Faccio fatica a respirare e ho mal di gola. Poi deglutisco e mi accorgo che non c’è dolore: c’è solo l’aspettativa del dolore; poi mi rilasso e mi accorgo che i polmoni si riempiono: la tensione comprimeva i muscoli del petto. In questi giorni ascolto il mio corpo intensamente – e sì che è sempre stato un corpo che, se non ascoltato, reclama attenzione, urla, pretende.
È presto per un sospiro di sollievo.
Di tutto questo caos del virus, mi ha colpito soprattutto il respiro.
Il respiro che infetta, che veicola morte. Il respiro che è sempre stato vita.
La Bibbia è un testo sacro, ma è anche un atlante di cultura antropologica. Nella Genesi, Dio soffia un alito di vita nelle narici dell’uomo e questi diviene essere vivente. Nelle Scritture, la parola ebraica nepheshricorre centinaia di volte: indica l’attività vitale del respiro, significa vita. È la parola divina, la Parola, che è poiesi, è creazione. I Greci l’hanno tradotta in psyché(ψυχή) - forse è per questo che, di tutto il caos, mi colpisce il respiro. E i Latini hanno usato il termine anima, che è un soffio.
Ogni vita terrestre comincia con un vagito, un primo singulto, uno spasmo originario che traumatizza i polmoni attivandoli: sono gli unici organi che partecipano alla vita appena entrano in contatto con l’aria, tutti gli altri sono già rodati da mesi intrauterini. Il ritmo polmonare si affianca al ritmo cardiaco: se si accordano bene, suonano vita.
Il respiro è la forma basica di comunicazione, il primo scambio tra dentro e fuori, il primo baratto tra noi e il mondo: non è vero che l’aria è un canale per il messaggio, l’aria èil messaggio ed è traduzione di se stessa. Ma, all’improvviso, ha cessato di tradurci e ha iniziato a tradirci. Più parliamo, più ci tradiamo: lasciamo nell’aria memorie infinitesimali di noi, gocce nebulizzate del nostro oceano personale, generosissimo dono all’altro, pericolosissimo ricordo per l’altro. Potenziale damnatio memoriaedefinitiva. La voce umana, nello sciorinare significanti, diventa continuo atto perlocutorio, con effetto annichilente nella realtà. La voce umana deve tornare eco divina, alitare vita, donare il significato, significare il dono. Deve giocare, traumattizzando le menti per riattivarle.
Una sera sono andato a letto in un mondo ipocrita e senza paure, il giorno dopo mi sono svegliato in un mondo più fragile e più sincero. In un mondo paranoico, dove l’amico di ieri oggi è un possibile untore: basta ridere con lui e, se proprio accade, va fatto con la mascherina, nuovo filtro che traduce il tradimento in pallido incontro; basta strette di mano, gesto nato per dimostrare di non impugnare armi, siamo diventati tutti pistoleri. In un mondo psicotico, che brama scambiarsi abbracci, anche quelli mai dati, ma ne ha una paura fottuta. In un mondo ossessivo, che deve giustificare ogni movimento, spostarsi da A a B come pezzi di scacchi in una guerra simulata, garantirsi con un salvacondotto. In un mondo depresso, perché ci sono i bastardi che escono, ma i più bastardi si autorecludono in casa propria. In un mondo matto, dove i matti non stanno meglio, ma finalmente tutti si sono allineati a loro.
In un mondo amnesico perché, strappato qualche foglio di calendario, avremo dimenticato di giocare ai matti, dimenticato il loro terrore e scordato anche che lavare le mani è buona cosa sempre, anche senza coronavirus. Ma sarà un mondo che tirerà un sospiro di sollievo, non saprà più bene perché, ma lo farà forse solo perché potrà, perché sospirare non sarà più un pericolo.