SPIRITO DEI TEMPI E FASCINO DELLA MENTALITÀ “FASCISTA”
di Giorgio Meneguz
L’attuale processo di ristrutturazione del sistema economico, in cui la democrazia dei paesi ad alto reddito e in transizione è chiamata a difendersi da tendenze antidemocratiche, è oggetto di numerosissimi studi mirati e ben approfonditi. Sotto accusa i tre fattori storici fondamentali della contemporaneità: globalizzazione, finanziarizzazione dell’economia e diffusione capillare del web[1].
Dalla loro sinergia derivano alcuni fenomeni degenerativi, tra cui: crisi di potere geopolitico degli stati; insicurezza economica e sociale del ceto medio occidentale; crescita dei processi di disintermediazione a diversi livelli, con la conseguente perdita di potere delle agenzie familiari, scolastiche, rappresentative (partiti, sindacati), ecc.; frammentazione, sgretolamento e svuotamento di senso delle identità dei singoli e dei legami sociali reali; sviluppo di pulsioni nazionaliste, exenofobe, populiste; tendenza a ricercare un legame di massa tramite l’ipnotica identificazione con la figura di un capo e la perdita di credibilità dei sistemi democratici, su cui si sintonizzano le forze reazionarie che cavalcano forme vincenti di democrazia illiberale e sovranismo politico[2]. Da più parti − dall’America (Donald Trump) all’Ungheria (Victor Orbán), dall’Olanda (Geert Wilders) all’Austria (Sebastian Kurz), dalla Germania (Alice Weidel) alla Slovenia (Janez Janza) – le (nuove) destre al governo si propongono come baluardo contro le regole politiche economiche concordate da istituzioni sovranazionali rivendicando il potere sovrano del proprio popolo (da qui il neologismo «sovranista») costruendo nuovi muri e «democrature» (i regimi di Erdogan e Putin).
Radici dell’attuale processo d’inasprimento delle disuguaglianze e di cancellazione dei diritti sociali sono rintracciate nelle politiche di Reagan e della Thatcher (la quale, già nel 1975 enfatizzò il principio secondo cui «dall’economia del libero mercato dipendono tutte le nostre libertà» [cfr il documentario di Adam Curtis per la BBC]), che garantirono alle élite economiche le basi affinché lo Stato si ponesse al servizio del sistema economico-finanziario e si conformasse alle sue regole. Non furono solo le destre liberiste ad aver favorito il progressivo peggioramento delle condizioni socioeconomiche della classe media, nella direzione del divario sempre più marcato fra ricchi e poveri, e di una deriva reazionaria dello Stato. Persino i democratici americani e le sinistre moderate occidentali, in particolare dagli anni 1990, hanno appoggiato e favorito i processi di ristrutturazione verso il neoliberismo e la finanziarizzazione dell’economia. Da sinistra le sinistre contemporanee di maggioranza sono accusate di essere affette da frammentazione d’identità e paralisi di fronte alla «scena primaria» del governare. Sembra abbiano difficoltà a cogliere la trama essenziale su cui si basa la filosofia delle destre moderne.
All’orizzonte delle democrazie occidentali non s’intravede uno sviluppo positivo della società in base alle regole e agli ideali su cui si fonda la prospettiva democratica, bensì una tendenza alla democrazia di massa, o meglio una specie di «democrazia fascistoide», sostanzialmente priva di richiami espliciti all’ideologia fascista o nazista. Il fatto che i populisti contemporanei esprimano la pretesa autoritaria di essere i portavoce di un intero popolo e non solo dei propri seguaci, di conseguenza chiunque si dissoci da tale auto-proclamazione è considerato nemico della nazione, non è, ancora, realizzazione di una forma di fascismo. La storia non si ripete e il richiamo di Foucault, che invitava a non usare il termine «fascismo» per ogni situazione di governo in cui lo «stato di eccezione» si fa normalità e degenerazione interna alle democrazie parlamentari, è saggio e metodologicamente corretto. Gli storici hanno messo in luce le differenze tra il fascismo «primogenito» e il nazionalsocialismo tedesco, «fra entrambi questi modelli maggiori e i cosiddetti fascismi minori, ricchi di varianti radicate nelle rispettive storie nazionali, quali i regimi danubiani e balcanici, il peronismo, il sala zarismo e, caso di tutti il più complesso, il franchismo». Si tratta di fenomeni nuovi, ancora oggetto di studio e definizione, tuttavia il fascino del mid-cult è forte. D’altronde, come definire i governi democraticamente eletti in conformità a propaganda e pratiche populiste, xenofobe (quando non esplicitamente razziste) e violente da parte di partiti e capipopolo che propongono discorsi (e talvolta metodi) tipici dei fascismi storici? Umberto Eco sosteneva che il fascismo fu un’ordinata sgangheratezza politica e ideologica, emotivamente fondata su basi archetipiche riassumibili in almeno 14 voci. Esiste dunque un «fascismo eterno» che può ritornare sotto le spoglie più innocenti? I caratteri della mentalità fascista sono, secondo il grande semiologo, i seguenti. 1) Culto della tradizione; 2) Rifiuto del modernismo; 3) Culto dell’azione per l’azione; 4) Non accettazione della critica e del disaccordo; 5) Paura della differenza; 6) Appello alle classi medie frustrate; 7) Ossessione del complotto; 8) Contemporanea esaltazione della forza e della debolezza dei nemici; 9) Guerra permanente come principio esistenziale; 10) Disprezzo per i deboli; 11) Culto dell’eroismo e della morte eroica; 12) Machismo; 13) Populismo qualitativo; 14) Neolingua.
