NOTE INTRODUTTIVE
Il nuovo, il veramente rivoluzionario cambiamento di paradigma che la Gestalt Therapy(GT) propone risiede nel concetto di Sé: il Sé non è più pensato come un'entità più o meno stabile, che possiede determinate proprietà fisse, bensì come un processola cui caratteristiche cambiano nel corso dell'interazione organismo-ambiente e vengono percepite come funzioni differenziate.
Nel contesto della teoria del contatto-ritiro dal contatto organismo-ambiente, il dispiegamento del Séin termini di confine di contatto in funzioneinizia nel pre-contatto, nella prima fase: percepiamo dei bisogni, cominciamo ad articolare dei desideri. Si continua poi con quello che Perls et al.(1951) hanno chiamato "orientamento" e "manipolazione" (o meglio, secondo gli A. "trasformazione"): sono le funzioni senso-motorie, anche le funzioni cognitive del pianificare, a valutare e ricordare l'esperienza precedente.
Ora l'individuo si volge verso l'esterno, nell'ambiente relativo, alla ricerca di possibilità – nel linguaggio di Freud: oggetti – per il soddisfacimento dei suoi bisogni, per l’appagamento dei suoi desideri e delle sue nostalgie, e di possibilità di trasformare conformemente l'ambiente, e avere conformemente un influsso su di esso. Con un certo grado di eccitamento energetico, noi siamo impegnati, coinvolti nel campo (A. Heller: «sentire significa essere coinvolti»). Un completo processo di contatto, che percorre le quattro fasi (pre-contatto, orientamento e trasformazione, contatto finale, post-contatto) è il presupposto perché l'organismo possa cogliere e assimilare qualcosa di nuovo dall'ambiente. Tale processo è dunque condizione per la compensazione delle carenze nell'organismo, che in quanto bisognoso mette in moto tutto il processo di contatto. Non solo. Quel nuovo acquisito di materia e di esperienza, di nuove possibilità di azione e di interpretazione, lo contrassegniamo come processo di crescita. Ciò che abbiamo acquisito e sperimentato nei processi di contatto, di volta in volta, sì deposita nell'unità mente-anima-corpo del nostro organismo viene da esso assimilato e ne diventa la seconda natura. Nel caso ad es. dell’ ingestione di cibo, non tutto viene eliminato, qualcosa ha contribuito alla sempre nuova crescita delle nostre cellule. Da altri processi di contatto, sempre sociali o estetici, siamo usciti arricchiti da nuove possibilità di identificazione e cresciuti, con nuove competenze. Tutto questo indica che le funzioni-Personalità sono competenze –per esempio la nostra capacità di parlare e di scrivere – e possibilità di identificazione, createsi da precedenti riusciti processi di contatto che affluiscono quali risorse individuali, nei successivi processi. Sia pure in termini un po' semplificati[1]questo è il modello di come si svolge un processo di contatto che abbia un esito in qualche misura o anche molto soddisfacente, saziante e arricchente. Naturalmente però tale processo può essere interrotto da impedimenti esterni o interni. Nella psicoterapia interessano i diversi modi in cui il paziente interrompe inconsapevolmente il contatto, gli impedimenti interni, immanenti all'organismo, le interruzioni o i danni del contatto che derivano dalle abitudini cristallizzate, per non aver ricevuto il supporto ed il sostegno necessario durante la sua crescita.
Se si prescinde per una volta dalle note e ripetutamente descritte interruzioni del contatto(rappresentate da confluenza, introiezione, proiezione e retroflessione) si possono allora osservare due angosceche tipicamente pregiudicano il processo di contatto: la prima fasedel ciclo (pre-contatto) relativamente all'angoscia dell'autonomia(confluenza nevrotica) e nella terza fase(contatto finale), l’angoscia dell’appartenenza.
Fondamentale e vera novitasdel paradigma della GT e il concetto di Sé come confine di contatto in funzione[2].Il confine di contattoè il luogo in cui l’Io e il Tu si incontrano il punto nel quale organismo e ambiente di volta in volta si toccano e nello stesso tempo si separano l'uno dall'altro, il luogo rispettivo del processo di scambio. Si potrebbe dunque parlare altrettanto bene di punto o aria di contatto, e tale punto di contatto è costantemente in movimento: quando avvertiamo un bisogno lo avvertiamo in primo luogo all'interno dell'organismo. Più tardi nel processo di contatto, quando ci volgiamo a oggetti che possono soddisfare i bisogni, il confine di contatto si sposta quasi verso fuori, verso gli oggetti e le persone di nostro interesse. Il confine di contatto ha ora due proprietàche lo caratterizzano: in primo luogo la sua relativa permeabilità o impermeabilità e il rispettivo stato energetico. All’inizio dell’esperienza di contatto il confine è ancora molto debole e permeabile, si esce appena gradualmente dallo stato di originaria confluenza con l'ambiente con la sensazione di una mancanza, percezione di un bisogno. Nel momento in cui si avverte un bisogno, sia esso di nutrimento fisico o intellettuale, sia emotivo o spirituale, si forma immediatamente un confine di contatto che, nell’ interagire con l'ambiente, alla ricerca di soddisfacimento del bisogno, diventa sempre più forte e più impermeabile, ma nel contempo anche più dinamico e ricco di energia, fino al punto del contatto finale.
SUL CONFINE DI CONTATTO[3]
«In altri termini, […] potremmo dire che il confine di contatto – per esempio la pelle sensibile – più che essere parte dell’‘organismo’, è invece, in sostanza, l’organo di un particolare rapporto tra l’organismo e l’ambiente. Come cercheremo in seguito di dimostrare, questo particolare tipo di rapporto è prima di tutto la crescita»[4].
Una dimensione da riprendere
Di certo, come nota Cavaleri (2003), possono essere rinvenuti nel ’900 altri importanti autori, nel campo della filosofia, delle scienze naturali, come in quello della antropologia e della psicologia, che hanno tematizzato su questa dimensione terza rappresentata dall’esperienza liminare. Si pensi ad Heidegger[5]ed al concetto di mit-sein[6]della sua analitica esistenziale; a Gadamer e alle sue riflessioni sul linguaggio, quel “qualcosa che sta in mezzo…da cui gli interlocutori partecipano e su cui vengono ad uno scambio”[7]. La particolare attenzione a ciò che sta tra sistemi diversi, e che riveste una delicata funzione di “traduzione”, è condivisa anche dall’antropologo Gregory Bateson[8], che ha influenzato tanto la psicologia contemporanea. Intense suggestioni relative alla dimensione dell’essere-in-mezzo, del “tra”, provengono anche dalla ricerca di Marin Buber[9].
La casa del confine
Dopo queste brevi riflessioni introduttive sul tema, torniamo ora – guidati anche da Cavaleri (2003) – al concetto di confine di contattonel modello Perls-Goodman. Utile può risultare partire da alcune domande riguardanti la “dimora” del confine. Dove si trova la linea di confine/contatto? Essa è qualcosa di concreto o astratto? Riguarda il corpo o anche la mente in termini di immaginazione? È rinvenibile solo nel qui-e-ora dell’esperienza concreta o si proietta anche nelle altre dimensioni temporali del passato e/o del futuro? Investe cioè essenzialmente la dimensione intrapsichica dell’introspezione o è estranea se non incompatibile con essa?
