Questo scritto è stato realizzato dall’allievo della Scuola SPP dr. Emanuele Visocchi, che ha sintetizzato i contenuti di due Seminari tenuti dal dr. Antonello Correale presso la Scuola Psicoterapia Psicoanalitica Individuale dell’Adulto, Milano
L’antica esortazione greca “Conosci te stesso” potrebbe essere riformulata in “non avere paura di te stesso”, cioè non temere nulla di te, nemmeno del nucleo più oscuro: è forse proprio in esso che siamo più soli e più Soggetto, poiché se vogliamo essere noi stessi, dobbiamo innanzitutto accettare di non essere l’Altro. E questo piccolo, grande passo di consapevolezza apre alla condizione di essere soli.
Di solitudine non ne esiste un solo tipo - lasolitudine - ma vari. Cercando una definizione generale, la solitudine potrebbe intendersi come un accoglimento nostalgico di un certo distanziamento dall’oggetto reale. È, quindi, l’esperienza soggettiva di chi riesce a superare il lutto. Essa può essere pensata in tre fasi: nella prima, l’oggetto è perduto; nella seconda, il soggetto “mette dentro” di sé qualcosa dell’oggetto perduto; in terza battuta, ha luogo una comprensione, emotiva e ontologica, che l’oggetto perduto è altro da sé. È l’esperienza del lutto, fondamentale per sancire di non essere l’Altro e per aprirsi all’Altro: l’operazione di emancipazione dagli oggetti primari ha il prezzo della solitudine, ma permette poi di avere amicizie, compagna/o, famiglia. Determinare la propria separatezza, infatti, non significa non avere rapporti, bensì che l’altro è un Altro: questa è la condizione necessaria per avere rapporti sani. La solitudine, perciò, non è legata alla separazione, bensì alla separatezza: ci si può dedicare all’altro, ma consapevoli che l’altro è Altro da sé. Già queste riflessioni fanno capire che discettare di solitudine non è solo lavoro filosofico o esistenziale, ma permette di fare anche clinica.
Nel 1915 Freud ha scritto un breve, intenso lavoro sulla transitorietà dal titolo Caducità. In esso riporta le riflessioni fatte durante un soggiorno agostano sulle Dolomiti, due anni prima della stesura. A passeggio con un giovane poeta (si ipotizza fosse Rilke) e un amico silenzioso, Freud nota l’impossibilità per i due compagni di gioire di fronte ai paesaggi: “Il poeta ammirava la bellezza della natura intorno a noi ma non ne traeva gioia. Lo turbava il pensiero che tutta quella bellezza era destinata a perire, che col sopraggiungere dell’inverno sarebbe scomparsa”. L’altro amico, al contrario, ne rifiutava con tutta forza la natura transitoria. Freud ipotizza che “doveva essere stata la ribellione psichica contro il lutto a svilire ai loro occhi il godimento del bello. [...] L’idea che tutta quella bellezza fosse effimera faceva presentire a queste due anime sensibili il lutto per la sua fine; e, poiché l’animo rifugge istintivamente da tutto ciò che è doloroso, essi avvertivano nel loro godimento del bello l’interferenza perturbatrice del pensiero della caducità”.
Sempre del 1915 è scritto Lutto e Malinconia. La date non sono mai casuali: con lo scoppio della prima guerra mondiale, Freud cerca di capire come si supera il lutto e perché è così doloroso staccarsi da un “oggetto”. La guerra, scrive, “depredò il mondo delle sue bellezze. [...] Ci depredò di tante cose che avevamo amate e ci mostrò quanto siano effimere altre cose che consideravamo durevoli” (da Caducità).