Per descrivere la realtà attuale, da più parti si è parlato di lotta di classe dall’alto. Le nuove forme del sistema produttivo e le dislocazioni delle aziende in Paesi in cui i costi della produzione sono minimi, hanno creato disoccupazione, profonde disuguaglianze e nuovi soggetti sociali bloccati in un eterno presente. Neppure le sinistre moderate si sono salvate dalle accuse di fedeltà alla religione dei mercati e di tollerare la speculazione finanziaria, di non aver riunito le nuove tipologie di lavoratori precari, di work poorse di disoccupati, rinunciando alla lotta collettiva per la riconquista dei diritti sociali ed economici acquisiti con le lotte degli anni 1960 e azzerati dagli ultimi governi.
La realtà sociale contemporanea ha ricevuto le più disparate definizioni, tra cui quella di una «organizzazione algoritmica della società» in cui la silicon valley colonizza il mondo e le menti tramite ecosistemi digitali. Si tratterebbe di un processo di nuova civilizzazione, in cui diversi gruppi di egemonia economica, come le élite delle multinazionali, i grandi imprenditori e i colossi finanziari, travolgono ogni ostacolo alla loro espansione di potere, ricchezza e privilegi. La predominanza del fattore economico e finanziario sull’ambito politico ha di fatto creato una maggiore povertà di fronte cui la politica sembra impotente. Con la conseguenza forse apparente che il sistema politico della democrazia non riesca a fare altro che «promesse da marinaio» – questa è l’accusa scagliata dal giurista e filosofo del diritto Danilo Zolo−, in una società «modello Singapore» come la nostra, dove il mercato finanziario è in posizione dominante.
La paura è una risorsa
I nostri valori, le nostre convinzioni sul bene e sul male, sul buono e sul cattivo, su come le cose dovrebbero o non dovrebbero essere, non nascono essenzialmente da freddi calcoli e ponderati ragionamenti ma sono influenzati dall’emotività, da paure, desideri, e costituiscono terreno su cui lavorano strategie pubblicitarie, propaganda elettorale, strategie di persuasione governativa. Ogni propaganda efficace deve contemporaneamente spaventare e illudere (le «promesse da marinaio» di Danilo Zolo, il quale nel libro «Sulla paura, fragilità, aggressività, potere» ci rammenta che «nessun progresso storico riuscirà a liberare l’uomo dall’ostinata compagnia della paura nelle sue diverse forme: la paura istintiva, la paura riflessiva, la paura della fine, la paura della paura»). Le osservazioni di Zolosono in linea con gli studi di psicologia e psicoanalisi. La paura è certamente una risorsa in diversi ambiti: psicologica, antropologica, politica, massmediatica; persino l’industria dell’intrattenimento e della cultura si nutre dell’attitudine umana a cercare il brivido e ad affrontare la paura. Un governo può diventare esso stesso fonte della paura per i cittadini (com’è il caso dei regimi, delle dittature), ma per reggere nel tempo deve anche offrire promesse allettanti ma irrealizzabili e proporsi come protettore sicuro nei confronti di figure della malvagità e della violenza, che esso stesso evoca o amplifica. Tra le reazioni degli esseri umani alle esperienze d’insicurezza collettiva, osserva lo psicoanalista Ernst Kris «il bisogno crescente di protezione e una certa inclinazione all’aggressività come reazione alla paura sembrano essere predominanti». È la storia a insegnarci che quando repressione o violenza sembrano strumenti eccessivi per affermare o consolidare il dominio, il potere (politico economico e religioso) utilizza la retorica e ogni altra tecnica persuasiva di propaganda. Per raggiungere lo scopo, deve trasmettere significati immaginari sociali immortali facendo appello a problemi reali. Per conquistare e mantenere il potere, e dunque monopolizzare le funzioni normative, le istituzioni politiche e religiose, non diversamente dal sistema dell’economia, non possono prescindere dalla persuasione di quanto sia «buona» la loro dominante presenza. In un volume sull’affiliazione politica denso di evidenze ricavate dalle neuroscienze ed esempi di psicologia sociale, Drew Westenindica la debolezza della propaganda delle sinistre e delle democrazie nel loro far leva sulle idee e sulla scelta razionale. I tecnici di professione assoldati dalle destre e dai regimi hanno capito da tempo che per conquistare l’elettorato occorre sfruttare le emozioni, in particolare la paura e la rabbia, il terrore e l’odio. Anche nelle democrazie alcune forze politiche, affiancate da intellettuali, realizzano una vera e propria «fabbrica della paura», la cui merce produce a sua volta odio e obbedienza. Tant’è che il fiuto imprenditoriale di alcuni soggetti ne ha approfittato per costruire un’industria della sicurezza privata e pubblica, un mercato sempre più fiorente di sistemi di allarme e difesa per le abitazioni e le città. Nel corso della storia, ogni regime si è finto il più fidato avversario della paura mentre di quest’emozione ha fatto la fonte del proprio potere repressivo. In Italia, dove il divario fra elettori e politici si approfondisce sempre più, da protagonisti attivi della democrazia i cittadini privi di razionalità critica rischiano di diventare una massa irrazionale in cerca di un demagogo (perché così, dal ventennio berlusconiano, li ha allevati la politica). Per varie ragioni cresce in loro il bisogno di sicurezza. D’altronde, quando lo Stato non garantisce ai cittadini la sicurezza (quella protezione per cui ognuno ha concettualmente rinunciato a farsi giustizia da sé), il pericolo si trova al bivio di due strade: a) la rivendicazione del singolo di esercitare la violenza su chi delinque o è semplicemente «diverso»; b) una deriva reazionaria dello Stato. In seguito ai grandi attentati jihādisti degli anni scorsi, le destre hanno sfruttato senza pudore la paura diffusa nella popolazione incitandola alla violenza per spingere verso uno stato repressivo e autoritario (la propaganda di Matteo Salvini e Marine Le Pen recitava così: «Gli attentati sono legati all’immigrazione!»). D’altro canto, nonostante l’Italia registri una diminuzione dei reati in questi ultimi anni e dunque non soffra di alcuna emergenza sicurezza, il governo ha approvato una legge sulla legittima difesa. È un errore politico sottovalutare la naturale paura del diverso, dell’estraneo, dello straniero povero, perché è su questa fragilità psicologica, quando da individuale diventa collettiva, che le destre impostano una propaganda intrisa di appelli alla paura. Se da un lato bisogna riconoscere che la paura e la domanda di sicurezza sono legittime, d’altro canto i problemi legati all’immigrazione non si possono capire con l’emotività, né risolvere con facili slogan, ma solo con l’analisi, il ragionamento e il buon senso. S’intrecciano due realtà: la propaganda, che semina paura e odio, e una vita economico-sociale realmente precaria nello scenario in cui la forbice tra ricchi e poveri si amplia sempre di più. La propaganda delle destre focalizzata sulla paura e sulla necessità di una maggiore sicurezza per i cittadini, si attorciglia strettamente con la diffusa percezione del pericolo, con la conseguente richiesta di sicurezza e di libertà di difesa personale.