Questi interrogativi trovano una risposta chiara ed inequivocabile nel testo fondativo della psicoterapia della gestalt, ove il confine di contattoè definito per la prima volta nell’incipitdella parte teorica (primo capitolo “La struttura della crescita”, primo paragrafo “Il confine di contatto”): «L’esperienza si verifica ai confini tra l’organismo e il suo ambiente, fondamentalmente nell’epidermide e negli altri organi di risposta sensoriale e motoria. L’esperienza è la funzione di questo confine, e da un punto di vista psicologico ciò che è reale sono le configurazioni ‘globali’ di tale funzionamento, in quanto si è pervenuti a qualche significato o si è completata qualche azione»[10]. Gli A. precisano di seguito che in quanto confinein continua inter-azione con l’ambiente: «la sua sensibilità, la sua risposta motoria, e le sue sensazioni sono rivolti sia verso l’ambiente sia verso l’organismo […] esso contiene dei recettori e dei proprio-cettori», tuttavia, «nell’atto, nel contatto, vi è un insieme singolo di percezione e sensazione che contemporaneamente dà luogo al movimento […]. Quando diciamo ‘confine’ pensiamo a un ‘confine tra’; tuttavia il confine di contatto, il punto in cui si verifica l’esperienza, non separal’organismo dal suo ambiente; esso assolve piuttosto alla funzione di limitare l’organismo, di contenerlo e proteggerlo, e allo stesso temposi pone in contatto con l’ambiente»[11]. Ciò nondimeno è qualcosa di più di un semplice luogo con funzione osmotica, esso è «l’organo specifico della consapevolezza della situazione nuova nel campo, in contrasto, per esempio, con gli organi più interni ‘organici’ del metabolismo o della circolazione i quali funzionano in maniera conservativa senza bisogno di consapevolezza, intenzionalità, scelta o esclusione della novità»[12]. Invece, per quanto concerne la consapevolezza, essa «è il risultato di un ritardo dell’interazione che ha luogo nel punto di confine […] se l’interazione al confine di contatto è relativamente semplice, vi è poca consapevolezza, riflessione, adattamento motorio e ponderatezza; mentre nei casi in cui l’interazione è complicata, vi si verifica uno stato aumentato di coscienza»[13]. Da questo vertice, così come le scienze biologiche e sociali si occupano dell’interazione nel campo organismo/ambiente, la processualità ed il modo di operare del confinedi contatto di questo stesso campo risulterebbe l’oggetto precipuo di studio della psicologia, studio che deve riguardare essenzialmente la processualità e la dinamicità dell’esperienza propria del contatto organismo/ambiente: «In altri termini, per esprimere questo concetto in modo che può apparire strano, potremmo dire che il confine di contatto – per esempio la pelle sensibile – più che essere parte dell’’organismo’, è invece, in sostanza, l’organo di un particolare rapporto tra l’organismo e l’ambiente. Come cercheremo in seguito di dimostrare, questo particolare tipo di rapporto è prima di tutto la crescita»[14]. Tale complessa e continua processualità in termini di contatto organismo/ambiente si configura come la realtà più semplice ed immediata, laddove al contrario le nozioni di “organismo” ed “ambiente” risultano semplici astrazioni. Non solo. Il campo con il quale siamo costantemente in interazione e del quale facciamo parte è costituito da diversi fattori di ordine fisico, sociale, culturale ecc.; in questa elevata complessità è proprio la categoria di confinea permettere di cogliere l’unità interattiva del campo: non esiste difatti rapporto, interazione tra elementi del campo che non passi attraverso di esso. Così ogni esperienza umana può esser concepita come «funzionamento del confine tra organismo e ambiente»[15]. Il confine diviene così una dimensione-terza dove avviene l’esperienza della realtà, dove nasce la vita e si struttura la crescita. La vita in ogni sua forma e ciascun processo di crescita non possono quindi essere ridotti al singolo organismo a cui afferiscono, ma rimandano continuamente a questa dimensione liminare. È da questa particolare “dimensione” che dipendono l’adattamento, la creatività, l’evoluzione, la salute, l’equilibrio, l’armonia, la grazia e, insieme ad essi, anche le opposte polarità[16]. Tuttavia, nonostante la centralità di questo concetto nel modello Perls-Goodman – dove il Sé è definito, lo ripetiamo, come il confine di contatto in funzione – nei successivi sviluppi teorici della psicoterapia della Gestalt esso sembra essere stato trascurato (cfr. Simkin, 1978; Narajo, 1991; Wheeler, 1992). Il focusdegli autori più recenti viene posto sul versante del singolo individuo, dell’organismo animale-umano; del Sé come di “confine di contatto in funzione”, vera novitas di questo modello in termini di paradigma eminentemente relazionalee, allo stesso tempo, fenomenologico, se ne perdono le tracce. Sbilanciandosi verso la soggettività, verso le rappresentazioni mentali del paziente/soggetto, verso il suo mondo interno, si ritorna ad una concettualizzazione che i fondatori della psicoterapia della gestaltavrebbero, con il loro lavoro e con le loro riflessioni, voluto mettersi definitivamente alle spalle. Non solo. Tra i concetti cardine della teoria della psicoterapia della gestalttroviamo certamente la nozione di “contatto” tra l’organismo animale-umano e l’ambiente (inteso in senso lato), che naturalmente richiama quello di consapevolezza[17]. Tuttavia, come è stato affermato: «In termini filosofici potremmo dire che è dalla Zwischenheit, la ‘traità’ buberiana, che bisogna partire per incamminarsi verso una comprensione non banale del contatto»[18].
Come si declina questo paradigma in ambito clinico e psicopatologico? Innanzitutto occorre precisare che, nell’ermeneutica della GT, esiste una sorta di rifiuto/resistenza nel parlare di diagnosi. Questo rifiuto è legato al rischio di generalizzare i comportamenti e non vedere l’unicità di cui il paziente è portatore, di perdere anche la lettura relazionale del sintomo/comportamento. Vediamo adesso come queste riflessioni si declinano in termini di esperienza relazionale narcisistica.
GT E NARCISISMO
Fedele al contesto storico che l’ha vista nascere, nella Gestalt assumono particolare enfasi l’interesse clinico e la comprensione dei vissuti dal punto di vista fenomenologico e relazionale, quali testimoni di una specifica esperienza del Sé. Tale lettura fenomenologico-relazionale della psicopatologia comporta una nuova prospettiva anche nella diagnosi clinica. Ad esempio: un paziente non è aggressivo di per sé, ma lo è in una specifica circostanza, in una data relazione. Per questo in Gestalt Therapyè preferibile parlare più di disturbo della relazione(narcisistico, border-line, ecc.) che in termini di disturbo della personalità. Non solo. Sappiamo anche che la categorizzazione diagnostica in GT è un processo intrinseco alla cura, altrimenti rischia di diventare qualcosa di sterile ed inutile. In GT è più coerente parlare di ‘orientamento diagnostico’ e ci si limita all’uso di un linguaggio diagnostico comune (descrittivo) nel confronto e nel dialogo con i colleghi appartenenti ad altri orientamenti e modelli.
Nell'ermeneutica della (GT) non avrebbe molto senso parlare di narcisismo, in quanto definizione tipologica e non fenomenologica, intrapsichica e non relazionale. Pur mantenendo il termine mitologico “narcisismo” sarebbe più preciso parlare, secondo Goodman, di ‘orientamento’ narcisista. Non esiste infatti, gestalticamente parlando, il narcisista come tipo, si tratterebbe piuttosto di una modalità precisa di interruzione del ciclo di contatto tra l’Organismo e l’Ambiente che richiamerebbe la retroflessione. Secondo I. Fromm, il narcisismo è una categoria clinica: è il nome che diamo ad una esperienza del Sé. Un narcisista – così come viene descritto – è colui che non è capace di sostenere una relazione intima, che viene messo in ansia dalla confluenza sana. Una definizione questa che deriva dalla nostra ermeneutica di fondo e specifica del nostro approccio, ma anche non incompatibile o incomprensibile per professionisti di altri approcci. Quello che noi descriviamo come orientamento narcisista, per gli psicoanalisti è ansia della simbiosi. I narcisisti sono resi ansiosi da una confluenza sana: per loro è difficile sostenere una relazione sana. Questo è anche il motivo per cui i narcisisti difficilmente possono essere psicoanalizzati con successo, perché non possono tollerare l'introiezione/interpretazione sana che richiede – ancora una volta – una confluenza sana. In GT non chiediamo né vogliamo l’introiezione (se non operando dei “distinguo” e comunque non in termini di interpretazione, ma di suggerimenti ed indicazioni, nel contesto di una posizione del terapeuta, seppure temporanea, consapevolmente “supportiva”, nel trattamento del narcisista autistico e del narcisista confluente. Vedremo di seguito queste differenze legate alle trame relazionali e alle esperienze di vita).
Il narcisista può anche descrivere fantasticamente me terapeuta o sé, ma non riesce a dire “noi”. Così, dal punto di vista sessuale, i disturbi avvengono soprattutto nel contatto finale, quando la relazione Io-Tu si dissolve e diventa un “noi”[19]. Il contatto finale sessuale è l’orgasmo e lì – almeno per un po' – non c'è una relazione Io-Tu, c'è un'unica cosa ed è questo che loro non possono tollerare. Chiedono un aiuto terapeutico perché anch'essi soffro di solitudine, non si sentono soddisfatti dal punto di vista sessuale, perdono gli amici. Il problema nel lavorare con un narcisista e la loro difficoltà ad accettare dal terapeuta qualcosa che essi non sanno. Utile con loro dal punto di vista tecnico, usare spesso il “noi”. Hanno perso, come funzione-Io del Sé, the demand for confluence. Diventano ansiosi nel momento del contatto finale. Essere pienamente d'accordo crea loro ansia. Hanno paura di entrare in contatto pieno anche con chi si prende cura della loro fragilità. «A livello fenomenologico: usano la parola “io” e “tu” ma mai “noi”. Non posso prendere nulla dall'altro in accordo con il rischio della confluenza. A livello terapeutico: il terapista usa spesso la parola “noi” ai fini stimolare l'ansia. Secondo I. From il narcisismo in GT viene ricondotto ad una precisa interruzione di contatto che è la retroflessione. L’ Organismo spinto da una precisa intenzionalità e pienamente coinvolto in termini di orientamento e di manipolazione nell'interazione con l'ambiente, nei momenti in cui dovrebbe consegnarsi al contatto finale viene bloccato dell'angoscia: l’energia attivata, invece di essere investita sull'ambiente, viene rivolta verso sé stessi. L’interruzione provoca un senso di fallimento e di rabbia. Manca il gesto ultimo che avrebbe permesso la pienezza dell'esperienza. Dimostra questo tipo di sofferenza narcisista chi ha avuto una madre confluente, che lo ha abbandonato, che lo ha lasciato too early: è il “classico” narcisista retroflessivo. Esistono tuttavia secondo Fromm anche altri due tipi di narcisisti.
Con I. From[20]la GT descrive tre tipologie di narcisismo. Lungo un continuumtroviamo:
-il narcisista autistico, il più grave e difficile da trattare, il cui vissuto nasce da una mancata esperienza relazionale di confluenza primaria[21];
- il narcisista confluente (too late), che ha avuto un’ esperienza relazionale di confluenza con la madre da cui non è mai uscito o ne èuscito troppo tardi;
- il narcisista retroflessivo[22](too early[23], dall’altra parte del continuum) che ha invece sperimentato un’esperienza relazionale di confluenza interrottasi tuttavia troppo presto.