Con il termine ‘lutto’ s’intende la perdita di un oggetto che era stato investito con un legame molto potente; tale oggetto custodiva qualcosa di positivo di noi e, viceversa, noi custodivamo qualcosa di buono dell’oggetto. La perdita può essere dettata dall’allontamento dell’oggetto, o dalla sua morte, o ancora da un suo tradimento. Per superare l’esperienza della perdita, secondo Freud è necessario qualche meccanismo, come quello dell’identificazione e, ancora meglio, dell’introiezione. L’identificazione è la più antica modalità di legame tra esseri umani: con essa si diventa, in qualche maniera, l’Altro; con l’introiezione, l’oggetto diventa parte di sé, lo si fa vivere dentro di sé mediante una sua rappresentazione. Certamente qualunque oggetto interno non riempirà totalmente la mancanza, ma permetterà di starein quella mancanza. “Noi reputiamo di possedere una certa quantità di capacità di amare - che chiamiamo libido - la quale agli inizi dello sviluppo è rivolta al nostro stesso Io. In seguito, ma in realtà molto presto, la libido si distoglie dall’Io per dirigersi sugli oggetti, che noi in tal modo accogliamo per così dire nel nostro Io. Se gli oggetti sono distrutti o vanno perduti per noi, la nostra capacità di amare (la libido) torna a essere libera. Può prendersi altri oggetti come sostituti o tornare provvisoriamente all’Io. Ma perché questo distacco della libido dai suoi oggetti debba essere un processo così doloroso resta per noi un mistero sul quale per il momento non siamo in grado di formulare alcuna ipotesi. Noi vediamo unicamente che la libido si aggrappa ai suoi oggetti e non vuole rinunciare a quelli perduti, neppure quando il loro sostituto è già pronto. Questo, dunque, è il lutto” (da Caducità).
Oltre mezzo secolo più tardi, Winnicott indica un’esperienza paradossale quale passaggio fondamentale nella maturità dello sviluppo emotivo, ovvero la capacità di essere soli in presenza dell’altro. La solitudine diventa una libertà, una condizione di cui poter godere. Possiamo immaginare che, con quelle parole, Winnicott indicasse la condizioni per cui, anche quando l’altro è meraviglioso, è amato o odiato, si mantenga il senso che qualcosa è solamente propria e separata. Si può parlare e si può stare in silenzio insieme: è la solitudine sana, come quella raggiunta dal paziente che sa stare in silenzio col proprio analista. È possibile che Winnicott intendesse anche sottolineare l’importanza di tenere una parte di sé a guardare il resto interagire col mondo e a dialogare con esso, in una sorta di dissociazione buona. Una certa solitudine è garanzia di un dialogo con l’oggetto interno.
Abbiamo visto che l’introiezione è il meccasimo che permette una solitudine possibile e sostenibile. Prendere dentro di sé (la rappresentazione di) un oggetto, permette di stare senza l’oggetto esterno. Altrimenti l’Altro diventa necessario, si diventa pazzi in sua assenza, si produce dipendenza; oppure, altro scenario possibile, si sviluppa il terrore per l’Altro, tutto ciò che fa l’altro rimbomba dentro (per esempio, gli individui borderline vivono con paura sia l’eccessiva presenza - perché l’altro invade - sia l’eccessiva assenza; il troppo pieno e il troppo vuoto). L’Altro diventa, allora, temuto e desiderato, ma non amato.
L’introiezione lenisce anche un altro sentimento scomodo, il senso di tradimento: esso è un altro scotto che si paga per affermare che si è separati, ‘io non sono come te’. Accettare il lutto è anche accettare il rischio di tradire qualcuno cui vogliamo bene, di tradire il genitore fantasmatico (e a volte pure quello reale).
Ma non sempre, non a tutti, l’elaborazione del lutto riesce (come al poeta in Caducità). Chi non riesce, vede la morte ovunque. Perché non si riesce? Per Freud la ragione è nella violenza e nei sentimenti aggressivi provati verso l’oggetto perduto e che si mischiano con quelli positivi; non solo, possono giocare un ruolo anche i tratti negativi dell’oggetto che sono stati presi dentro di sé. Tutto ciò può, talvolta, rendere impossibile il processo dell’introiezione. E per Freud, il risultato di un lutto mancato è la depressione. L’individuo depresso patisce un costante senso di colpa, perché negli affetti per l’oggetto perduto c’è troppa rabbia e aggressività (che giunge a rivolgere soprattutto contro se stesso).
