Di tutta questa vicenda del Covid-19 che cosa ha toccato di più e anche sorpreso di più il tuo sguardo di filosofo? Che cosa in particolare ha sollecitato la tua attenzione e il tuo interrogarti?
Il Covid19 è una brutta influenza; quando finalmente tireremo i conti, vedremo che avrà avuto forse un numero di vittime superiore, ma non di molto, a quello di influenze del passato. Un documento dell’Istituto Superiore della Sanità del luglio-agosto 2019 dice: «Le infezioni respiratorie acute causate dai virus influenzali possono essere lievi, gravi e possono persino causare la morte nei soggetti a rischio come anziani e bambini. Si stima che le epidemie annuali causino da 3 a 5 milioni di casi di influenza e da 290.000 a 650.000 morti in tutto il mondo». E aggiunge: «Il ricovero e la morte si verificano principalmente tra i soggetti ad alto rischio, che includono donne in gravidanza e chiunque abbia patologie sottostanti come diabete, obesità, malattie dell’apparato respiratorio e cardiovascolari». A oggi, 26 aprile 2020, i casi riportati in tutto il mondo sono meno di tre milioni e i morti poco più di 200.000. Ma ci sono state altre epidemie in questa circostanza, che mi hanno dato molto da pensare. Un’epidemia di pensiero unico, che ha visto la grandissima maggioranza delle persone allinearsi su un singolo atteggiamento e ostentare non solo rifiuto ma intolleranza e talvolta censura e violenza nei confronti di atteggiamenti diversi. Un’epidemia di panico, che, anche per effetto di una propaganda a tappeto, ha attanagliato i più – e di paura si muore. Un’epidemia di patriottismo, che nel nostro Paese mi ha ricordato la peggiore retorica del regime fascista.
A te che sei un logico chiedo: ha colpito molto il flusso caotico della comunicazione anche da parte di uomini di scienza oltre che di politici e giornalisti. Ne è derivata incertezza e qualche sospetto. Anche i dati statistici venivano assemblati in modo incoerente e inconfrontabile. Che cosa pensi di come è stata gestita la comunicazione?
In Italia, con estrema superficialità e confusione. Passi per la grancassa mediatica. Per un giornalista, come è noto, che un cane morda un uomo non è notizia ma che un uomo morda un cane è notizia; quindi la corsa a sbattere il morto in prima pagina è comprensibile, anche se non condivisibile o encomiabile. Ma la successione frenetica di decreti e ordinanze delle più diverse autorità, tutti basati su certezze incontrovertibili ma anche in conflitto tra loro e con i più elementari diritti dei cittadini, è stata davvero imbarazzante. Ha dato la chiara impressione di essere in mano a dilettanti, che si inventavano qualcosa di giorno in giorno.
Le misure politiche e sanitarie si sono basate sul criterio, prioritario e assoluto, della tutela della vita. Giusta priorità. Ma ti chiedo: priorità necessariamente unica e assoluta? Poche voci isolate hanno richiamato ad altri criteri di valore: la libertà dell'individuo, il valore dell'incontro in uno spazio fisico reale, il contatto con la natura, il diritto alla privacy. In situazioni di emergenza come questa, che sappiamo si potrà ripetere in futuro, come si può tentare, a tuo avviso, di coniugare ordini valoriali così diversi?
Nello spazio della politica, cioè dell’incontro, confronto e negoziato fra diversi, nessun valore è assoluto. Fra le poche voci isolate che menzioni c’è stata la mia, che ha cercato di mettere sul tavolo i valori da te citati e anche altri: il valore di un’economia allo sbando, con attività commerciali costrette al fallimento e famiglie ridotte alla fame; il valore di bambini privati di aria, di sole, di moto e di gioco in comune; il valore di una qualità della vita che viene negata ad anziani condannati a vivere e morire da soli, senza il conforto di una persona cara; il valore di una cultura soppressa, con musei, biblioteche e teatri chiusi; il valore di una generazione di studenti cui è stato tolto un anno di formazione scolastica. Con persone ragionevoli ed equilibrate, tutti questi valori avrebbero dovuto essere opportunamente soppesati, cercando una mediazione e ben sapendo che (come ci ha insegnato Machiavelli) a tutti (incluso il valore della vita e della salute) si sarebbe dovuto togliere qualcosa: che si trattava di scegliere non tra un bene e un male ma tra mali, quindi di scegliere il male minore. Ma con la precipitazione e l’arroganza della nostra classe politica è poco plausibile aspettarsi equilibrio e ragionevolezza.