La situazione italiana
Passato ormai il tempo in cui la minaccia principale per il mondo occidentale era il «comunismo», la propaganda elettorale e di governo indica oggi una triade di agenti del Male: i migranti, i terroristi islamici (o più spesso «gli islamici»), le etnie «delinquenziali», i senzatetto (!). Uno sguardo disincantato vede però chiaramente che quello è un modo per distrarre dai pericoli reali: delinquenza organizzata nei rapporti mafia-politica, criminalità finanziaria e guerra commerciale, corruzione, imprenditoria rapace e problema del lavoro, debito pubblico, aumento delle tasse, demagogia al potere, trionfo del populismo e rigurgiti nazifascisti. Da un paio di decenni a questa parte, i «delinquenti» utili alla propaganda cinica di alcuni partiti o governi sono i poveri: gli immigrati, i disoccupati, gli emarginati. Essi diventano il capro espiatorio, responsabile di ogni male, il simbolo su cui sono fomentati paura, fanatismo, xenofobia, secessionismi e odio. Ciò che unisce le masse contemporanee è la rivendicazione dell’estraneità dall’Altro. Come ha scritto Primo Levi: «A molti individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che ogni straniero è nemico. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente, si manifesta solo in atti saltuari e in coordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager». Gli orditori di paure spingono all’isolamento, a una società rassicurante contro il terrore di perdere i privilegi da parte di chi ne gode, contro l’apertura al diverso, al dialogo e al ragionamento. All’epoca di Berlusconi è iniziato un drammatico precipitare sempre più in basso della qualità curriculare, culturale, dei profili umani, del gergo, delle forme di comunicazione e del lessico della classe dirigente sempre più vicino all’orwelliano «ocoparlare». Da quando attori, cabarettisti e frequentatori di salotti televisivi sono entrati in politica, si sono evidenziate sempre più le differenze tra i politici di ieri e quelli delle nuove generazioni (si pensi alla politica tribale della Lega e ai gaffeur del M5Stelle). Osservando le campagne elettorali e la propaganda politica e governativa è oggi evidente quanto il modello del marketing e della comunicazione pubblicitaria abbiano influenzato il «comportamento di politici, partiti e governi, non semplicemente sul modo di comunicare tale comportamento». Ne è una testimonianza culturale, inerente la situazione italiana non recentissima, il film di Massimo Coppola «Politica zero». Nel racconto di una campagna elettorale di tre giovani candidati alle elezioni politiche del 2006, è reso evidente il passaggio dalla passione per la politica di professione all’adeguamento a una politica recitata e messa in scena nelle piazze e nei talk show. Ma, come ha scritto Pier Francesco Galli: «al di là dello spettacolo grottesco dell’addestramento (…) dei politici a “bucare il video”, col corredo di cravatte inverosimili sotto volti che cercano la giusta espressione, procede l’educazione a diventare personalità “come se”». La nuova classe dirigente appare rozza, improvvisata, disinformata, arrogante, ottusa, disimpegnata culturalmente, superficiale nelle analisi. Personalità «come se» è un concetto noto agli psicoanalisti: lo riprende Paul Roazen da Helene Deutsch (che lo aveva introdotto in uno scritto sull’impostura) e lo adatta alla personalità dei moderni politici: «Il successo in politica richiede una esteriorizzazione della personalità, e l’accettazione della propria identità così come è definita dalla propria posizione politica. La capacità di condurre una vita interiore ricca e al tempo stesso funzionare bene in pubblico costituisce quel raro talento che rende possibile la vera grandezza». Fino agli anni ottanta i modelli del marketing e della politica non erano esplicitamente associabili, ma è noto che l’era della «nuova propaganda» ebbe inizio con Bernays (già spin doctornella campagna politica del presidente Calvin Coolidge), il quale nelle pagine del best seller «Propaganda» insiste sulla tesi che «la consapevole e intelligente manipolazione dei costumi e delle opinioni delle masse è un aspetto importante della società democratica». Sembra che persino Goebbels fosse un estimatore di Bernays, in particolare nell’idea di esportare oltre oceano il sistema americano, in cui i politici eletti amministrano il paese appoggiati da un «governo invisibile» formato da specialisti in tecniche di influenzamento su opinioni, abitudini, scelte politiche e consumistiche dei cittadini. Si erano dunque poste già allora le basi per il marketing della politica, in cui partiti e candidati sarebbero diventati prodotti e brande, grazie alla capillare diffusione della comunicazione televisiva e ai nuovi media, attori di un teatrino mediatico, dove si confondono messaggi politici e spot pubblicitari. Nell’Italia fascista il Ministero della propaganda (Ministero della Cultura Popolare) fu istituito nel 1937 − una trasformazione del vecchio ufficio stampa del 1925 − e aderiva al principio mussoliniano secondo cui «in politica bastano trecentesimi di merce e novantasette di tamburo». Mussolini si considerava un artista nella tecnica del governare. Nel discorso per il primo anniversario della marcia su Roma disse: «il