Anche l’eccesso relazionale impedisce la giusta elaborazione. Per esempio, quando un infante subisce un eccesso nella relazione con l’oggetto primario, per difetto e mancanza oppure per presenza e intrusione: in queste condizioni fallisce l’introiezione e, quindi, anche la futura elaborazione del lutto. Ciò apre ancora alla depressione. Due esempi opposti di “troppo” relazionale: la morte precoce di un genitore, ovvero l’assenza di un oggetto significativo, può trasformarlo in un’iper-presenza e farlo diventare idealizzato o cattivo; il trauma, esperienza eccessiva per definizione, che è l’irrompere di un eccesso non simbolizzabile, non comunicabile con il linguaggio, e capace di infrangere la barriera paraeccitatoria e la continuità psichica, porta il soggetto a identificarsi con l’oggetto traumatico/eccessivo: non c’è contenimento, non c’è distanza, non c’è elaborazione.
C’è anche il cosiddetto ‘lutto congelato’: ha luogo quando i genitori controllano i figli in modo ossessivo, offrendo un modello in cui tutto deve essere dominato - anche, e soprattutto, gli affetti negativi. Il lutto congelato dà l’illusione del controllo, del contegno equilibrato, ma non c’è mai vera perdita, né la sua elaborazione.
La modalità del lutto e del vissuto di solitudine aiutano a fare diagnosi. Tutto ciò che ha a che fare con la separazione ricorda la frattura originaria, il distacco dalla simbiosi diadica. Questo è un punto centrale nelle psicosi: in esse qualsiasi attivazione, qualsiasi novità è difficile perché tutto ciò che si fa ha a che fare con il distacco da quell’unità originaria, ne risuona la drammatica frattura. Un individuo nevrotico, di fronte a un paesaggio bellissimo, prova gioia per quella bellezza, ma allo stesso tempo sente anche amarezza, perché sa che non sarà mai quel paesaggio. Lo psicotico, invece, sente di essere anche quel paesaggio e la temporaneità di quello ha in sé l’eco della perdita primaria e di ogni altra perdita.
La perdita, poi, ci mette a contatto con l’unicità: l’improvvisa mancanza dell’oggetto si fa sentire proprio perché quell’oggetto era unico. Non tutti sono capaci di tollerare la condizione di unicità e la solitudine che essa comporta: l’individuo maniacale, per esempio, sostituisce subito l’oggetto, nega la perdita della sua unicità e nega che tale unicità sia incolmabile, insostituibile.
Infine, la perdita apre al ‘sentimento oceanico’, a quell’attrazione per l’infinito, a quel tropismo a tornare al piacere originario - che per il religioso è Dio, per il mistico è l’armonia ecumenica, per il filosofo è il momento estetico, per Freud è la condizione di narcisismo primario. Per lo psicoanalista, il sentimento oceanico riporta a un lutto originario, quello della nascita e della separazione dal corpo della madre: nasciamo separandoci e per tutta la vita rimpiangiamo (e inseguiamo) la riunificazione. Ma l’allargamento del contesto ha un prezzo: aumenta il senso della nostra piccolezza, della nostra solitudine. Anche per Melanie Klein la solitudine è il senso di aver subito una grande frattura originaria irreversibile e dolorosa. La Klein ha scritto un saggio intitolato On the sense of Loneliness, in cui definisce la solitudine come la sensazione di non essere più protetti da una madre onnipotente che accoglie nel suo ventre; è la nostalgia della madre, di quell’ente che dà garanzia, che dice “tu sei dentro di me e io ti proteggo”. È la nostalgia di un oggetto originario perduto e tale perdita sarà sentita per sempre.