Tale collocazione del narcisismo all’interno dello sfondo e delle matrici/trame relazionali familiari così diverse e con differenti livelli di gravità, rende possibile un intervento clinico mirato e con sfumature qualitativamente diverse. In GT vuol dire lavorare, con tempi e modi diversi, sulle specifiche esperienze mancate. Vediamole nel dettaglio.
Con il narcisista autisticosi tratta di lavorare, come per i pazienti gravi, sull’introiezione sana[24]. «Significherà costruire una Presenza “altra” che sia confine/relazione perché egli possa ‘esistere’, dargli quindi la possibilità di nutrirsi della confluenza sana per andare verso la fase successiva, che è l’introiezione»[25].
Per il narcisista confluentesignificherà separarsi dalla confluenza, individuarsi, destrutturando gli introietti per mezzo della sana aggressività dentale, per potersi esprimere ed evolvere dal suo essere “piccolo”. La confluenza non sana con la madre gli ha impedito la capacità di acquisire autonomia e di differenziarsi. Questa mancanza di integrità necessita di una costante presenza dell’altro, di un bisogno patologico dell’altro. Egli necessita di ricevere costantemente conferme, rassicurazioni e di essere contenuto e placato.
Per il narcisista retroflessivosi tratta di far sperimentare una fiducia nuova verso l’ambiente – un ambiente che non lo invade e non lo soffoca – per imparare a stare nella relazione con pienezza, sperimentando nella relazione terapeutica la possibilità di recuperare parti di sé.
Fondamentale risulta quindi in GT identificare e distinguere le origini del vissuto di vulnerabilità e fragilità. In che senso? Nel senso che questi vissuti quando richiedono delle introiezioni, perché rimandano ad esperienze mancate, appartengono al vissuto del narcisista autistico o confluente. La situazione è invece ben diversa nel caso del narcisista retroflessivo, che teme l’introiezione come annullamento della sua personalità e non riesce a sostenere una relazione senza sentirsi soffocato o fagocitato. E questo perché nel narcisista retroflessivo l’ansia dell’introiezione/interpretazione deriva da una trama relazionale dove si è sacrificato, per cui nella paura del ripetersi di una storia già vissuta, nei rapporti significativi tende a fuggire.
Un rapporto terapeutico che non tenga conto di questo, evitando stili comunicativi introiettivi/interpretativi, che sottolineano ruoli e competenze, diventa per lui un settingdifficile da sostenere. Questo può rappresentare uno dei motivi per cui può, in maniera brusca ed improvvisa, interrompere la terapia, portando fuori dal settingla rabbia e la svalutazione del terapeuta. Forse risiede in questa sottolineatura di ruoli e competenze uno dei principali motivi per cui così spesso lo psicoanalista fallisce nella terapia del narcisista “inconsapevole”(il narcisista di Kernberg).
Commentiamo
Di seguito alcune sintetiche riflessioni sulla psicoterapia focalizzata sul transfert (F.T.P.) di Kernberg, Clarkin e Yeomans[26]per il disturbo narcisistico. Come è noto Kernberg e colleghi raggruppano nel concetto di organizzazione border-linediversi disturbi della personalità (al punto che ci chiediamo se sarebbe o no più opportuno ed appropriato semanticamente introdurre la categoria di “border-zone”al posto di quella “border-line”, ovvero sostituire il concetto di “linea di confine” con quello di “zona di confine”…). I criteri utilizzati per tale raggruppamento sono tre: la sindrome di diffusione dell’identità, l’uso massiccio di difese primitive quali la scissione, l’identificazione proiettiva, l’idealizzazione, la svalutazione, ecc., ed un esame di realtà generalmente conservato ma tendente alla regressione e a fluttuazioni in situazioni di forte stress. Il mondo oggettuale interno viene descritto come una realtà essenzialmente diadica, formata da diadi interne relazionali scisse in idealizzate e persecutorie, legate da un affetto. È facile individuare tratti narcisistici di grandiosità, di difficoltà ad affidarsi alla relazione e all’Altro nelle esperienze border-line; così come, viceversa, è innegabile vi siano nuclei di confusione, caoticità, sensibilità all’imbroglio ed instabilità emotiva tipo border-linenelle esperienze narcisistiche.
Per quanto concerne il versante della tecnica. Una prima riflessione riguarda l’uso della confrontazione e dell’interpretazione (tecniche chiave di questo approccio, insieme alla chiarificazione). A mio avviso, pensare di poter trattare nel contesto clinico il disturbo narcisistico (o peggio ancora l’esperienza border-line) “a suon di confrontazioni ed interpretazioni” è inopportuno quando non infruttuoso. Di certo il tema è complesso e necessiterebbe di maggiori approfondimenti. Tuttavia, per quanto riguarda la confrontazione, alla luce di quanto appena esposto: anche quando effettuata con tatto e garbo, può comunque rimandare ad una violenta rottura della sana confluenza relazionale di cui il narcisista avrebbe bisogno.
L’interpretazione poi per questi pazienti, seppure a livelli diversi, non è distinguibile dagli atti di “attribuzione negativa” operate dalle figure genitoriali – o chi per loro – durante la loro infanzia. Nel caso del paziente narcisista, l’atto dell’interpretare è indistinguibile dal tentativo da parte dei suoi genitori “so-tutto-io” di squalificare la sua realtà e la sua esperienza vissuta, e di lasciarlo con nient’altro che egoismo e un senso di fallimento attribuito al loro comportamento[27]. Nel caso del paziente border-linesi aggiunge un penoso e frustrante sentimento di essere stati imbrogliati. Aumenterebbe difatti la confusione e l’imbroglio vissuti a livello del linguaggio, che andrebbe, al contrario, sottoposto ad uno scrupoloso lavoro di “traduzione” e chiarificazione costante e preciso[28]. Anche nel narcisismo spesso si riscontrano, seppure in maniera molto attenuata, dei nuclei border-lineche riguardano la confusione rispetto al linguaggio. Ad esempio facilmente confonde l’affetto sincero con l’ammirazione, l’amore con l’adorazione.
Per il narcisista il contenuto di un’interpretazione diretto ad una resistenza sarà elaborato, anche a causa della sindrome di diffusione dell’identità, come un segno del narcisismo dell’analista; come esempio di non responsività empatica e un’incapacità nell’appezzarlo o valutarlo semplicemente per quello che è[29]. Nell’impostazione del processo terapeutico la precedenza non andrebbe data alla comprensione in profondità per mezzo dello strumento interpretativo, quanto piuttosto alla soddisfazione del bisogno di “esser conosciuti e riconosciuti”. In questo senso, il finein sé della terapia riguarda la conferma e la valorizzazione dell’esperienza vissuta del paziente, ad un livello prettamente fenomenologico e, quindi, non interpretativo, che utilizza tale esperienza come mezzoper venire a capo delle distorsioni della relazione tra terapeuta e paziente.
Per quanto poi riguarda l’interpretazione e l’esperienza di sana confluenza relazionale e di contatto autentico: come abbiamo avuto modo di vedere, nel contesto teorico della gestalt ciò di cui il narcisista ha maggiormente bisogno ai fini di una sua crescita ed evoluzione sono sane esperienze di autentica confluenza relazionale, in termini di vicinanza, di “noi”, di intimità. A me sembra che l’interpretazione non rappresenti un momento di confluenza sana a livello relazionale. Anzi, al contrario, in rapporto all’esperienza di contatto, l’interpretazione rappresenterebbe, almeno per il narcisista retroflessivo, una regressione al momento dell’introiezione e non già il successivo stepevolutivo. Stepche dalla retroflessione porterebbe verso l’esperienza del contatto e, quindi del post-contatto ai fini dell’assimilazione e della crescita[30].
La pratica psicoterapeutica della GT, in aperta opposizione al modello psicoanalitico, rifiuta apertamente l’interpretazione dei contenuti del paziente, guardando piuttosto all’analisi della «struttura interna dell’esperienza reale […] come viene ricordato ciò che ricordiamo […] come diciamo quel che diciamo»[31]. Nella prospettiva della GT il primario bisogno insoddisfatto nel narcisista riguarda il bisogno di riconoscimento (bisogno colto dallo stesso Kohut) – lo ripetiamo – che rimane insoddisfatto per due ordini di ragioni: «la drastica riduzione della capacità di ‘toccare’ l’Altro, di percepire la sua presenza con il tocco delle mani protese, ed il conseguente accrescimento ipertrofico del senso della vista, che porta alla necessità di ricevere ammirazione»[32]. Il non aver avuto la possibilità durante l’infanzia di un’esperienza di protezione ed affidamento spingono il narcisista a vergognarsi di tali desideri, fortemente ansiogeni. Quindi, al loro posto si instaura un sistema di (falso) compiacimento radicato nella sensorialità visiva, che abbassa i livelli di ansia e contemporaneamente, tuttavia, blocca il progredire della relazione interpersonale e la stessa crescita ed evoluzione dell’organismo. Il corpo è (si!) visto, ma non è abitato, non è vissuto. Non solo. Tutto ciò che rimanda alla fragilità (handicap, menomazione, malattia, vecchiaia) è sinonimo di vergogna ed umiliazione. La richiesta di aiuto rappresenta un atto colmo di rabbia e risentimento.