fascismo è anzitutto bellezza!». Similmente alla propaganda nazista, in cui Goebbels sfruttò le caratteristiche personologiche di Hitler quale grande isterico avventuriero capace di confessione autobiografica e azione forte e determinata, il fattore vincente della réclame fascista fu il potentissimo talento del commediante, la presenza fisica di Mussolini, «maestro di posa davanti a uno, a mille, a un milione di spettatori». In grado di curare con attenzione le sue movenze, il piglio minaccioso, il Duce «tiene la testa molto indietro e spinge avanti la sua grossa mascella. Chiude il pugno sinistro, appoggiato al fianco e si ferma a gambe divaricate. Cammina lentamente facendo ondulare i fianchi». Ogni capo «fascista» ostenta il proprio corpo fallico, sulle orme dell’estetica fascista. Qualcuno ha messo in relazione il termine «fascismo» col latino «fascinus», «fallus». Durante l’impero romano, «il potere lega in un sol fascio (il termine «fascis» designa i bastoncini di betulla legati da una cinghia e tenuti dai littori [...] ed è lo stesso termine che designa il «fascinus», la fascinazione, il fascismo) potenza sessuale, oscenità verbale, dominazione fallica e trasgressione delle norme statutarie». La strategia propagandistica di Mussolini si ispirava alla teoria di Le Bon, intellettuale antidemocratico, antisocialista, che dichiarò di ammirare il fascismo italiano e anticipò motivi presenti nel pangermanesimo e nel razzismo nazista. I leader devono adottare metodi teatrali − suggeriva Le Bon− se vogliono che la loro comunicazione influenzi le masse. Intervistato da un giornalista de «La science et la vie», l’articolo uscì sulla rivista parigina nel giugno 1926, Mussolini dichiarò: «Ho letto tutta l’opera di Gustavo Le Bon; e non so quante volte abbia riletto la sua «Psicologia delle folle». È un’opera capitale alla quale ancora oggi spesso ritorno». Un buon comunicatore studia il linguaggio adatto al suo scopo e lo usa con consapevolezza. Il capo fascista deve somigliare al guitto e allo psicopatico sociale, scrive Adorno. Deve sembrare onnipotente e, assieme, uno del popolo. Deve promuovere l’illusione che sia possibile sradicare l’universo paterno e realizzare l’antico desiderio di unione dell’Io e dell’ideale. In un clima di paranoia e maniacalità un capopopolo deve apparire narcisista per consentire l’identificazione narcisistica delle masse; solo se egli non ama, se mostra di non dovere amore a nessuno, sarà amato. Nessun demagogo (non solo nazista o fascista) persegue obiettivi compatibili con gli interessi dei cittadini. Deve tuttavia riuscire a guadagnarsi il loro appoggio, e può farlo solo se riesce a costruire artificialmente un legame affettivo. Deve offrire un’immagine in grado di soddisfare l’ambivalenza nei gregari, compiacere il loro desiderio di obbedire all’autorità e di essere essi stessi l’autorità. E certo egli si basa, nella sua propaganda, sul carattere delle masse: influenzabile, impulsivo, mutevole, irritabile, acritico, subordinato al leader e suggestionabile alla potenza magica delle parole. Ma il capo di un regime deve rappresentare la proiezione del Sé narcisista con cui gli individui si identificano. Facendo del capo il proprio ideale, il soggetto ama se stesso e contemporaneamente si libera della frustrazione che affligge il suo Sé empirico. Non si possono negare, nella realtà contemporanea, alcune caratteristiche socioculturali che rimandano alla cultura dei regimi, tra cui: l’enfasi sull’estetica sul corpo, l’egocentrismo, la sostituzione del ragionamento e del sapere scientifico con l’irrazionalità lo slogan e l’esoterismo, il rimpiazzo del progetto con l’idealizzato qui-ed-ora, il pragmatismo meccanicistico al posto del pensiero che riconosce la complessità. Sul piano linguistico, da Berlusconi in poi, i demagoghi populisti formati da «coach marketing», sanno che parole, tono, comunicazione e scena, hanno più valore del contenuto di verità, e dunque possiedono straordinarie potenzialità propagandistiche. Ben istruiti sulle tecniche di propaganda, essi si mettono allo stesso livello della gente meno istruita, usano il gergo popolare, le parolacce, gli errori lessicali, la gestualità volgare, le parole simboliche, l’abuso dei social (selfie, twitter e facebook). Per evitare i proverbiali conflitti famigliari non si rappresentano come figure fraterne o paterne di autorità repressiva, sono «genitori amici» che si mettono per finta allo stesso livello della gente comune, che si sentirà autorizzata a comportarsi (con supponenza pseudo culturale, fuga dalle responsabilità, negazione della storicità degli eventi, rifiuto del sapere degli esperti e del sapere tout court) alla maniera dei politici, e intellettuali al loro servizio, per come appaiono sullo schermo televisivo. Tutto è stabilito ad arte: arroganza, aggressività, cattiveria e scorrettezza verbale sono efficaci in televisione. Tutto in uno stile isterico in cui si pretende di vivere in un mondo senza obblighi, senza responsabilità, senza regole, senza convenzioni, senza storia, dove la vita è oggi, ieri non esiste, dove la precedenza e l’evidenza è sempre «la mia»; dove si deve evitare di apparire deboli, sconfitti, ridicolizzati, per mostrarsi forti, sicuri di sé, di successo, ammirati.
