Secondo Giacobbi
La lunga battaglia di Guido contro la malattia è finita. L'aveva condotta per anni con indomito spirito leonino. Non è retorica. Lui stesso parlava così della sua lotta con la malattia. Si è anche aggrappato al suo amato e appassionato lavoro clinico e di docente psicoanalitico per stare in piedi, nonostante la malattia, ma alla fine è crollato. Guido è stato un uomo coraggioso e virile, amante dello sport, forte della sua fisicità, spiccio e talora rude nei modi, in realtà delicato e sensibile. Se dovessi indicare una qualità che lo caratterizzava e lo rendeva speciale indicherei, con qualche esitazione, la sua autenticità. La mia esitazione è dovuta al cattivo uso che è invalso di questo termine, equivocato come un sinonimo di “spontaneità” in una cultura, come quella post-moderna, che ha mitizzato l’emozione superficiale e posto al centro della persona l'immagine di sé, spesso artificiosamente costruita e spesso sulla falsariga di una spontaneità a sua volta artificiosa e contrabbandata, appunto, come autenticità. Ma Guido era davvero autentico, cioè davvero in sintonia con se stesso, e se nascondeva se stesso non lo faceva simulando qualcosa che gli era estraneo. Credo fosse così anche nella sua pratica clinica, nella quale non era certo un analista paludato e sacrale, ma era altresì alieno da quelle forme di interazione, talora compiacente e persino collusiva, che oggi sono spesso di moda nel rapporto analista/paziente. Uomo e clinico profondamente relazionale, non idealizzava però la relazione come fosse un fattore terapeutico in sé, e salvaguardava sempre, credo, l’ineludibile asimmetria del rapporto analista/paziente, come garanzia di responsabilità clinica. E ciò nonostante, nei suoi scambi con i pazienti, per come talora ne riferiva, era, anche come docente, sempre umano e cordiale. Anche diretto, ma sempre rispettoso. Nei suoi interventi pubblici e istituzionali colpiva sempre il suo inimitabile modo di parlare, a braccio, chiaro e non convenzionale. Dire che ci mancherà non è un rituale tributo al caro collega e maestro.
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Roberto Carnevali
Prima di essere un amico e un compagno di lavoro, Guido Medri è stato il mio analista, anzi il mio ultimo analista, essendomi rivolto a lui in un momento critico della mia vita venuto dopo la conclusione di un’analisi precedente che mi aveva lasciato comunque qualche strascico di elementi conflittuali irrisolti. Non racconto ciò che è accaduto nel percorso analitico, durato otto anni a tre sedute settimanali sul lettino (erano gli anni ’90, e allora si usava così!), ma voglio invece proporre un unico episodio che ritengo particolarmente significativo, attraverso il quale è possibile cogliere, a mio avviso, l’essenza di quello che è stato lo sviluppo di un rapporto, inizialmente professionale e successivamente di amicizia, durato quasi trent’anni, dei quali gli ultimi dieci essendo lui e io affiancati e accomunati dall’aver creato e portato avanti questa rivista.
Nelle riunioni di redazione spesso è capitato di avere opinioni divergenti, ma questo non ha mai comportato veri scontri o incomprensioni. La stima e l’affetto reciproci hanno costantemente consentito di portare avanti idee e opinioni differenti senza che questo intaccasse il nostro rapporto e la voglia di continuare a lavorare insieme, ciascuno con le proprie caratteristiche personali, considerate recirocamente sempre degne del massimo rispetto. E qui viene l’episodio che voglio raccontare.
Parecchi anni dopo la conclusione dell’analisi, e dopo qualche anno di vita di Pratica Psicoterapeutica, dopo un’ennesima riunione di redazione in cui erano emersi sia i punti di vista diversi, sia la voglia di continuare a confrontarsi pur nelle divergenze, arrivando a un esito condiviso, faccio un sogno, che racconto poi alla riunione successiva.