A detta di Silvestri –sulla scia della filosofa J. Hersch (allieva di Jaspers) –un importante elemento da introdurre nel campo relazionale nel contesto della cura, per aiutare l’intenzionalità relazionale bloccata a raggiungere il suo bersaglio, è rappresentato dalla polarità opposta all’aspetto creativo legato al mondo dell’arte: la polarità della fruizione in termini di ‘ricettività attiva’[33]. Narciso infatti non tocca e non viene toccato, guarda senza vedere! Ovvero, riprendendo il pensiero dell’artista visionario B. Viola, guarda il riflesso senza vedere l’acqua. Toccare Narciso significa innanzitutto lasciarsi toccare, farsi raggiungere dalle sue maldestre mani tese, maldestre al punto di mostrare aggressività e disprezzo, rimanendo in una Einstellungdi accoglienza senza accondiscendenza né compiacenza, nel rispetto privo di sottomissione: «Permettere (e permettersi) di toccare il limite, il dolore, l’estasi, fino a dissolversi e fondersi con l’Altro-riconosciuto, anche solo per un istante, per ritrovarsi arricchito, trasformato, intero, insomma per esperire – come direbbe Hersch – “una miniatura di eternità”»[34].
Fasi di un tipico processo terapeutico in GT con il narcisista[35]
Come abbiamo già detto, il termine “narcisismo”, non solo nel contesto della pratica professionale psicoterapeutica, è ormai divenuto uno slogan, rientrando nell’uso quotidiano del linguaggio, una sorta di “stufa a fuoco continuo”, così come notano Müller-Ebert e Josewski[36].
In Gestalt Therapyl’approccio per la comprensione dell’esperienza narcisistica riguarda fenomenologicamente l’analisi dei vissuti. Frequentemente si riscontrano vissuti di auto-disprezzo accompagnati da faticosi tentativi di compensazione che possono assumere le più disparate ed enfatiche coloriture (religiose, politiche, professionali ecc.), per ottenere temporaneamente la sensazione di essere migliori degli altri. Le relazioni vengono vissute con fortissime esigenze di prestazioni intellettuali, erotiche e sessuali, per cercare di legare a sé l’altro, nel cercare di contrastare un’angoscia di separazione sovente molto intensa. Müller-Ebert e Josewski individuano alcune fasi, sette, tipiche nella terapia del paziente narcisista. Ovvero:
1) il cliente che promette bene e il terapeuta competente.
2) Presto compare la frustrazione e aumenta.
3) Plus çachange, plus c’est la meme chose oppure la pena del terapeuta non paga.
4) L’importanza del normale o vignette del “Noi” frustrato.
5) L’io e il tu e le somiglianze – la crescente importanza del “Noi”.
6) Il bisogno del cliente e il bisogno del terapeuta o il “Noi” significativo.
7) Si può vivere anche come topo grigio.
Sul primo passo “il cliente che promette bene e il terapeuta competente”: ciò che avviene secondo gli A. riguarda il sentirsi, durante questa prima fase della terapia, particolarmente interessati e stimolati dal paziente. Il terapeuta cerca di impegnarsi particolarmente nel contatto con lui, l’ambizione terapeutica viene spronata molto. Tuttavia, presto compare la frustrazione. Difatti, questa prima fase dell’incontro, non rimane tale, l’atmosfera cambia molto rapidamente. Le svalutazioni, accennate nell’anamnesi, inflitte a sé ed anche al terapeuta, determinano e definiscono ampi intervalli in questa prima fase. Il compito principale del terapeuta risiede nella protezione, che permette di capire il disprezzo smisurato di sé, i dubbi smisurati e le mortificazioni che il paziente vive e patisce. Si tratta di mitigarli e di stabilire una sorta di “relazione da bozzolo”, come la chiama Winnicott, nella quale possa riprendersi e recuperare da tutte queste ferite. In ogni caso, idealizzazioni, proiezioni, svalutazioni e squalifiche producono molta frustrazione nel terapeuta, in quanto movimenti massicci e persistenti, nonostante il forte sostegno ricevuto dal professionista. Possono in parte smorzarsi e mitigarsi, tuttavia, il paziente continua a vedersi e a viversi oscillando continuamente tra i poli dell’esser “nessuno” o dell’esser “super”. Naturalmente si tratta di una situazione difficile da reggere anche perché comporta nella pratica «continuare a rimanere presenti quando qualcuno si sta demolendo, non intervenire e neanche infuriarsene, ma essere veramente vicini e comprenderlo, e capire come senta grande la sua miseria. Pure noi, come terapeuti, ci sentiamo talvolta abbastanza “miserabili”»[37].
La seconda fase riguarda l’aumento della frustrazione per il terapeuta e per il cliente. Tipiche di questa fase espressioni e commenti piuttosto negativi. Commenti che suonano: “qui è tutto così tenace”, “mi chiedo cosa stiamo a fare qui”, oppure “qui non succede niente”, o “oggi non so niente”; oppure ancora: “sto segnando il passo da anni”. Questo tipo di considerazioni possono sorgere dopo due o tre anni di terapia. Autocalunnie che scompariranno con molta lentezza. In questo contesto è importante riuscire a comunicare la sensazione che siamo in grado di reggere a tali crisi insieme e a lui. Può accadere allora, specialmente al terapeuta alle prime armi, di accusare il paziente di “tendere delle trappole” o di confrontarlo con le proprie “resistenze”, di rimproverarlo di non assumersi le sue responsabilità. Atteggiamenti che possono contribuire all’allontanamento del paziente dalla terapia.
Si entra quindi nella terza fase ovvero “più si cambia più è la stessa cosa”, oppure “la pena del terapeuta non cambia”. Si tratta di una crisi profonda, di una fase molto critica. Il cliente è ingrato, nulla cambia, e la fede del terapeuta nelle sue competenze e formazione si incrina. Tuttavia, se si riesce a reggere anche questo, allora il paziente ha qualche probabilità di continuare il percorso terapeutico. La frustrazione comunque rimane, e ciò nondimeno da questa fase di stallo cominciano ad accadere dei piccoli dettagli che possono dare qualche speranza. Speranza che una via che conduce dall’Io al Tu, ed infine ad un nuovo “Noi”, si sta aprendo.
Con essa si accede alla quarta fase: “il significato del normale o vignette di un Noi frustrato. Tale titolo può esser rappresentato dalla seduta successiva alla “seduta riuscita”. Ovvero, capita che all’incontro successivo di una seduta in cui il paziente ha avuto interessanti ed importanti insight, con una certa intensità emozionale, si stabilisca un evidente, spiazzante e disorientante senso di “estraneità” fra la coppia terapeutica, come se l’ultima seduta non avesse avuto luogo. Un altro piccolo avvenimento che può accadere riguarda la dimensione della temporalità. Si tratta dell’arrivo in ritardo da parte del cliente alla terapia. Spesso infatti il cliente è estremamente puntuale. Si intende cioè “al minuto”, né prima, né dopo. Tuttavia, nel corso della terapia viene posta, con un certo grado di vergogna, la domanda: “posso venire prima? Spesso sono qui in anticipo, e allora devo andare in giro”. Il terapeuta che si rallegra per tale richiesta del paziente, tuttavia, si inganna. Infatti, quasi incidentalmente giunge subito un’altra domanda dal cliente: “cosa succede se arrivo in ritardo?”. Il terapeuta sovente risponde che della sua ora di terapia ne può fare ciò che vuole. Tuttavia, alla seduta successiva il paziente non arriva in anticipo, come annunciato nella prima domanda, ma troppo tardi. Per la prima volta…e perché? Pare che il paziente non riesca a sopportare l’assenso benevolo dato al suo bisogno, alla sua richiesta. Un momento di confluenza sana, una concordanza, un “Noi” era nato con la sua domanda. Poi sceglie la sicurezza di “essere altro”. Un altro esempio portato dagli A. riguarda la decisione sulla pausa delle vacanze, a secondo se a decidere è il terapeuta o il paziente. Al rientro dalle sue ferie il terapeuta viene accolto con freddezza glaciale, come se non fosse mai accaduto nulla in terapia. La svalutazione arriva anche lasciando intendere in maniera più o meno esplicita che se il terapeuta fosse stato presente due settimane fa, il paziente avrebbe potuto lavorare con profitto in terapia, adesso non sa proprio cosa fare della sua presenza. Al contrario, quando è il paziente ad andare in vacanza, al rientro è loquace ed allegro, come se ci si fosse separati da un giorno. Nel caso in cui è il terapeuta ad interrompere la relazione il paziente al suo rientro fa vedere che ora può non aver bisogno di lui, che riesce in maniera autonoma a far fronte alla sua vita. Può sopportare solo di essere lui – il paziente – a determinare l’interruzione, la pausa.