Senza un movimento propositivo di contestazione, di «controcultura» e di opposizione, ecco dunque che la paura, l’egoismo e la chiusura familistica, diventano protagoniste nella propaganda delle destre, che riescono a conquistare la maggioranza dal pensiero invisibile perché esprimono i suoi contenuti inconsci. Serpeggiano così, anche su questo fronte, delusione e rabbia qualunquistica. E proprio come le quattro galline che Renzo porta in dono all’avvocato Azzeccagarbugli, molti lavoratori si accaniscono contro falsi nemici come i migranti. Abbracciando una visione più ampia, Barak Obama, nel suo celebre ultimo discorso tenuto a Chicago il 10 gennaio del 2017, disse: «Per troppi di noi è diventato più sicuro ritirarsi nelle proprie bolle, circondati da persone che ci assomigliano e che condividono la nostra medesima visione politica e non sfidano mai le nostre posizioni. E diventiamo progressivamente tanto sicuri nelle nostre bolle, che finiamo con l’accettare solo quelle informazioni, vere o false che siano, che si adattano alle nostre opinioni, invece di basare le nostre opinioni sulle prove che ci sono là fuori.» Una narrazione ben strutturata che teorizza il «ritiro nella propria bolla» è della Lega, che propone una società chiusa, una comunità tribale di autoctoni radicata in una tradizione storica artefatta con tanto di liturgie e simboli, una storia fantasticata da cui sorgono rivendicazioni nativiste, barbariche, che echeggiano movimenti come il Ku Klux Klan e ricordano i temi ideologici del nazismo. Una comunità asserragliata fra mura immaginarie, nell’illusione di soddisfare un bisogno di appartenenza, in cui ognuno ha il coltello fra i denti per difendere le proprie cose e la propria identità respingendo un nemico anch’esso inventato di sana pianta. La Lega propone un tipo di «familismo amorale» simile a quello descritto da Edward Banfield nel libro «Le basi morali di una società arretrata». Un familismo amorale, dicevo, per cui ognuno pensa alla propria famiglia nucleare e non alla cooperazione per la società più allargata di non consanguinei. La narrazione ricorda la mistica fondata sull’etnicismo della propaganda nazista (terra, sangue, razza superiore), solo che qui la promessa è la resurrezione di un popolo «oppresso» dagli «extra-comunitari». Esempio di proiezione dell’«oggetto cattivo» sull’altro, la propaganda della Lega sembra invochi la realizzazione fanatica della parabola hobbesiana su un piano pre-moderno, così come lo stesso modello di tutti-contro-tutti fu proposto dal berlusconismo (versione italiana, spettacolare, del neoliberismo).
Nessuno è esente dalla mentalità “fascista”
La propaganda berlusconiana utilizzava il punto di vista psicologico per rafforzare la propria ideologia, in ultima analisi fondata su tradizionali e riduttive idee psicoanalitiche, un po’ pregiudizi, un po’ moralismi pregni di ideologia qualunquistica, come la pseudo-spiegazione secondo la quale i conflitti di classe, sarebbero radicati nella pulsione orale (voracità) e nel sentimento dell’invidia, e mossi da meccanismi inconsci di colpa, diniego e proiezione. Money-Kyrle (1951), per esempio, aveva descritto le tensioni e i conflitti di classe alla luce dell’ingordigia di chi possiede e non concede, e di chi non ha e intende impossessarsi delle proprietà altrui. «Capitalisti» e «proletari» sarebbero motivati nella relazione reciproca dall’identica fantasia del nemico di classe, rappresentato come un genitore cattivo che non vuol dare all’altro ciò di cui ha bisogno e che rivendica il diritto sui beni che ha concesso. Li differenzierebbe il sentimento dell’invidia, dei secondi verso i primi e mai viceversa. Secondo Money-Kyrle tutte le ideologie politiche che tendono a rifiutare la realtà attuale e propongono di modificare il corso della storia verso un futuro migliore, sono derivazioni del mito dell’infanzia felice, che la psicoanalisi ha distrutto. Tali ideologie, come derivazioni del mito del ritorno «all’età dell’oro», al «paradiso perduto», sono antiscientifiche, credenze irrazionali. È nel mito biblico che si rende evidente un aspetto essenziale del problema: l’uomo è colpevole della perdita dell’età dell’oro e dunque drammaticamente responsabile della sua sorte; l’altro aspetto si ritrova, continua Money-Kyrle, nel «mito sociologico» (il riferimento a Rousseau è evidente) in cui l’uomo, nato innocente, incolpa la civiltà e le sue istituzioni del suo allontanamento dall’età dell’oro. Il marxismo e l’utopia della società di liberi ed eguali sarebbero illusioni poiché