Come abbiamo già visto, per accedere a questa nostalgia è necessaria la capacità di separarsi dall’Altro; ma è importante anche aver raggiunto la posizione depressiva nello sviluppo psichico: certo, essa è una sorta di feticcio, non la si raggiunge mai, o quasi mai, totalmente; semmai ci sono momenti in cui l’individuo è capace di integrazione, in cui prova sentimenti misti, in cui Eros e Thánatos, amore e odio coesistono e hanno il loro spazio. L’integrazione implica fatica e lavoro, è una scelta meno economica della scissione, ma consente di mettere insieme parti diverse di noi stessi (facendo anche “nascere” il tempo, necessario per passare dall’amare all’odiare e viceversa) e di guadagnare uno sguardo più ampio, di toglierci dalla massa indistinta, di fare esperienza della solitudine e di avanzare nel processo di soggettivazione. Diventare soggetto significa riconoscere di avere una parte oscura, quel qualcosa di sconosciuto che gli antichi greci invitavano a non temere. Come per l’integrazione, quando accediamo alla soggettività, caliamo nel compromesso: per raggiungerla, qualcosa è da lasciare andare, qualcosa si acquista. Proprio questa è la condizione umana: un perenne baratto, una continua opera di fine diplomazia: per conquistare qualcosa, dobbiamo perdere altro. Senza soggettivazione diventiamo la ripetizione di ciò che siamo già, il tempo si cristallizza e viene continuamente reiterato: la psicoanalisi lotta contro questo.
Per Freud, la crescita comporta l’uccisione del padre (per farlo rinascere in altro modo) e ciò determina sensi di colpa per il parricidio commesso; ma si uccide il padre dittatore in favore del padre legiferante, che detta le linee guida per diventare soggetto. Oggi il Soggetto è messo a rischio dal “noi”, dall’appartenenza a tutti i costi, dal conformismo coatto: in tali condizioni, il soggetto non riesce a svilupparsi, poiché necessita anche quote di solitudine.
La solitudine, quindi, dev’essere vista anche come garanzia di un certo grado di libertà, oltre che di una certa quota di angoscia - che non bisogna dimenticare: esiste, infatti, un piccolo scarto, ed esso è l’angoscia di essere soli di fronte al mondo e alle proprie scelte. La libertà è tanto desiderata quanto temuta proprio perché fa sentire soli. Questa, in fondo, è la condizione dell’esistenza. Jean-Paul Sartre, in un testo dal titolo L’esistenzialismo è una forma di umanismo?, afferma che le persone si dividono in due gruppi: chi si pone il quesito “Io esisto?” e chi non se lo pone. Esistere non è qualcosa di scontato, nè di innocuo: l’angoscia dell’esistere si spiega già con la sua etimologia, ‘esistere’ significa che si è anche soli: exsistĕre, derivato di sistĕre, cioè ’stare’, e del prefisso ex- ’fuori’, quindi esistere è uno stare fuori, un essere buttati nel mondo. Per quanto possiamo essere supportati e sostenuti, c’è sempre qualcosa che rimane fuori da ciò e si situa nell’alea, nella caducità. Basta un niente per toglierci di mezzo, per esempio una malattia. Chi non si è mai posto il quesito non è davvero in contato con se stesso e Sartre lo definisce in “malafede”, ovvero nell’autoinganno, nella condizione di non voler riconoscere le proprie solitudine e precarietà. Freud diceva che basta un mal di denti per convogliare tutta la mente del soggetto lì, in quel dolore puntuale, e tutto il resto cessa di esistere; quel male focalizzante, quel semplice mal di denti getta un’ombra di solitudine.
Talvolta viene assunto un altro criterio, oltre a quello proposto da Sartre, per dividere gli esseri umani, ovvero tra chi ha una preponderanza di impulsi individualizzanti e chi di impulsi deindividualizzanti. Il primo tipo di impulsi richiede fatica, lavoro, ma rende soggetti; il secondo spinge a fondersi con la massa, a perdere la soggettività, a diventare una cosa unica - da soli non si conta nulla, con “noi” sei tutto - e portano a fondersi con l’altro. Gli impulsi individualizzanti, invece, aprono all’altro in maniera sana: riconoscere le pulsioni è riconoscere una certa insaturazione dell’essere soli, una certa necessità dell’Altro separato da noi. Emerge, così, il bisogno di condivisione o bisogno di intimità. Quello di condividere è il bisogno di commozione, di vedere se l’altro prova ciò che provo io. È un bisogno tipico del genere umano ed è corollario al bisogno di capire: perché quell’emozione sia vera, dev’essere riconosciuta, confermata, condivisa dall’altro. Questo fenomeno fa da sfondo a una delle tante forme di solitudine, cioè quella vissuta da chi ha un mondo spirituale o una dimensione intellettuale ricchissimi e intensi, ma è attorniato da persone che non li capiscono o addirittura li denigrano.