Si transita quindi nella fase successiva: L’Io e il Tu e le somiglianze o l’aumento di importanza del “Noi”. Se il terapeuta fa presente eventuali somiglianza a livello biografico con gli eventi di vita della storia del paziente, subito egli sottolinea invece le differenze. Lo stesso accade nell’esperienza clinica degli A. quando il cliente parla di un film che gli è piaciuto. Ci si mostra d’accordo con lui e la conseguenza è che di nuovo egli cerca delle differenze, magari dicendo: “No, non è così che ho inteso il film”. Quando cioè, in questo periodo della terapia, il terapeuta richiama l’attenzione su determinate somiglianze, si può osservare, di regola, un aumento dell’ansia fino a sentimenti di angoscia o panico. Il paziente può persino reagire con argomenti ai limiti dell’assurdo, divenendo contraddittorio e inconcludente, nel tentativo di abbandonare l’esperienza delle “somiglianze” o del “Noi”. Tuttavia, lentamente, faticosamente, con sentimenti di profonda incertezza da parte di entrambi si continua a lavorare con le somiglianze tra il cliente ed il terapeuta. Se si riesce a mantenere la pazienza e l’interesse per il cliente, riuscendo a sopportare il senso di precarietà, mettendosi in chiaro, sempre e di nuovo nel contatto con lui, ci si avvicina al bisogno del cliente e il bisogno del terapeuta, ovvero il significativo “Noi”. Cioè si può offrire al cliente «anziché la confluenza da lui cronicamente richiesta, piccoli momenti di una vera e genuina confluenza, e nei quali dobbiamo anche personalmente reggere a questo “Noi”»[38]. Gli A. raccomandano di sottolineare le “uguaglianze”, e a insistere su di esse. “Qui mi vivo lo stesso come te”, “c’è qualcosa di uguale nella mia vita”, sembrano affermazioni che sottendono un atteggiamento più efficace, rispetto ad insistere con risposte che sottolineano la a-simmetria, la differenza tra terapeuta e paziente, quali “Si, lo capisco, è qualcosa che conosco”, “vedrai che questo si supera”. Nei momenti di sana confluenza piano piano si sperimenta insieme la scomparsa dell’angoscia: «reggere insieme a questa eccitazione, essere anche qui “sanamente” confluenti, significa una tappa importante nella terapia. Da quando come terapeuta scendo dal mio trono idealizzato, da quando il mio cliente vede che neanche esiste un trono sul quale salire, possiamo sperimentare insieme ciò che definiamo con il nostro ultimo motto…»[39]ovvero: Anche come topo grigio si può vivere”.
In un primo momento può sembrare che è giunto il momento di concludere la terapia. Sembra che sia sufficiente che simili “Noi” siano stati esperibili, tuttavia tale conclusione è errata. Sempre ritornano infatti momenti in cui si riproduce il senso di estraneità, in cui le differenze vengono nuovamente vissute ed espresse dal cliente in maniera analoga alle precedenti. Ciò nondimeno cambia qualcosa di essenziale. Da una parte le sequenze dei “vissuti di estraneità” si fanno più brevi nelle sedute e d’altra parte diventa minore l’intensità dell’angoscia e del panico che sorgono in sequenza di vicinanza e del “Noi”. Il “Noi” diventa vivibile più spesso, e di regola è sperimentato come meno ansiogeno. Questo non vuol certo dire che essenziale della terapia con i pazienti narcisisti sia definitivamente espletato. L’obiettivo molto più modesto, semplice e moderato degli A. riguarda il poter dire che le difficoltà attorno all’accadimento designato con il “Noi” riuscito, sono diventate minori, e che diviene più facile parlarne, che una tale temporanea vicinanza non porta più a profondi turbamenti, né di regole ad intense formazioni reattive come resistenza (come durante i primi anni del rapporto terapeutico). Tuttavia, resta di certo ancora molto da imparare e da sperimentare, gli uni con gli altri.
TERAPIA DEL NARCISISTA. RECENTI SVILUPPI IN GT
Perché il narcisista va in terapia? Le lacrime come Kairòs
Et lacrimis turbavit aquas […]
«Quod refugis?»[…] clamavit[40]
«Quell’uomo ha un terribile bisogno di aiuto» ribatté Breuer alzandosi. Dopo di che, mentre si avvicinava alla finestra, rifletté a bassa voce, quasi rivolto a se stesso: «Eppure è troppo orgoglioso per accettarlo. Ma questo suo orgoglio…fa parte del suo male, esattamente come se fosse un organo malato. Sono stato stupido ad alzare la voce con lui! Doveva esserci un modo per avvicinarlo, per impegnarlo in un programma di cura nonostante tutto il suo orgoglio»[41].
La richiesta di aiuto per il narcisista rappresenta già un cambiamento. Chiedere, affidarsi, esporsi nell’intimo, rappresenta l’inizio del cambiamento; un lungo viaggio che inizia ma non sempre si conclude e si completa.
«Nietzsche, il viso affondato nel fazzoletto, annuì. “Èstrano, ma nel momento stesso in cui, per la prima volta in vita mia, rivelo la mia solitudine in tutta la sua profondità, in tutta la sua disperazione, in quel preciso momento la solitudine si squaglia! L’istante in cui ti ho detto che nessuno mi ha mai toccato è stato esattamente quello in cui mi sono lasciato toccare. Un istante straordinario, come se una enorme crosta intima di ghiaccio si fosse improvvisamente riempita di crepe, andando in frantumi”»[42].
La prima domanda che emerge è proprio la più semplice: vista la sfiducia nei confronti dell'ambiente, come mai il narcisista va in terapia? Certamente non è per lui una decisione facile. È come se pensasse «soffro ma nessuno è in grado di prendersi cura di me»; pensiero che nasconde la disperata solitudine e il grande dolore del narcisista. In modo poetico Ovidio ci spiega perché il dolore è l'opportunità (spesso sprecata) di guarigione per Narciso: Et lacrimis turbavit aquas[...] Quod refugis?[...] clamavit.Quando piange, due lacrime increspano il velo dell'acqua e per un attimo scompare la sua immagine riflessa. È il Dio Kairòs che passa: Narciso potrebbe in quel momento comprendere che si tratta solo di un'immagine, potrebbe accorgersi dell'inganno, è un momento kairotico! Ed invece…non tulit ulterior. Invoca la sua immagine, poi aspetterà che le acque si ricompongano perché essa ri-appaia. E tale rimanga, finché non si ricongiungerà al suo corpo in un bacio mortale. Il dolore – frutto spesso della depressione dovuta all'insuccesso professionale o affettivo (nel maschio) o agli attacchi di panico (nella donna)– è la grande occasione perché il narcisista prenda in considerazione l'ipotesi di andare in terapia. Ma andare in terapia – lo vedremo – non significa diventare paziente.
Verso dove andare: quali obiettivi terapeutici
Come accennato, obiettivo del lavoro terapeutico con i pazienti narcisisti è ripristinare la capacità di entrare in una confluenza sana. L'obiettivo si declina in due step. Nel primo si tratta di apprendere a vedere l'altro e ad attraversare l'angoscia dell'appartenenza. Questo è possibile stando e attraversando il blocco retroflessivo per cui in ogni esperienza relazionale vede solo se stesso. Vedere il terapeuta come un "tu" a cui ci si può affidare è il primo punto di arrivo. Allora il paziente riuscirà a vivere e narrare la relazione terapeutica come un "noi". Se, lungo il percorso terapeutico, emerge il vissuto dell'innamoramento (del paziente) diventano figuratemi relazionali arcaici e decisivi, che paradossalmente richiedono il superamento dell'angoscia della differenziazione. Il narcisista innamorato chiede un rapporto paritario: il "no" del terapeuta alle sue richieste di coinvolgimento amoroso paritario verrà vissuto come umiliante. L'esser ricondotto alla propria posizione di paziente provocherà la rabbia per essersi sentito ingannato (disturbo della funzione-Personalità), con correlata angoscia di individuazione. Come ricordano i Polster, apprendere la sana confluenza in un rapporto asimmetrico senza sentirsi squalificato ma aiutato a ritrovare se stesso diventa il secondo obiettivo del lavoro clinico. Come raggiungere questi obiettivi?
Consapevoli dell’intrecciarsi e dell’intersecarsi dei vari livelli di lavoro si riporta sul piano didattico e processuale una scansione temporale che sul piano clinico risulta abitualmente coerente ed efficace.
Lavorare sulla funzione-Personalità: tra simmetria e asimmetria
Secondo una buona prassi clinica gestaltica, si inizia il lavoro terapeutico dal disturbo della funzione-Personalità. Il paziente narcisista inizia la terapia ma non si definisce “paziente”. È granitica la sua percezione dell'ambiente come “piccolo” e incapace di contenerlo. La prima fase della terapia cercherà quindi, in modi consapevoli e non, di rimanere in una posizione paritaria anche mettendo alla prova e sfidando il terapeuta. Dirà che viene in terapia perché è bello discutere, è interessante avere qualcuno con cui parlare di sé senza essere contraddetto, per sapere come funziona la psicoterapia o, persino, per dare al terapeuta nuovi interessanti elementi per un prossimo articolo. In realtà cerca di testare il terapeuta: se è diverso dalle figure che si prendevano cura di lui nelle sue relazioni primarie (saprà contenere tutte le mie parti, anche le più abrasive?). Per tali ragioni, esibirà il proprio potere (economico, culturale, e quant’altro), squalificherà e persino disprezzerà, velatamente o anche apertamente, il terapeuta. In effetti, per lui, l'accettare la posizione one-downsi rivela non solo carico di angoscia ma anche estremamente umiliante.