incapaci di fare i conti con la realtà dell’invidia umana, sentimento primario che nessun accorgimento, sia pur ingegnoso, potrebbe liquidare (l’enfasi su un concetto di invidia che trascende il contesto del suo significato psicologico segna un ulteriore cedimento dell’impianto teorico che Money-Kyrle vorrebbe presentare al lettore come scientificamente coerente e strutturalmente solido). «Bollando l’utopia come fantasia inconscia, come irrazionalità, il realismo che ne consegue» ha commentato Tito Perlini nell’introduzione al libro di Money-Kyrle «Psicoanalisi e politica», «si mostra, in definitiva, incapace di trascendere il quadro della realtà sociale e politica cui appartiene chi si induce, più o meno consapevolmente, a farne l’apologia». Si possono spiegare psicologicamente categorie quali il dogmatismo e il fanatismo (non già le utopie sociali), ricorrendo alle consuete dinamiche di introiezione e assoggettamento del singolo e delle masse all’ideale dell’Io (anzi, all’Ideale, alla Causa, poiché si tratta di un discorso in cui le mete ideali sono esternalizzate, indiscutibili e iniziano con la lettera maiuscola) in una ricerca malata dell’onnipotenza perduta. Ma, dopo i lavori «Materialismo dialettico e psicoanalisi» di Reich (1929), «Psicoanalisi e scienze sociali» diFenichel (1938) e «Fuga dalla libertà»Fromm (1941), sembra inevitabile chiedersi come possa il concetto di invidia spiegare fatti storici e fenomeni sociali e politici senza che un certo uso della sociologia, come se fosse una psicologia applicata, trasformi la psicologia in una sorta di metafisica naturalistica. Invidia, odio, risentimento, individualismo, «narcisismo delle piccole differenze» e diffidenza/paura verso il diverso e l’estraneo sono sentimenti e pulsioni che nessuna organizzazione sociale, nessun sistema politico, nessun governo, potrà mai cancellare. Gli attuali ritorni del rimosso nei governi d’ispirazione fascista e populista esprimono la confusione, a buon uso dei demagoghi, tra la democrazia e l’opinione della gente basata sul sentito dire, sui (falsi) luoghi comuni e sull’emotività. Una condizione dell’uomo monodimensionale già ampiamente denunciata da Marcuse quando indicava nell’ampliamento delle aree di libertà, nell’iperedonismo scatenato dalla «desublimazione repressiva», una semplice apparenza finalizzata a mistificare l’intensificarsi del dominio politico-economico neo-capitalistico. C’è evidentemente una relazione fra la struttura economica di una società e la struttura psicologica di massa dei suoi membri. Alla retorica di un declino della civiltà occidentale sembra contrapporsi una dissociazione interna alla stessa fra società civile e civiltà iper-tecnologica, in cui la logica neo-capitalistica e il suo discorso starebbero modellando un «uomo nuovo», liberato dall’universo paterno (dall’Edipo) e dagli obblighi delle regole, comprese quelle della convivenza e della legge. Massimo Recalcati l’ha definito paradossalmente l’Uomo Senza Inconscio. Ma un determinato sistema socioeconomico non potrebbe promuovere la specie di «mutazione antropologica» in atto − la costruzione di una sorta di «nuova struttura psicologica» favorita dalla tecnologia (a uso della nuova tecnologia) sempre più invasiva e pervasiva − senza la presenza di un’area inconscia di suggestionabilità e la disposizione degli esseri umani a credere alle mirabilie. Nel rimodellamento antropologico favorito dai supermercati della cultura dell’ignoranza, la cultura generale, la riflessione, la ponderazione, la posizione mentale di ascolto profondo, la storicità, l’accettazione della regola e l’autorità del reale, sono soppiantate dalle competenze tecniche pragmatiche, dalla manualistica, dalla velocità, dal multitasking, dalla perversione dei diritti, dall’onnipotenza sulla natura. L’impressionante esito di questo tipo di allevamento dei bambini e dei giovani è fin d’ora anticipato da preoccupanti cambiamenti nella mente e nei comportamenti delle nuove generazioni, compulsivamente «iperconnesse», religiosamente dipendenti dai vari strumenti di tecnologia digitale, da desktop e software. Unito alla potente operazione revisionista e di rieducazione sostenuta da insegnanti e giornalisti, l’impoverimento cognitivo, emotivo, sentimentale, relazionale, culturale (ben evidente a chiunque abbia a che fare con bambini, adolescenti e giovani adulti) costruirà probabilmente un bacino di voti per demagoghi eletti democraticamente, cui sarà concessa l’autorità di trasformare un governo in un regime dittatoriale o quantomeno repressivo.
