al romanticismo borghese che coniuga la genialità con la follia, si unisce dunque qui lo stereotipo del “genio e sregolatezza”. Ma l’idea è tutt’altro che innovativa. Alcuni esempi. Sherlock Holmes (Sherlock) sociopatico e tossicodipendente; Gregory House (Dr. House Medical Division) è dipendente da Vicodin e consuma altre droghe; John Thackery (The Knick) il primario del Knickerbocker Hospital è cocainomane, oppiomane, eroinomane; Daniel Pierce (Perception) è un neuroscienziato schizofrenico consulente FBI; Jean Halloway (Gypsy) una psicoterapeuta perversa; Chloe Saint-Laurent (Profiling) una psicologa criminologa schizofrenica; Adrian Monk (Detective Monk) è un investigatore fobico ossessivo compulsivo in personalità Asperger; l’agente della CIA Carrie Mathison (Homeland) soffre di schizofrenia paranoide ed è in cura con Clozapina.

Nella serie Oltre la soglianon è chiara la formazione professionale della dottoressa Tosca Navarro. Sembra orientata alla scuola di Pancheri («Deve assumere lo psicofarmaco per tutta la vita»), tuttavia, grazie ad alcuni fattori di personalità che la rendono creativa, esprime un approccio intuitivo al paziente. Per Navarro ogni paziente è una persona unica, al di là della diagnosi sempre pedissequamente ricercata (qui è evidente un’ulteriore aporia nella sceneggiatura). Nel personaggio c’è qualcosa di perturbante, poiché sembra rappresentare il Singolo kierkegaardiano: «sospende l’etica e le sue regole perché il suo fine è mettersi in rapporto con l’altro assoluto al di là dell’universale e senza mediazioni»[1]

In una delle prime puntate, Navarro risponde a un collega: «Freud è superato». Peccato che il suo modello di rapporto al paziente ricalchi, magari nella completa inconsapevolezza degli sceneggiatori, il lavoro di psicoanalisti, come Ronald D. Laing, John Rosen, Frieda Fromm-Reichmann, Gaetano Benedetti, Harold Searles, esperti nel lavoro con pazienti psicotici. Ad esempio, nel caso della tredicenne Dora, angosciata dal delirio di dover essere tagliata in due, la dottoressa usa la realizzazione simbolica della Séchehaye. Con Valerio in particolare, ma anche con altri, la dottoressa suona la lira con Nerone mentre Roma brucia, cioè entra nel delirio del paziente per costruire un’alleanza terapeutica, in linea con la raccomandazione di Searles per la psicoterapia della schizofrenia. Il momento in cui entra in rapporto col delirio di Lea ricorda la relazione di Frieda Fromm-Reichmann con la paziente Joan Greenberg (se Navarro avesse messo in doppio legame la giovane paziente sfidando l’allucinazione dominante, come fece Fromm-Reichmann, l’impatto emotivo nello spettatore sarebbe stato di grande effetto). Le incoerenze teoriche sono molte. Da un lato Oltre la soglia lascia intendere che la cura del disagio psichico consista unicamente nella somministrazione di psicofarmaci, e in tal caso la psicopatologia è vista come organicamente determinata, orientamento che porta a ignorare il contesto famigliare e culturale. Dall’altro, il lavoro dei medici coordinati da Navarro tiene in giusta considerazione anche la famiglia e l’ambiente (il primario si reca a fare visite domiciliari: vedi il caso di Valerio), e valorizza la buona relazione col paziente in sintonia con la sua dimensione psichica. Talvolta Navarro offre affetto secondo il modello di Gertrud Schwing (vedi, tra gli altri, il rapporto con Marica), altre volte fa provare al paziente la sua potenza, assieme protettiva e capace di sbloccare, d’accordo con la tecnica di John Rosen (vedi l’intervento brutale con Emma). Contraddizioni e assonanze come quando Navarro parla di sé e dice: «Io ho la schizofrenia, non sono schizofrenica». La dichiarazione concorderebbe perfettamente con l’orientamento teorico di certa antipsichiatria inglese (ma anche statunitense, vedi Thomas S. Szasz: «Un paziente è schizofrenico non perché è un certo tipo di persona, ma perché uno psichiatra lo ha condannato»). Ma è evidente che l’orientamento (dichiarato) di Navarro verso lo psicotico, o forse verso la psicopatologia in generale, non è psicoterapeutico bensì medicalizzante. “Ho la schizofrenia” significherebbe dunque nella fiction “c’è la malattia, che va curata con i farmaci, ma la persona è molto più della malattia” − frase che la protagonista usa dire in alcune occasioni. Una cosa, però, è la convinzione che la psicosi sia un’esperienza umana, molto angosciante, cui la psichiatria applica un’etichetta diagnostica invalidante, che rimarrà appiccicata per sempre al soggetto[2]. Ben altra cosa dall’approccio fenomenologico-esistenziale integrato con la Labelling Theory è il modello organicista che tramite l’etichetta medica finisce col cronicizzare il paziente. 