Credo che un logico e filosofo abbia tutta una serie di riserve di fondo sulla psicoanalisi. Personalmente ritengo però che uno dei fondamenti del pensiero analitico mantenga tutta la sua validità: non siamo padroni in casa nostra, siamo come Arlecchino servitore di più padroni. Parliamo, ma siamo soprattutto parlati. Agiamo, ma siamo agiti. In tale consapevolezza comune non credi che lo psicoanalista e il filosofo possano incontrarsi e riflettere insieme?
Freud è il primo autore che ho letto integralmente, a vent’anni. Più tardi me ne sono allontanato, giudicandolo portatore di una visione limitativa e lugubre della natura umana; ma è indubbio che ne abbia ricevuto importanti influssi, come la tendenza a una lettura sintomatica dei testi. E come quello che citi, per il quale però non è necessario riferirsi a Freud. Il vero avversario, qui, è Cartesio, con la sua tesi che il soggetto abbia un accesso trasparente, privilegiato e infallibile ai contenuti mentali. Io ho sostenuto invece che il soggetto è intrinsecamente politico, quindi, come dicevo prima, è a sua volta luogo d’incontro, confronto, negoziato e talvolta conflitto tra diversi – confronto e talvolta conflitto anche su che cosa sia successo, che cosa si ricordi, che cosa si creda. Nel mio percorso ho avuto molti compagni di strada: non solo Freud ma anche Platone, Aristotele, Kant, Kierkegaard, Nietzsche… Detto questo, è indubbio che intellettuali di formazione e convinzioni diverse, e ugualmente interessati a capire gli esseri umani e sostenerli nei loro disagi, possano solo trarre profitto dall’entrare in un dialogo.
La psicoanalisi, con tutti i suoi limiti, rimane un'espressione alta di quel pensiero critico che forse è la conquista più autentica dell’Occidente. A questo riguardo so che tu constati un declino di tale forma di pensiero. Che cosa possiamo fare, come psicoanalisti e come filosofi, per resistere al declino?
Del declino di cui parli ho trattato in un mio libro recente, La scomparsa del pensiero (Feltrinelli 2017); a quel che ho detto lì vorrei aggiungere solo una cosa. Non ci sono soluzioni definitive, perché i nemici sono sempre gli stessi: la pigrizia intellettuale, la codardia, il conformismo. E, appena si abbassa la guardia, questi nemici riprendono il controllo della situazione. Bisogna lottare giorno per giorno, ora per ora, per educare non solo i giovani ma anche noi stessi, reciprocamente, alla costanza e al rigore della critica. E incoraggiarci reciprocamente mostrando che la critica di un’idea non è l’inimicizia per una persona: che in questo gioco non solo si può ma si deve vincere insieme, illuminando ciascuno i punti ciechi dell’altro.
Ermanno Bencivenga è Distinguished Professor di Filosofia e Humanities all’Università di California. Logico di fama, ha dato importanti contributi alla filosofia del linguaggio, alla filosofia morale e alla storia della filosofia. In Oltre la tolleranza, Manifesto per un mondo senza lavoro e Parole che contano ha elaborato un’utopia politica. Fra i suoi libri più recenti: La filosofia in ottantadue favole (Mondadori 2018), La stupidità del male (Feltrinelli 2019), L’arte della guerra per cavarsela nella vita (Rizzoli 2019), 100 idee di cui non sapevi di avere bisogno (Rizzoli 2020). È autore di sette raccolte di poesie, delle tragedie Abramo, Annibale e Alessandro, del romanzo Il giorno in cui non tornarono i conti e delle raccolte di racconti I delitti della logica, Case e Amori. Ha fondato e diretto per trent’anni (fino al 2011) la rivista internazionale di filosofia Topoi. Collabora a Il Sole-24 Ore.