Ogni tentativo di spiegazione unidimensionale, monocausale, delle ragioni di permanenza storica dei regimi autoritari o dittatoriali solleva problemi e critiche del tutto condivisibili. Meritano attenzione le analisi che non tralasciano di considerare il ruolo svolto da diversi fattori, tra cui il periodo storico, la tradizione culturale (con sistemi di credenze, norme e valori che penetrano nell’inconscio dei cittadini), l’organizzazione socioeconomica, il «carattere del popolo» (il nazismo è «la forma che il popolo tedesco ha voluto darsi», il fattore soggettivo esposto alla propaganda. Nell’indagine sulle dinamiche psicologiche che lavorano per produrre i sistemi totalitari e il consenso delle folle, alcuni orientamenti psicoanalitici hanno indicato l’azione delle difese primitive da angosce psicotiche di massa (scissione, proiezione, diniego e idealizzazione) scatenate da fattori socioeconomici, e sorrette da un’efficace propaganda. Scelte governative inique e propaganda costante non potrebbero alimentare il consenso senza il terreno di suggestione e religiosità nei soggetti sensibili. C’è una relazione molto stretta fra un certo tipo di psicologia della religiosità e adesione a un sistema dittatoriale. Lo scrisse Mussolini, «l’uomo della Provvidenza», in «La Dottrina del Fascismo»: «il Fascismo è una concezione religiosa», lo sostenne George Mosse parlando del nazismo come di una religiosità laica. Possono trarre in inganno le recite di leader leghisti, come Bossi, Borghezio, Calderoli e Salvini (giusto per fare qualche nome). Essi non appaiono uomini dal carattere in qualche modo riconducibile alla dimensione «mistica» o religiosa, poiché il ruolo a loro assegnato dalla propaganda è di apparire «maschere», figure spesso grezze, che recitano la «padanità» così come appare agli occhi dei militanti, e diventano simili al buffone di corte, che può dire tutto e il contrario di tutto poiché ritenuto non responsabile delle proprie affermazioni. Come l’ipnotizzatore, il demagogo di turno riesce a risvegliare nei singoli e nelle masse, governate quasi totalmente dall’inconscio, esaltate dalla potenza eversiva delle emozioni, le immagini della madre pre-edipica onnipotente e del padre primordiale minaccioso, cioè, nella sintesi, l’immagine di una personalità superiore e pericolosa cui sottomettersi in una posizione passiva. Il consenso fornito dalle collettività ai regimi e alle dittature costituisce un’enorme e non ancora risolto problema psicosociale. È intuitivo pensare che l’humus antropologico per ogni stato reazionario occidentale sia il soggetto cosiddetto qualunquista, dal carattere gregario/autoritario basato su meccanismi scissionali e proiettivi, incapace di empatia verso gli estranei, intollerante, dogmatico, assolutista. Caratteristiche personologiche che vanno al di là dell’ideologia professata. Nella prefazione alla terza edizione della «Psicologia di massa del fascismo» Wilhelm Reich indicò nel fascismo «l’espressione politicamente organizzata della struttura caratteriale umana media, di una struttura che non è vincolata né a determinate razze o nazioni, né a determinati partiti ma che è generale e internazionale. (…) Il carattere meccanicistico-mistico degli uomini del nostro tempo crea i partiti fascisti e non viceversa». Dagli anni 1990 iniziarono a fiorire studi sulla dominanza sociale metodologicamente strutturati. I più citati sono gli ormai classici studi sull’autoritarismo di destra e dei leader. Altemeyer indica che la personalità dei soggetti inclini alla visione antidemocratica della società esprime atteggiamenti orientati alla sottomissione autoritaria, all’aggressività autoritaria e al convenzionalismo, correlate con pregiudizio, condivisione della pena di morte, rigetto punitivo verso le persone «diverse», religiosità, simpatia verso le deviazioni dalla legge da parte dei «potenti», obbedienza «stile Milgram». Agli studi di Altemeyer seguirono ricerche sulla tendenza degli individui a promuovere relazioni basate sul modello dominanza/sottomissione legittimando e consolidando le disuguaglianze, l’oppressione e la de-umanizzazione, una delle quali è opera (com’è noto) di due ricercatori di Harvard: Jim Sidanius e Felicia Pratto. Sidanius e Pratto hanno concettualizzato la tendenza a diventare leader antidemocratico (Social dominance orientation) correlando atteggiamenti di pregiudizio, razzismo, sessismo e nazionalismo. Alla fase attuale dello sviluppo delle metodologie di ricerca sociale sul tipo di personalità «di destra», e fattori predittivi il suo sviluppo, molti riferimenti di studio si basano sulle teorie del Big Five e dell’attaccamento.
Si fatica a credere come fu possibile che il nazismo abbia ottenuto senza alcuna difficoltà l’adesione e la collaborazione dei cittadini comuni, anche quando mise in atto atrocità e genocidi. . Ci fu inequivocabilmente un solo nazismo, disse Eco, ma il fascismo è diverso: di fascismi ce ne possono essere molti. Con ogni evidenza: «non esiste assolutamente nessuno che non porti in sé gli elementi del modo di pensare e sentire fascista». Wilhelm Reich ha indicato nel comportamento sociale dell’uomo medio − cooperazione, moderazione, cortesia, coscienziosità − uno strato meramente superficiale del carattere, sotto il quale brulica l’aspetto antisociale dei derivati delle pulsioni parziali rimosse, come la crudeltà, l’invidia, la rapacità, la malignità violenta, le aree superegoiche di inconscia complicità con eventuali regimi persecutori. L’ipotesi di Reich merita di essere considerata, sia pur con cautela per via dell’implicito cedimento adialettico e idealistico. Al fine di predisporre i bambini al migliore adattamento possibile alle dinamiche e ai valori tipici dell’organizzazione economica e ideologica, i processi storici e sociali modellano il carattere in base ai primi due strati reprimendo in particolare il «nucleo biologico» dell’essere umano, cioè gli aspetti naturali e spontanei di cooperazione e altruismo, ben evidenziati in questi ultimi decenni dalle ricerche sui neonati e i bambini nella prima infanzia. Siamo capaci di rinunciare alla nostra umanità non per un’intrinseca malvagità. L’esistenza