La condivisione, poi, non deve essere fatta coincidere con il voler bene. Infatti, a volte, il voler bene blocca dal condividere proprio per paura che l’altro non condivida; oppure si reclama, si esige che l’altro condivida, anche quando questo non accade naturalmente. Ne risulta che amare non è semplice, ma che essere amati è una grande responsabilità e una grande occasione: l’amante dice “tu mi fai soffrire se non sei così come mi aspetto”; allora, per l’amato, accettare la propria soggettività significa infrangere la bolla di aspettative che l’altro gli mette addosso (se lo ama in modo sbagliato). Se l’amato sa tollerare quello scarto di separatezza, sperimenterà un episodio di solitudine soggettivante.
Il tema della condivisione ne richiama un altro, quello dell’intimità (dal latino intimus, ciò che sta dentro - dentro l’anima, dentro l’affetto), concetto che parla tanto di relazione quanto di solitudine. Ci sono argomenti che possiamo condividere facilmente (per es., il tempo atmosferico), altri con una certa facilità (per es., le preferenze personali), infine ci sono le confidenze da dire solo a coloro che coglieranno senza ignorare o senza deridere. Quando si sente che l’intimità non è mai condivisibile è un problema molto grave, come accade nelle psicosi. L’intimità è un moto dell’animo che non sappiamo se l’altro accetterà o no e siamo di nuovo gettati nell’alea. Opposto, ma in ultimo simile, è il bisogno di buttar fuori, di condividere con chiunque (in realtà è un attacco all’intimità, tipico dei nevrotici isterici) e può creare solitudine, far emergere un senso di qualcosa che manca.
In Intimità e Alienazione, testo del 2005, Meares definisce l’intimità come il sentire che l’altro si sposta un po’ nel nostro terreno e che noi ci spostiamo un po’ nel terreno dell’altro. Si ha alienazione, invece, quando, per essere amati, si rinuncia a qualcosa di sé; è ciò che accade spesso, per esempio, nei borderline: per questi individui, la presenza eccessiva fa altrettanto male dell’assenza eccessiva, ma per garantirsi la presenza dell’altro arrivano a sacrificare il proprio vero Sé.
L’intimità porta con sé ancora un’altra ombra: l’intimità è condividere sfumature sotterranee, talvolta anche inconsce, ed è proprio lì, nella dimensione dell’inconscio, che può scatenarsi qualcosa di spaventoso: la vergogna. D’altronde, la confidenza è uno spogliarsi e non ci si spoglia di fronte a tutti.
Talvolta, è addirittura difficile spogliarsi ai propri stessi occhi. È quanto accade, per esempio, nei momenti di noia, che è una figlia della solitudine. Ovviamente, si parla della noia quale confronto con qualcosa di sconosciuto, che non si sa cos’è, non certo della noia quale rifiuto dell’arci-noto, quale spreco di tempo di fronte al ripetuto. La noia, infatti, cos’è? Insoddisfazione, mancanza, assenza, piattezza, grigiore. Sì, ma non solo. Bollas propone una definizione dal sapore romantico: “La noia è attesa senza speranza”. La noia è la sensazione di un grande vuoto che dobbiamo riempire. Cosa succede con la noia? Heidegger dice che nei momenti di noia il soggetto si apre all’intensità dell’essere, si spalanca una finestra, o meglio un baratro, su qualcosa di illimitato che paralizza. Perciò la noia è importante. Ma, ancora una volta, è anche angoscia, per quel piccolo contatto con l’infinito, per quell’apertura all’illimitato che toglie il fiato. In psicoanalisi, quando si mette il paziente sul lettino e lo si invita a dire quel che gli passa per la testa, lo si pone proprio di fronte a un vuoto. Lo psicoanalista seduto dietro è come un paracadute, la sua presenza è un sussurro rasserenante: “in fondo, non sei solo”.