Sono davanti all’ingresso dello stabile dove si trova l’appartamento in cui abito. Nella realtà c’è un cancello, una scala che conduce a una porta a vetri, dietro la quale c’è il custode, e un corridoio che va in due direzioni, conducendo a due ascensori che portano ai piani. Nel sogno ci sono solo lastre di vetro, o plexiglass (comunque materiale trasparente), disposti con vari orientamenti su più piani, e dentro si vedono rampe di scale, sempre di materiale trasparente, che si snodano anch’esse in varie direzioni, configurando nel complesso qualcosa di simile a un quadro di Escher, con prospettive irreali che assumono un significato diverso a seconda della prospettiva in cui si pone l’osservatore. Mentre sto per entrare, Guido passa per strada, e si ferma a salutarmi. Guarda la casa e mi dice: “Ma tu abiti qui?”, ed è chiaro il suo stupore nel vedere la complessità dei percorsi generata dalla trasparenza del materiale e dalle improbabili prospettive. Lo guardo e, sorridendo e vedendolo come colui che era stato il mio analista ed era poi diventato un amico gli rispondo: “Sì, ma guarda che mi va bene così!”, e capisco che lui capisce.
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Sara Maccario
Ciao Guido, ci vediamo alla prossima riunione.
Questo è stato l’ultimo saluto dato a Guido al termine di una riunione della Rivista PP.
Camicia azzurra, pantaloni blu, barba e capelli bianchi illuminati dal suo sguardo azzurro, uno sguardo che sapeva osservare, anche, senza guardare.
La sua innata e naturale eleganza gli avevano fatto guadagnare il “vezzeggiativo” di Pitti uomo, una simbolica immagine che, insieme ai colleghi di corso in SPP Adulti di Milano, gli avevamo cucito addosso. Ma Guido era lo psicoanalista-docente che, primariamente, amavamo. Un amore professionale nei confronti di un docente-analista-padre emotivamente interessato all’ascolto, un ascolto rispettoso che non veniva mai interrotto; Guido sapeva non sovrapporsi mai a coloro che presentavano casi o portavano proprie riflessioni. Le supervisioni con il dott. Medri sollecitavano spunti riflessivi, insight che spesso proseguivano nei corridoi durante le pause tra le lezioni, oppure avviavano infinite elucubrazioni condivise tra noi colleghi. Ancora oggi con alcuni colleghi del mio corso SPP ci ritroviamo a ricordare i “geniali” guizzi interpretativi che Guido sapeva veicolare durante le supervisioni.
Dopo anni ho ritrovato Guido non più come docente, ma come collega che mi ha accolto all’interno della Rivista PP. Un’esperienza che mi ha permesso di “conoscere” Guido come collega, ma soprattutto come uomo che amava nuotare, amava la sua professione, la famiglia, un uomo con un prezioso entusiasmo nei confronti dell’esistenza, ma soprattutto affettivamente “curioso” di osservare e sperimentare le infinite dinamiche tra gli esseri umani, mettendosi all’interno di esse.
Concludo queste brevi riflessioni con un ricordo che risale a qualche anno fa e che su tutti è pregnante per il clima affettivo che ha saputo trasmettermi e lasciarmi impresso. Guido, io e mio marito eravamo piacevolmente accomodati sulle sponde del lago di Iseo immersi, almeno io e Guido, all’interno di appassionate riflessioni-disquisizioni legate alle innumerevoli conflittualità caratterizzanti le dinamiche di coppia, conflittualità che, a parere di Guido, stavano moltiplicandosi. Avrebbe voluto scrivere un articolo o qualcosa di più rispetto a tale “spinosa” questione usando, sì, materiale clinico estrapolato dall’osservazione e dalle relazioni con i pazienti, ma soprattutto stava pensando a come allargare tale osservazione all’interno della vita quotidiana. Un’osservazione clinica, ma all’interno di un setting che potremmo definire a “cielo aperto”, riferita a dialoghi intercorsi con suoi amici, colleghi, vicini di casa e con incauti passanti che, di tanto in tanto, incrociava all’interno del suo vivere. Ricordo che mio marito sottolineò quanto la passione di Guido nel tracciare tali riflessioni avrebbe incuriosito anche gli ingegneri più “autisticamente ritirati”. Scoppiammo in una fragorosa risata e Guido, trovandomi concorde, aggiunse che a non essere sollecitati sarebbero stati altri professionisti…
Guido mi chiese cosa ne pensassi e se mi potesse interessare aiutarlo ad ampliare tali osservazioni. Accettai di buon grado sottolineando che i questionari erano sufficientemente distanti dal mio modo di sentire, e comunque ci avremmo pensato. Nel dare voce al mio “differente” punto di vista, improvvisamente avvertii un doloroso bruciore provenire dal dito della mano sinistra. Un’ape mi aveva punto, ma in quel momento distogliermi da quanto stavo condividendo con Guido mi appariva “faticoso”.