di organizzazioni e di meccanismi di distruzione e di sterminio è resa possibile da virtù come l’obbedienza, la lealtà, la disciplina e l’autosacrificio, quando sono messe al servizio della tirannia di qualsiasi autorità Ideale. Dall’analisi degli atti dei processi di Henry Wirz e di Eichmann e dai resoconti di alcuni massacri in Vietnam, emergono temi caratteristici. I soggetti non obbedivano a principi morali bensì a doveri amministrativi; si sentivano legittimati a compiere atrocità poiché obbedienti ad autorità superiori; giustificavano le loro azioni in base alla nobiltà degli scopi ideologici; nessuno di costoro aveva una personalità eroica o patologicamente aggressiva, ma tutti erano diligenti funzionari cui era stato assegnato un lavoro e che si sforzavano di apparire all’altezza del loro compito. Errori di prospettiva e ingenuità psicologiche hanno sostanziato la credenza secondo cui il compito di modellare individui democratici, cioè individualmente e collettivamente responsabili e autonomi nel senso kantiano, sarebbe paradossale e impossibile essendo gli esseri umani moralmente ciechi o ineluttabilmente irrazionali e antisociali. Diversamente, in conformità con numerose ricerche di psicologia dello sviluppo, confrontate con gli studi etologici, si ritiene oggi − in sintonia con la concezione del soggetto democratico pensata da padri della democrazia moderna come Locke, Montesquieu, Bentham e Stuart Mill− che la vita sociale sia basata su intricati rapporti dialettici fra i diversi sistemi interattivi: affermativo, esplorativo, competitivo, individualistico, cooperativo. Come male minore, la democrazia è l’organizzazione politica migliore che sia stata realizzata, e consolidata nel tempo. A un modello di democrazia che vada il più possibile verso l’ideale greco da cui è nato, ci si potrebbe avvicinare costruendo una struttura sociale ed economica in grado di andare incontro alla natura umana, essenzialmente gregaria e tendente alla gerarchia, verso una società in grado di gestire tale natura in base ai principi di giustizia, equità e libertà. Non è detto che si possa edificare una società egualitaria e libera sui richiami ad astrazioni e giudizi come l’amore reciproco, il bene, la bontà, la carità. Anzi, a me sembra un grosso errore proporlo. Andrebbe ripresa, invece, la critica all’assurdità del sistema capitalistico in tutti i suoi aspetti, tra cui il paradosso dell’impedimento intrinseco a smettere di crescere e svilupparsi in un ambiente limitato dove esso non può neppure permettersi di continuare a crescere. È indispensabile la lotta politica organizzata per la riconquista e difesa dei diritti sociali e democratici, ma sarebbe un errore scordare il fatto fondamentale che l’adesione a organizzazioni di distruzione e sterminio sottende una virtù. La prospettiva soggettiva che personalmente mi sembra più sensata parte dal pieno riconoscimento, critico e vigile, del bisogno e del piacere umano a dominare e a obbedire: agli ideali, al fascino dei simboli, degli assolutismi, alla fascinazione del regredire verso il delirio narcisistico e fascista in senso lato. Non già l’egoismo, l’avidità, l’invidia, la sete di potere, il risentimento, la codardia, o altri malvagi sentimenti umani, hanno provocato disastri umani e sociali, bensì l’obbedienza, l’adesione a un comportamento morale «nella forma». Osservava Béla Grunberger: «I nazisti erano assai meravigliati dal fatto che ci si fosse potuto irritare per la loro presenza a Parigi. Non si comportavano forse in modo impeccabile, non aiutavano i ciechi ad attraversare la strada? Nella metropolitana non si alzavano forse per lasciare il posto alle signore?». Il riferimento è a quella terribile funzione psichica moralmente primitiva, che può emergere quando è stimolata da circostanze socioeconomiche e condizioni umane, su cui un certo tipo di propaganda riesce a far leva. Con la potenza di rovesciare il senso di ogni valore, e nel nome della virtù, la propaganda può far leva sul potere delle credenze magiche operante nella mente umana e convincere i cittadini a offrire il consenso a dittature, sistemi totalitari o semplicemente antidemocratici, quando non riesce a spingerli a commettere attivamente vere e proprie barbarie.
Riassunto. All’orizzonte delle democrazie occidentali non s’intravede uno sviluppo positivo della società in base alle regole e agli ideali su cui si fonda la prospettiva democratica, bensì una tendenza a una specie di democrazia fascistoide, priva di richiami espliciti all’ideologia fascista o nazista.Si tratta di fenomeni nuovi, ancora oggetto di studio e definizione. Lontano da ogni tentativo di spiegazione unidimensionale delle ragioni di permanenza storica dei regimi autoritari o dittatoriali, l’articolo si focalizza sull’ipotesi che l’esistenza di organizzazioni e di meccanismi di distruzione e di sterminio sia resa possibile anche da virtù come l’obbedienza, la lealtà, la disciplina e l’autosacrificio, quando siano messe al servizio della tirannia di qualsiasi autorità Ideale. [Parole chiave: Psicoanalisi; Psicologia politica; Propaganda; Paura, Mentalità “fascista”; obbedienza; Ideale]
Abstract.Spirit of the times and fascination of the "fascist" mentality. On the horizon of Western democracies there is no glimpse of a positive development of society on the basis of the rules and ideals on which the democratic perspective is based, but rather a tendency towards a kind of fascist democracy, devoid of explicit references to fascist or Nazi ideology . These are new phenomena, still subject to study and definition. Far from any attempt at a one-dimensional explanation of the reasons for the historical permanence of authoritarian or dictatorial regimes, the article focuses on the hypothesis that the existence of organizations and mechanisms of destruction and extermination is also made possible by virtues such as obedience, loyalty, discipline and self-sacrifice, when they are put at the service of the tyranny of any Ideal authority.[Key words: Psychoanalysis; Political psychology; Propaganda; Fear; "Fascist" mentality; Obedience; Ideal].
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