Quanto agli attori adulti, non sempre ben diretti, essi non mostrano appieno le capacità recitative, le loro voci per esempio sono spesso prive di vita. La colonna sonora che commenta le vicende è a dir poco sgradevole quando non irritante. La dottoressa Navarro è interpretata da Gabriella Pession, un’attrice dal forte impatto visivo per la bellezza semplice e magnetica. Purtroppo la direzione non ha sfruttato al meglio le ottime risorse recitative dell’attrice, che tiene bene nelle parti drammatiche nelle circostanze extralavorative, ma nel ruolo di primario non è credibile. È probabile che la sceneggiatura preveda un personaggio siffatto, ma quella voce sussurrata, monotona, innaturale, senza emozioni, è del tutto fuori luogo, così come la gestualità affettata e le espressioni mimiche artificiose. Tuttavia, se condividiamo l’indicazione di Mario Monicelli secondo cui un attore è ottimo quando non si vede che è un attore, i difetti di recitazione degli adulti sono controbilanciati dall’alto livello dei ragazzi − Alessandro Volpes, Riccardo Russo, Giulia Sangiorgi, Matteo Savino − tutti molto bravi, bravissima la diciassettenne Aurora Giovinazzo che interpreta il ruolo di Marica.

Difetti, confusione, fraintendimenti teorici e clinici, non hanno tolto sapore alla serie né rovinato l’indicazione alla psichiatria che si può cogliere. A me è piaciuta. L’umanità dei personaggi e la capacità di alcune scene di toccare le corde delle emozioni più intense, mi hanno coinvolto. Dal punto di vista tecnico/clinico la serie è a un livello molto più alto rispetto alla sopravvalutata In-Treatment (statunitense e italiana). Non tutti i racconti sono interessanti, ma in alcuni la creatività terapeutica colpisce nel segno, sia per la correttezza sul piano clinico/terapeutico sia per gli stati di commozione o di apprensione che è in grado di suscitare nello spettatore.

Non ho gradito l’idea del medico supercalifragilistichespiralidoso, le cui qualità terapeutiche derivano dalla sua psicopatologia a tratti invalidante. Mi è piaciuto però il messaggio che ho voluto leggervi: anche in un Servizio psichiatrico di diagnosi e cura (Spdc) si può fare terapia, se solo ci si libera delle maglie medico-psichiatriche organiciste improntate al controllo chimico degli stati mentali e ci si permette di vedere la psicosi come un modo angosciato e angosciante di essere al mondo, di là da ogni etichetta medica, e di usare dunque nel rapporto col paziente l’empatia, la potenza creativa, la disinibizione cognitiva. Mi piace vedere nell’episodio di Adila un invito a riutilizzare il rito e il simbolico culturalmente determinato, che si utilizzava in psichiatria quarant’anni fa in alcune circostanze nel lavoro territoriale con le famiglie[3].  Si può vedere nella fiction un invito agli operatori della psichiatria ad andare oltre la soglia del proprio stanzino medico o infermieristico, levarsi il camice, liberarsi dagli schemi scolastici e accedere all’inventiva, salire sul cornicione del palazzo con l’aspirante suicida, sedersi a terra accanto al paziente riluttante e alla fine abbracciarlo con calore, coricarsi sul letto del paziente insonne, persino spogliarsi per avvicinare il paziente nudo che imbratta di feci le pareti della camera. Per fare questo non è necessario essere stato diagnosticato schizofrenico, o “avere” la schizofrenia (come se esistesse una malattia sotto l’etichetta “schizofrenia”). E neppure è necessario assumere LSD, peyote o psilocibina per vivere l’esperienza di una psicosi artificiale e illudersi ingenuamente di capire così la psicosi. In questo senso, credo sia necessario mettere in luce qui una nota mistificante di Oltre la soglia, laddove è enfatizzato il luogo comune borghese secondo cui i risultati non si conquistano col lavoro di gruppo ma con l’eroismo di una singola persona di potere, folle o bizzarra. Niente di tutto questo è necessario per fare una “buona psichiatria”: è sufficiente possedere sensibilità umana, la capacità di lavorare in équipe al di là dei diversi ruoli, la conoscenza di come funzionano la mente e le dinamiche familiari; e possedere la voglia di riflettere sulla funzione dell’ambiente che circonda il paziente e sul peso della presa in carico psichiatrica nel cronicizzarlo come paziente psichiatrico.


05/02/2020



[1]Kierkegaard S. (1843), Timore e Tremore, Milano: Mondadori, 1997, p. 24

[2]In altri termini, dire di un uomo che “beve troppo” oppure che è “alcolizzato” comporta un diverso prezzo sociale per il soggetto; in alcuni casi la persona etichettata può diventare ex, come un ex-tossicodipendente, che è sempre “tossicodipendente” ma “ex”, in altri casi l’etichetta non la leverà più nessuno: schizofrenico eri e schizofrenico rimani. Si veda in proposito la reazione di Rümke verso gli schizofrenici che sono riusciti a liberarsi dalla psicosi: “Se sono guariti, non erano schizofrenici”.

[3]AA. VV. (1981), Approccio relazionale e servizi socio-sanitari, Roma: Bulzoni, pp. 93-105.

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