Sarebbe lunga la descrizione di cosa accadde in seguito e l’affettivo alleggerimento che ne conseguì per me quando, non riuscendo più a trattenere il dolore, confidai a Guido e a mio marito che minuti prima mi aveva punto un’ape. Cosa significa questo ricordo?
Quell’accaduto divenne spunto di inziali scambi osservativi rispetto ad un “qui e ora” legato a nostre dinamiche comportamentali, individuali e di coppia: quel mio maldestro tentativo di “celare” un dolore, in realtà naturalmente condivisibile, aveva rivolto le nostre riflessioni verso le infinite dinamiche che abitano l’intrapsichico e che, giocoforza, saranno riprodotte all’interno delle relazioni interpersonali attraverso infiniti intrecci relazionali.
Insomma, quella puntura di ape, il mio atteggiamento, il nostro metterci in gioco aprirono una serie di riflessioni che divennero in seguito un breve scritto che diedi a Guido… poi tutto si fermò.
Grazie Guido.
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Emanuele Visocchi
Ho un ricordo parziale e ridotto di Guido Medri, perché i nostri incontri sono stati piuttosto limitati nel numero, nel tempo, nei ruoli asimmetrici di docente e allievo. Ma questo ricordo, ancora oggi, mi fa nascere sorrisi. È un ricordo divertito. Negli ultimi quattro anni, spesso mi è tornato alla mente l'open dayche, per una sua buona parte, è stato condotto da Medri e da Giacobbi. Quel giorno ho assistito a uno spettacolo di intelligenza, dove questa è un mixdi sapere e ironia. I due sembravano inscenare una rivisitazione del clichésergente buono-sergente cattivo: improvvisavano, pescando tra memorie, esperienze e battute, e seduti accanto a me avevo due sergenti buoni e sarcastici.
Lo ricordo durante il colloquio di valutazione, quando parlai del mio primo analista: "Non lo rammento con piacere... scusi, eh, ma secondo me era un coglione". Gli descrissi che ero un ragazzino di sedici anni e che l'uomo, seduto sul suo scranno, col sole del primo meriggio fuori, teneva le tapparelle abbassate e la bocca serrata per cinquanta minuti. Medri tirò dalla sigaretta e commentò: "Ah! Un coglione!" Quanto avevo riso. E lì capii che si poteva parlare senza censure e che probabilmente parlavamo la stessa lingua.
Lo ricordo ai seminari, col corpo che sembrava dormire e la mente ben sveglia, e ogni volta non perdeva l'occasione di lamentarsi per la sua condizione di uomo solo in una famiglia di quattro donne; sempre con un tono salace ma, soprattutto, con un ultimo guizzo che rivoluzionava la lamentela, una parola affettuosa per quelle quattro donne importanti. Un giorno ho cominciato a guardarlo come l'ultimo dei maschilisti romantici.
Lo ricordo in supervisione, soprattutto ricordo una sua frase quando riportavo un tratto, una caratteristica, un movimento particolare del paziente. "Ma pensa te..." mormorava. All'inizio questa uscita mi sbalordiva, quasi mi infastidiva: ma come, dovrei essere io a esclamare "ma pensa te" per un'interpretazione, un suggerimento, un punto di vista inedito. Tempo dopo quella frase l'ho rivalutata, ho capito che in quelle tre parole c'era tutta la sua capacità di sorprendersi ancora, dopo decenni in cui deve averle viste tutte.
Lo ricordo quando raccontava dei suoi esordi, appena laureato e non sapeva neanche mettere dei punti su una ferita; lo diceva con umiltà e autoironia, soprattutto lo diceva pensando alla fatica che facciamo noi ora. E capivo che se un uomo con un titolo "forte" in tasca ha incontrato quelle difficoltà, noi con un titolo "debole" dobbiamo costruire la nostra solidità con lo studio e la passione.
E lo ricordo ancora per qualche episodio che mi porto dentro per l'effetto che ha avuto: di supporto, di incoraggiamento, di carica: quando si è complimentato per come avevo scritto una relazione e quando, insieme a Lei, dottor Maschietto, mi aveva chiesto di presentare un caso alla giornata delle scuole di specializzazione. Io, poi, ho cambiato supervisore per quel caso, all'epoca non avevo ancora capito il vero significato di quei "ma pensa te" e questo punto è l'unico neo, l'unica piccola amarezza che accompagna i miei ricordi divertiti di Guido Medri. Ma poi me lo immagino a scoprire il perché ho smesso le supervisioni con lui e a commentare, con un mezzo sorriso: "Ma pensa te..."