Ma c'è un momento con cui deve inesorabilmente confrontarsi: pagare la seduta. È l'attimo più imbarazzante per il paziente: cercherà di dimenticarlo (il terapeuta, se sedotto dal paziente rischierà di assecondarlo e perderà la parcella!). Magari dopo aver parlato nella seduta del suo ultimo favoloso acquisto, tenterà di pagare di più (perché non stima un professionista che si fa pagare così poco), commenterà il gesto con battute velenose («che senso ha voler aiutare e farsi pagare?»). Un rischio per il terapeuta e rappresentato a volte dal lasciarsi a sua volta sedurre dal paziente. Osserva Oscar Wilde[43]che la fonte non vede Narciso perché nei suoi occhi vede (a sua volta!) la propria bellezza (in the mirror of his eyes I saw ever my own beauty mirrored). È un sentirsi lusingati come terapeuti da un paziente particolarmente competente o speciale a livello sociale. Una collega chiede in supervisione se può accettare l'invito di un suo paziente – famoso attore di teatro – che di tanto in tanto solo per pochi intimi offre delle performance. Lei avrebbe voluto accettare per creare un buon feelingcon il paziente, ma parlandone prese consapevolezza del fatto che partecipando e applaudendo avrebbe creato una confusione nel suo prendersi cura di lui (livello di funzione-Personalità). Molte terapie con pazienti narcisisti si interrompono proprio per questa confusione di competenze. I confini tra terapia e vita (in particolare con i pazienti narcisisti) devono rimanere sempre chiari e intoccabili. In questo senso, un altro luogo che può diventare terreno di lotta sono le regole del settingterapeutico: «non è forse vero – sosterrà il paziente – che fuori dalla seduta si parla con maggiore spontaneità?»Questa lotta assumerà forme differenti: quanto più lo scontro sarà intenso (ad esempio: innamoramento non corrisposto del terapeuta o disprezzo indifferente nei confronti del terapeuta), tanto più il paziente potrà diventare consapevole delle arcaiche distorsioni della funzione-Personalità del suo Sé. Spesso i maschi – proprio perché non si saranno confrontati con la figura paterna - avranno la tendenza a trasgredire le regole (a cominciare dal non rispetto dell'orario di inizio e di fine) e la donna invece – devote alla figura paterna – le rispetteranno a tal punto da ignorare le loro spinte ad essere trasgressive. Come ovvio, il terapeuta deve rimanere seduto sulla propria poltrona terapeutica (funzione-Personalità) senza lasciarsi contagiare dal narcisismo (sono bravo perché scelto da un paziente speciale), sconvolgere dalla squalifica («forse veramente sono meno bravo di lui» o «ma come si permette?»), inquietare dalla seduzione («come fa a capirmi meglio del mio partner?») e quant'altro.
Se eviterà questi rischi, sarà capace di comprendere empaticamente la grande sofferenza del narcisista[44]e potrà segare con leggerezza, fermezza e rispetto i confini senza appellarsi a regole superegoiche (queste cose non sono permesse in terapia) e senza umiliare (trattando il paziente come un bambino capriccioso). Ogni prova che il terapeuta supererà (rimanendo nella posizione di chi si prende cura) servirà a far crescere implicitamente nel corpo del paziente la speranza di potersi finalmente fidare ed affidare. Nel cogliere ed eventualmente rimandare o elaborare i vissuti del paziente, si preferisce nel primo periodo quelli che rientrano nel campo fenomenologico del dolore, coraggio, fastidio, rimandando invece la messa a fuoco dei sentimenti di inadeguatezza (umiliazione, impotenza, competizioni e simili). Avviene così che il paziente, dopo aver espresso squalifica e persino odio, sente emergere dal proprio corpo una gratitudine commossa per il terapeuta che lo ha accolto, ed inizia a rischiare la condivisione dei vissuti umilianti. Per il paziente sentirsi rispettato e compreso, anche dopo un attacco violento, sentire la fermezza leggera e calda del terapeuta, rappresentano le premesse per prendere consapevolezza delle ferite profonde che gli permetteranno di cominciare a definirsi paziente, e cioè ad entrare in terapia.
La richiesta d’aiuto risulta per il narcisista una richiesta impossibile. Ma prima ancora è la percezione di sé in quanto bisognoso di aiuto che si inserisce in una dinamica personale che sollecita immediatamente chiusure ed attivazioni reattive che definiscono le caratteristiche della richiesta stessa, nel suo contenuto e nello “stile” con la quale viene presentata al terapeuta. Stile che ha come significato il tentativo di ripristino di una almeno sufficiente coerenza dell’immagine di sé. L’immagine di sé legata alla percezione della propria”fragilità” risulta non ammissibile se non evocando significati di “catastrofe” definitiva, di “crollo” di qualunque possibile senso di auto-riconoscimento e di autostima, proponendo livelli non tollerabili di auto-svalutazione e di minaccia al proprio senso di integrità. Nei casi in cui questo tipo di dinamica giunge all’osservazione clinica, su richiesta di altri, quali ad esempio i familiari del paziente, è possibile constatare come risulti intollerabile per il paziente la prospettiva di entrare all’interno di una dimensione relazionale caratterizzata dalla polarità richiesta/offerta d’aiuto e come sia invece per lui preferibile mantenersi all’interno di una cornice autoreferenziale. Il senso di autosvalutazione, nell’ambito del narcisismo, sembra meglio tollerabile se autoprodotto, anche tramite attacchi feroci contro la propria accettabilità, piuttosto che se riferito allo “sguardo” valutante e giudicante di un altro. Sia che il rifiuto nei confronti dell’altro come possibile fonte d’aiuto venga espresso con manifestazioni di ostilità e di aggressività, sia che assuma le forme del ritiro in una condizione depressiva non intaccabile, la situazione espressa dal paziente in questi casi è quella della “non negoziabilità” relativa alla dimensione dell’aiuto stesso, in quanto risonante con rappresentazioni del Sé al confine di contatto totalmente inaccettabili rispetto alla sopravvivenza di un minimo senso di equilibrio e stabilità. Il paziente sembra così trovare in una condizione di disperazione (e/o di rabbia) senza possibilità d’aiuto l’unico possibile ancoraggio nei confronti di un’incombente minaccia alla propria forza e solidità, anche se solo “apparenti”.
In altri casi invece, la richiesta d’aiuto viene formulata direttamente dal paziente, nel tentativo di ripristinare livelli accettabili di autostima minacciati dal crescente, poco contenibile affacciarsi di immagini di sé svalutate, legate ad eventi del ciclo di vita (in modo particolare a tutti quegli eventi connessi con l’esperienza in senso lato della perdita o anche della semplice disillusione, tipicamente avvertite come “ferite”, esasperate nel senso del vissuto di un’amputazione alla propria integrità) o a presunti “fallimenti” relativi alla caduta di aspettative personali sovradimensionate o ancora alla crescente e ormai disfunzionale necessità di ricorrere a “stimolazioni” sempre maggiori per ottenere gli stessi livelli di gratificazione. La richiesta può essere anche attivata da fattori scatenanti di natura “somatica”, quali l’improvviso verificarsi di crisi di panico o l’insorgere di preoccupazioni di qualità ipocondriaca. In questi casi il livello di consapevolezza rispetto alla percezione della minaccia nei confronti dell’autostima sarà ulteriormente offuscato dal prevalere di “spiegazioni” di carattere organico, più rassicuranti ma contemporaneamente, per altri versi, più inquietanti. In ogni caso, nel dover manifestare all'esterno delle proprie difficoltà, la problematica immagine di se stesso come bisognoso di aiuto e, al tempo stesso, nell’ ambito della stessa percezione mentale, la difficoltà di rappresentarsi un altro come possibile fonte di aiuto, costituiscono un passaggio obbligato che produce risonanze difficilmente integrabili all'interno della funzione-Personalità del narcisista. La percezione di sé come “mancante” di qualcosa, o “perdente” nei confronti di qualcuno, come “dipendente” rispetto ad “oggetti” esterni di qualsiasi natura che si ritenevano invece dominati, come oscuramente “limitato” da un corpo non più efficiente che emette segnali ambigui e fuori controllo, si saldano infatti con le percezioni dell' altro che, chiamato a prestare aiuto, tende ad invadere il proprio spazio, tende a sottomettere, ad assumere il controllo, “intossicare” e “inquinare” la propria integrità. Sulla spinta di questo genere di percezioni, la richiesta di aiuto tende quindi a proporre precise condizioni di percorribilità, che riguardano sia il contenuto («cosa mi aspetto che tu faccia per me») che lo stile auspicabile che deve assumere la relazione («come mi aspetto che tu ti comporti nei miei confronti»).