Alla notte e all’analista si affidano ancora altre declinazioni della solitudine: i sogni. Quando si racconta un sogno, l’aggettivo che più di frequente lo accompagna è “strano”: il sogno è sempre strano. D’altronde, è l’incontro con la parte strana di noi, quella che parla una lingua sconosciuta e ci porta un messaggio sconosciuto. Il sogno appartiene al discorso della soggettivazione, poiché implica l’accettare tutto di sé, anche quella stranezza. Il sogno ci dice che lì dove indica c’è qualcosa, ma ce lo dice in un modo che dev’essere decifrato per diventare intelligibile.
Si può pensare al fenomeno del sogno come a un linguaggio per immagini; oppure come a un desiderio che affonda le radici nell’infanzia; o, ancora, come a un tentativo di leggere la realtà e di mettervi ordine.
Guardando al sogno come linguaggio per immagini, lo si scopre all’avanguardia, più contemporaneo oggi di un tempo: la società odierna funziona per immagini, tra social networks, pubblicità, video. Freud spiegava il sogno come una condizione in cui l’azione è bloccata, così che tutti i pensieri, anziché essere incanalati verso la motricità, devono tornare indietro ad alimentare la sensorialità. Nei sogni si parla attraverso le immagini, che prendono il posto del discorso, della sua sintassi, dell’analisi logica. Per dire “questa cosa mi piace”, l’inconscio deve trovare un’immagine che condensi la frase intera. Che discorso mi sta facendo questo sogno?, si chiedeva Freud. L’immagine ha una doppia anima: ha un che di catturante, ipnotizzante, bloccante, ma anche qualcosa di collegante, di associante. Oggigiorno l’immagine è usata soprattutto con funzione ipnotizzante, non apre a domande, non apre il pensiero. Ma per Freud l’immagine del sogno va interrogata, questo è il lavoro da fare quando si sogna. Non bisogna limitarsi all’elaborazione secondaria (cioè alla trasformazione del sogno in una storia), ma soffermarsi sui particolari onirici. L’immagine è stata scelta dall’inconscio, selezionata tra tutte le immagini possibili, perché solo quella comunica proprio ciò che si voleva comunicare. Un proverbio recita che “il diavolo sta nei dettagli”. O, preferendo al medioevo un rimando più rinascimentale, possiamo pensare che l’inconscio, quando sogna, fa lo stesso lavoro di un pittore del ‘400 incaricato di dipingere una Madonna con bambino: nulla di più semplice, nulla di più complicato. È una donna ed è un bambino, ma sono i dettagli a fare la differenza: lo sguardo, il colore del velo, il fiore stretto in una mano.
Ad aiutare a dipanare questi enigmi, vi sono dei codici, il sogno ha in sé delle chiavi che permettono di accedere al significato; la prima chiave è la condensazione: una certa immagine diventa la rappresentazione di altre tre o quattro immagini; un secondo codice è lo spostamento: un particolare viene vissuto come la totalità, il contesto viene modificato in un altro, le caratteristiche di una rappresentazione vengono traslate in altre rappresentazioni. Per orientarsi in mezzo a questo gioco di specchi onirico possono risultare utili le libere associazioni, quei pensieri che sembrano passare per la mente anche in modo slegato al sogno. Non sempre queste associazioni sono giuste, ma aiutano comunque, poiché smuovono le acque, aggiungono altri particolari. Ecco che può emergere una parola o un’immagine leggermente incongrua rispetto al resto: è questo particolare da interrogare, non la scena generale.
Quello del sogno, quindi, è un linguaggio figurativo, capace di condensare nelle immagini la negazione e la congiunzione, e magari farli pure coesistere. Per i surrealisti, affascinati dalla filosofia freudiana, il sogno è la grande liberazione dell’Inconscio, soprattutto della sua parte più preziosa; ma per Freud, il sogno è una grande deformazione, una pregiata opera di camuffamento e mistificazione, atta a proteggere il soggetto da ciò di cui non ha familiarità. Quindi, il sogno è, al tempo stesso, liberazione e mascheramento.
Più tardi, Bion, amplia le funzioni del sogno: esso è anche trasformazione continua dell’esperienza che facciamo di noi stessi e degli altri, del materiale sensoriale ed emotivo in forma grezza (elementi beta) per farlo diventare pensieri e immagini più raffinate (elementi alfa).