Il contenuto della richiesta tenderà quindi ad isolare il più possibile gli aspetti ritenuti problematici o comunque produttori della difficoltà contingente e tenerli separati dalla più complessiva funzione-Personalità. Gli eventi esterni avranno un ruolo centrale così come i comportamenti altrui. Eventuali riferimenti a proprie “colpe” tenderanno ad essere utilizzati preventivamente rispetto all'aspettativa di giudizi negativi sul proprio comportamento, rivelandosi così nel loro significato di “barriere” nei confronti dell'altro “invasore” più che come autentici spunti autocritici e autoriflessivi. In definitiva, la richiesta sarà orientata al ripristino dei precedenti livelli di funzionalità, con una scarsa disponibilità ad ogni allargamento dell'area problematica che coinvolga criticamente la posizione esistenziale del paziente nel suo complesso. Più articolato invece il profilo degli stili relazionali che veicolano una richiesta sostanzialmente rigida ed univoca sul piano del contenuto. Il contatto del paziente con i suoi aspetti deficitari e con la sua sofferenza, la consapevolezza del bisogno di aiuto e di senso di abbandono che lo opprime, possono esprimersi attraverso sentimenti di autosvalutazione ma anche di rabbia intensa, propongono l’aspettativa della critica e del giudizio altrui insieme alla vergogna per il fallimento e per la necessità di chiedere aiuto. Al bisogno di sentire l'altro solidale si contrappone la paura della dipendenza, all'esigenza di rassicurazione riguardo alla propria efficienza si oppone il timore di cogliere nello sguardo dell'altro una preoccupazione che segnala la “gravità” della propria condizione. La necessità di un altro che intervenga è contraddetta dalla rabbia per la rinuncia alla propria autosufficienza, dalla paura di una "tossicità" dell'aiuto, che corrompa per sempre il senso di integrità di sé. Il “cocktail” emotivo provocato dall'attivazione della richiesta di aiuto testimonia quindi della perdita di coerenza e coesione nella funzione-Personalità in direzione della comparsa di percezioni molteplici e contraddittorie del Sé al confine di contatto con l’Ambiente, sollecitate proprio dalla dimensione dell'aiuto e della cura. Da questo punto di vista, le modalità con cui la figura di aiuto si propone possono allora diventare, almeno in parte, motivo di rassicurazione, ma sono al tempo stesso, ed inevitabilmente, motivo di conferma dei timori e di amplificazione delle istanze di sottrarsi alla relazione con l'altro. Non è casuale, a questo proposito, sottolineare la comune osservazione di rapidi miglioramenti o di altrettanto rapidi peggioramenti delle condizioni dei pazienti proprio nelle primissime fasi di attivazione della relazione di aiuto. Il confronto con la molteplicità contraddittoria del proprio mondo, l’impatto con lo specifico stile relazionale proposto dal terapeuta e con le risonanze che a sua volta sollecita nel paziente, si traducono in un alternanza di vissuti, che sembra a volte proporre la dinamica della sfida, altre volte quella della delega, anche sempre guidata dal bisogno fondamentale per il paziente di mantenere un sufficiente livello di coerenza e una accettabile senso di coesione interno di sé. Sia la precoce svalutazione della figura d'aiuto, o la sua repentina idealizzazione, quindi, nel paziente con tratti narcisistici, esprimono non tanto il generico "meccanismo di difesa" opposto come aspecifica “barriera” all'invasione altrui, ma il più specifico segnale del tipo di impatto che quel particolare stile relazionale del terapeuta ha prodotto rispetto all'universo del paziente in termini di risonanze e, quindi, di praticabilità o impraticabilità della relazione d'aiuto.
Il paziente ha bisogno di testare molto precocemente l'effetto, sotto vari punti di vista, che ha su di lui l'apertura di credito ad un elemento esterno, estraneo, che persegue l'obiettivo di ripristinare le condizioni precedenti alla "crisi", e, proprio per questo, la sua sensibilità percettiva alle variazioni, anche minima, che l'incontro con l'altro gli procura è altissima ed è misurata mentalmente in base al grado di coesione interna che l'incontro stesso sembra rafforzare o indebolire.
Lavorare sulla funzione-Es: «Corpus putat esse quod Umbra Est».
Il cambiamento inizia nel momento in cui il lavoro con il narcisista approderà alla corporeità. Il corpo è desensibilizzato e teso. Per molto tempo ha trattenuto parti di sé perché non gradite all’altro. Questi vissuti vengono confinati fuori dalla consapevolezza attraverso il controllo su di sé. Sappiamo che per il narcisista l’apparire è più forte dell’essere; sottraendo a se stesso integrità e pienezza. Ha un profondo bisogno di essere confermato, un bisogno di vicinanza, che a volte confonde e che viene decodificato come desiderio sessuale. È importante riuscire a stargli vicino senza confondersi e confonderlo, garantendo una presenza confinata e calda, che gli permetta un’esperienza inedita: sperimentare una fiducia piena e il rischio sano di affidarsi all’altro.
Il lavoro terapeutico che riguarderà la funzione-Es del Sé permetterà al corpo di ripristinare il contatto con se stesso, un contatto che dapprima sarà un vissuto nuovo («Cosa dice? Cosa dovrei sentire?») e sofferto («Il mio corpo è per me uno sconosciuto, ho paura delle sensazioni che mi dà, non lo capisco, ho paura di ciò che posso sentire…». Importante in questa fase che «il terapeuta non agisca in maniera troppo protettiva (emergerebbe l’umiliazione di sentirsi piccoli), ma riesca a trasmettere forza e serenità di giudizio, con giusta vicinanza e sostegno: avermi detto questo come ti fa sentire?...vediamo cosa significa per te»[45].
Il disturbo della funzione-Es nel paziente narcisista si può presentare con diverse forme, tra cui la desensibilizzazione e la retroflessione, che conducono ad una cronica tensione corporea. Il sacrificio di se stesso (di parti di sé) avvenuto nella propria storia relazionale significa – come ci ricorda A. Lowen[46]– la perdita di contatto con il proprio corpo e con il proprio sé. A livello di intercorporeità[47], particolarmente significativa l'immagine di un paziente che rappresentò l'abbraccio della madre in modo scultoreo con le sue mani: una mano (lui) chiusa a pugno, mentre l'altra (la madre) lo avvolgeva e lo stringeva soffocandolo. È la sofferenza del figlio che non può abbracciare pienamente in quanto deve tenere chiuso il proprio corpo per evitare che emergano vissuti che la madre non gradisce. Desensibilizzarsi, ritirarsi ai confini diventa il modo migliore per evitare la depressione alla madre e l'umiliazione a se stesso.
Il Sè si ritira e si presenta al confine di contatto a macchia di leopardo: non sempre e non pienamente. L'esperienza del proprio corpo si sostituirà –come ancora una volta aveva intuito Ovidio – all’immagine, ossia all'ombra. E l'immagine di sé che ha visto negli occhi di sua madre senza rendersi conto che era solo un'immagine, una parte e non il proprio sé. In questa percezione disturbata di sé il suo dolore diventa disperato: cerca, infatti, se stesso fuori dal proprio corpo (nell’ammirazione e nell’ applauso: negli occhi dell'altro) invece di cercarsi dentro, nel proprio corpo. «Quod cupio mecum est» – dice il Narciso di Ovidio. Ma non l'immagine riflessa nello specchio: dentro il proprio corpo. Confonde le ombre con i corpi. Per ripristinare la funzione-Es può essere utile iniziare invitando il paziente a concentrarsi sul proprio corpo, a ripristinare il Sé che si concentra. Anche se egli percepirà questo invito come strada per il rilassamento, – come aveva intuito F. Perls – in questo modo imparerà così ad ascoltare il proprio corpo (se stesso) e diventerà protagonista attivo del processo terapeutico, (a fronte della passività della tecnica delle libere associazioni, che egli percepirebbe come umiliante). Non si tratta solamente di entrare in contatto con le emozioni, ma di entrare in contatto con se stesso (anche gli psicoanalisti oggi affermano che il corpo è l'inconscio!). In questo cammino di ascolto di sé (differente dallo stile relazionale a cui è stato abituato) a poco a poco entrerà in contatto con le parti di sé allora sgradite alla figura genitoriale e per questo ritenute sporche, cattive, brutte e umilianti. Sarà come una discesa agli inferi. Arriverà ad affermare «questo io sono!». Non più con la grandiosità di quando si vede allo specchio, ma con la tristezza di chi ha scoperto i propri limiti: quei limitiche –come la cacca –riconosciuti come propri, perderanno la loro sgradevolezza e daranno il senso di integrità. «Iste ego sum!», esclama Narciso: è quello che – in una paradossale metamorfosi di senso – può finalmente esclamare il paziente. Emblematica a tal proposito l’esclamazione di un paziente di Salonia[48], Carlo, il quale, entrando in contatto con il proprio vissuto per mezzo del respiro, ad un tratto urlò: «Bastarda! Mi hai fregato!». In un momento era crollata l’idealizzazione infantile della madre ed iniziava così per lui il cammino doloroso di scoprire di non essere stato amato in modo pieno e incondizionato – come soggetto – ma come un sogno. Quante volte in terapia ripeté: «non voglio più essere il sogno di mia madre!». In modo germinale Ovidio lo aveva intuito: Tiresia aveva detto alla madre di Narciso: «Morirà se si conoscerà». Infatti quando il narcisista si conosce, muore lui come sogno della madre e muore la sua immagine di madre. Il suo corpo tornerà ad essere abitato: dopo aver espresso tanta rabbia conoscerà la forza della debolezza, dei gesti pacati, sereni, teneri, scoprirà, forse timidamente, i bisogni ed espressività corporee che sperimenterà con la goffaggine propria di chi comincia a danzare. In altre parole, dalla morte del genitore idealizzato a cui era legato da una confluenza distorta, inizia il recupero del corpo dell'altro genitore: il corpo del padre o della madre prima disprezzati, non visti emergono con forza, diventano figurae aprono il corpo del narcisista. A questo punto il terapeuta e paziente sono pronti a lavorare in modo pieno sulla retroflessione.
Lavorare sulla retroflessione[49]: l'ambiente diventa “grande”
«Dal paese dei cannibali.
Nella solitudine, il solitario è divorato da se stesso, nella moltitudine lo divorano i molti. Ora scegli»[50].