Un terzo codice interpretativo è la simbolizzazione. Già per Freud alcune immagini hanno un significato simbolico quasi universale, un parvo gruppo di oggetti sembra essere legato quasi naturalmente a certi significati (per esempio: torri, razzi, mezzi di trasporto, ecc., rimandano al fallo; grotte, tunnel, ecc., alla vagina). Inoltre, la mente tende a gravitare attorno a un piccolo nucleo di temi: la sessualità, la genitorialità, il corpo, la vita e la morte - temi che si ritrovano anche al fondo dei sogni.
Nei sogni v’è un elemento di costrizione, poiché li facciamo, ma in qualche modo anche li subiamo; la nostra mente produce sogni in una modalità che ci sfugge, coercitiva, e secondo una logica che ci è estranea, non abituale. Il processo che trasforma il costrittivo in libertà passa attraverso la solitudine, cioè attraverso l’interrogarsi “perché ho fatto questo sogno?”, “quale parte di me è questo sogno?”, insomma attraverso lo sforzo di comprendere e integrare la parte di noi sconosciuta e di guadagnare in soggettivazione.
Non sempre è così: vi sono i cosiddetti sogni allucinatori, che dicono sì qualcosa di profondo dell’inconscio, ma la loro elevata visionarietà blocca ogni collegamento (sono tipici degli individui psicotici: secondo De Masi queste persone hanno visioni, non pensieri o sogni). I sogni allucinatori sono immagini troppo potenti: usano tutto il loro potere sensoriale, tornando a essere catturanti, ipnotizzanti, bloccanti.
Un’altra conquista nella grande impresa di comprensione soggettiva è stata capire che il sogno rappresenta parti del sognatore. È il concetto di personificazione e i sogni sono apparati di personificazione: un personaggio rappresenta un’idea, una passione, un ricordo, un sentimento. Quell’idea assume la forma di una persona: ecco ancora il potere condensante del sogno.
Allora, quando approcciamo un sogno come linguaggio di immagini, queste vanno interrogate secondo tutti i codici proposti: come ricordo, come simbolo, come condensazione, come spostamento.
Poi c’è il sogno come rappresentazione di un desiderio, un venire a capo di un’emozione. Quando andiamo a dormire, il piano di realtà perde referenza e il sogno va a pescare in un deposito di desideri antichi: per questa ragione compaiono desideri e impulsi anche infantili, che normalmente sono sepolti nel fondo. Questi impulsi riportano alla sessualità infantile, al piacere dato dal corpo che partecipa alla vita psichica (dove ogni parte del corpo prova piacere a svolgere la propria funzione: la bocca a far la bocca, l’occhio a fare l’occhio, ecc...).
Perciò, di fronte a un sogno, è opportuno domandarsi quali piaceri, quali bisogni, quali desideri infantili esso fa emergere. Nel sogno si rinuncia al principio di realtà e ad altre regole della “veglia” e compare la solitudine come dimensione dell’irrisolto.
Infine, possiamo guardare al sogno come elaborazione dei resti diurni. Della vita reale, attraversata in stato di veglia, qualcosa tratteniamo, a qualcosa rinunciamo e qualcosa ancora rimuoviamo. La rimozione è come la scissione, è una “scelta”, e per operare tale selezione si possono usare principi diversi: il principio del piacere, o del sempre uguale, o quello dell’inerzia pacificante, o altri ancora. Gli aspetti rimossi non scompaiono del tutto, vengono solamente messi da parte e, di notte, qualcosa viene ripescato perché si riaggancia a qualcos’altro, a uno di quei desideri profondi che, grazie a una costruzione affabulatoria, può essere palesato e dissimulato insieme.
I sogni sono tutto questo, sono una condizione di solitudine e uno strumento prezioso nel processo analitico. Anche grazie a essi, la psicoanalisi deve introdurre un sospetto, quello che dentro di noi vi sia più di quanto pensiamo e diamo a vedere. Deve introdurre microfratture e microdomande un poco scomode: la psicoanalisi non dev’essere solamente empatia e supporto, ma deve fornire quote di angoscia tollerabile per espandere la capacità di stare soli e di incontrare l’Altro.