Retroflettere invece che andare avanti ed esprimersi fino in fondo nel ciclo di contatto è diventata un'abitudine inconsapevole per proteggersi dall'angoscia del consegnarsi all'altro e di rischiare il rifiuto e la squalifica. Questo stile – ci ricorda Goodman – fa sentire “lasciati fuori”, esclusi dall' ambiente. Il senso di solitudine è grande, tuttavia, il paziente vive come più forte l'angoscia del consegnarsi. Lavorare sulla retroflessione non è semplice proprio perché questa avviene in modo inconsapevole e produce dei comportamenti altri (instead of) del gesto che invece esprimerebbe il consegnarsi. Per migliorare la consapevolezza del paziente, si può iniziare chiedendo alcuni minuti prima del termine della seduta quale parole non ha detto, quale gesto non ha compiuto, quale richiesta non ha presentato. Le risposte a queste domande danno delle informazioni preziose sui vissuti che il paziente vive con maggior disagio e ansia. Un'altra strada suggerita da From è chiedere al paziente di ricordare i sogni compiuti dopo la seduta: spesso sono elaborazioni dei vissuti retroflessi. Famoso il suo racconto di quel seminario in cui, al secondo giorno, un partecipante gli disse «ho fatto un piccolo sogno» e lui rispose: «volevi dirmi che io sono piccolo». Aldilà della narrazione, incompleta ed imprecisa, emerge come il terapeuta deve vedere i micro-movimenti sincopati: dagli occhi che sfuggono, alle mandibole serrate, alle labbra che si mordono o altro. Movimenti che esprimono il corto circuito della retroflessione tra bisogno e angoscia di esprimersi. Come ci ha ricordato Perls, la noia, la mancanza di argomenti spesso rivelano una difficoltà del paziente di portare al confine di contatto temi relazionali: l’aggressività nei confronti del terapeuta, le richieste percepite come umilianti, la paura di essere svalutato. Anche il fatto che a volte il paziente inizia a parlare di argomenti drammatici negli ultimi minuti vuol dire – è ovvio – non che il tempo sia stato poco per cui si deve allungare la durata della seduta, ma che è grande la fobia di fidarsi del terapeuta. A volte risulta propedeutico chiedere al paziente di diventare consapevole di ciò che avrebbe voluto dire o chiedere senza che questo implichi l'obbligo di condividere. È interessante notare come a volte, da questa rassicurazione, emergano alla consapevolezza del paziente – che sembrava spenta – vissuti interessanti. Anche rispettando il gioco di non dire i vissuti, potrà sempre lavorare sulle paure catastrofiche. Indubbiamente per sciogliere la retroflessione si rende necessario creare una relazione di fiducia nella quale il paziente si senta garantito dalla squalifica, dall'umiliazione, dalla delusione. Una relazione nella quale il paziente esperimenti il terapeuta come ambiente grande capace di dargli contenimento perché non bisognoso lui di contenimento. Un segno inequivocabile di un'esperienza di retroflessione che si è sciolta nel contatto pieno è lo sgorgare, negli occhi e nelle labbra del paziente, della gratitudine autentica. Come ricordava From, il narcisista non sa dire “grazie”. E già Ovidio aveva parlato di Narciso come superbo e ingrato: «Tam dura superbia». “Grazie” significherebbe riconoscere di ricevere o di aver ricevuto dall'altro, per cui o non lo dice o lo dice in modo esagerato[51]. Il “grazie” genuino, nel lavoro con un narcisista, rappresenta l’espressione e il segno che questi è riuscito a sperimentare il contatto.
Narciso chiude la terapia: più triste forse, ma “con” gli altri
Quando finisce la terapia con il narcisista? Proviamo a descrivere alcuni cambiamenti che sono segno di un avvenuto percorso terapeutico.
A livello di funzione-Personalità si registrerà:
– un cambiamento della percezione del genitore con cui aveva vissuto l'alleanza narcisistica: non più immagine idealizzata ma corpo vivente;
– il recupero del corpo del genitore disprezzato o ignorato: ossia delle parti del corpo proprio ad esso connessi;
– aggiornerà il suo sentire in relazione alle diverse stagioni della vita, con responsabilità nuova.
– il ritorno, infine, tra i corpi dei fratelli e delle sorelle dopo aver appreso il senso di pienezza che è dato dall'esperienza della co-centralità (io al centro, ma con gli altri). Potrà vibrare e tollerare la fragilità.
A livello di funzione-Es avverrà:
– una ripristinata capacità di sentire e abitare il proprio corpo nella sua interezza e nella sua relazionalità
– una accettazione dei limiti(dalla cacca alla fisicità, dalla stanchezza alla malattia);impererà ad accettare regole e limiti(dell’esistenza, dell’errore, dell’avere bisogno di chiedere del vivere con l’altro), rimanendo se stesso.
– il cambiamento della propria vista: vedrà oltre l'immagine i corpi viventi e scoprirà la bellezza di corpi deformati, forse, ma vibranti;
– la consapevolezza dei bisogni del corpo;
– la capacità di essere empatici con i corpi ed i bisogni degli altri corpi; che gli permetterà di riconoscere i bisogni dell’altro senza negare i propri, senza sacrificarsi e accettando anche le altrui contraddizioni.
A livello di ciclo di contatto sarà ripristinata:
– la capacità di consegnarsi al contatto;
– la percezione della diversità dell'alterità e della biografia non come ostacolo,riuscirà a vivere le differenze senza competizione e sfida;
A livello di post-contatto si sarà sviluppata la capacità di:
– assimilare l’esperienza;
– vivere il rifiuto dell'altro come rispetto dell'alterità che non nega vicinanza;
– sentire se stesso e le proprie esperienze come uniche ma non come “le” uniche;
– sperimentare la differenza tra la ricerca della grandiosità (fuori dal corpo) e la ricerca della pienezza (che segue quella sensazione di integrità nel proprio corpo);
– vivere la dipendenza, chiedere senza sentirsi umiliati;
– condividere obiezioni e non sottrarsi al confronto;
– sentire l'energia di esperienze che ha sempre cercato di evitare: la fragilità, la ferialità;
– stare con l'imbarazzo di entrare in contatto con parti infantili di sé;
L’ex-narcisista lascia lo studio del terapeuta con gratitudine. Ha abbandonato il sogno-a-due o “per pochi” del quale era prigioniero, è diventato disponibile a costruire assieme agli altri il sogno della compagnia degli uomini accogliendo e condividendo limiti e grandezza dell'esistenza nella gratitudine e nel confronto e nell’umiltà. Si sente più triste – la tristezza molto diversa da quella depressiva che sperimentava alla chiusura dei sipari e al termine degli applausi – ma più saggio[52], più solo ma anche più capace di sentire la vicinanza degli altri “soli” con cui condividere l'esperienza dell’incontrarsi come corpi e non più solo come ombre.
«Se ripensiamo al mito di Narciso come ci ricorda Bil Viola, il problema di Narciso non è l’essersi innamorato di se stesso ma il non aver visto l’acqua. Avere l’illusione di vedere se stessi e non vedere l’acqua ci dice molto sul suo dramma[53]. Il terapeuta gli chiederà di esserci pienamente e interamente, questo gli permetterà di vedere l’altro, non come specchio di sé, ma come altro da sé. Il successo terapeutico renderà possibile vedere l’acqua e oltre l’acqua, scoprire di sentirsi meno soli, forse più tristi ma sicuramente grati a chi ha condiviso con lui/lei un pezzo della propria strada riuscendo a ridargli/le il suo corpo e la sua anima»[54].
NOTE CONCLUSIVE[55]
La bellezza risuona in ogni cuore come slancio naturale, quasi un bisogno fisiologico. Essa rappresenta una categoria basilare ed elementare dell’umana esperienza. Difatti, innanzi alla scoperta di una verità, a un atto di amore, a qualsiasi cosa ci coinvolge, esclamiamo “bello!”. E ancora, la bellezza interrompe il nostro continuo correre ed affannarsi, commuove, ci tocca dentro, ci rende leggeri, illumina le tenebre. Inoltre rappresenta una vera rivoluzione estatica: ci porta fuori di noi senza privarci di noi stessi…»[56].
Facciamo un passo indietro. La Genesi recita che Dio dopo la creazione “vide che tutto era tov” (Gn 1,31). Tov viene tuttavia abitualmente tradotto con ‘buono’, quando in realtà ha un significato più ampio di ‘bello’ (kalòs), ‘buono’ (agathos) e ‘utile’ (krestos). Secondo alcuni interpreti dei testi sacri l’espressione della Genesi rappresenta una sorta di imperativo: fate tutto bello. Ovvero, l’uomo avrebbe ricevuto da Dio l’incarico di superarlo, con opere ancora più belle delle sue. È come se la bellezza racchiudesse l’essenza dell’uomo, il segreto del nostro essere. Siamo creati dalla bellezza in vista della bellezza, vibriamo per un’intima sintonia con ogni frammento di bellezza. Essa ci attrae, andiamo dove ci chiama. In essa l’esistenza si rivela, ci sveglia. Il dramma dell’uomo – e ancor di più per chi soffre di disagio psicologico – è il dormire, ovvero nel non essere in contatto con la propria anima, con la propria voglia di bellezza. La cultura orientale ci ricorda come la conversione sia nepsis, il “risveglio”: «Tra tutte le vanità della vita, c’è una sola cosa che lo spirito ama e desidera ardentemente. Una cosa abbagliante e unica. […] Il risveglio dello spirito, è un risveglio dei più intimi recessi del cuore; è una forza travolgente e magnifica che piomba all’improvviso sulla coscienza dell’uomo e gli apre gli occhi, permettendogli così di vedere la Vita nel mezzo di un inebriante scroscio di splendida musica, circondata da un’intensa luce, con l’uomo a fare da pilastro di bellezza tra la Terra e il firmamento». Come ci ricorda Salonia: «la bellezza ci è data per svegliarci, per renderci in pienezza uomini e donne. La bellezza della madre apre alla vita, la bellezza della donna fa diventare adulti»[57], nonostante, come ci ricorda il poeta romantico Baudelaire, abbia qualcosa di ambiguo e forse anche di diabolico, cionondimeno va carpita!
Essa può infatti rivelarsi antidoto alla disperazione o, al contrario, abisso più profondo di smarrimento. La bellezza è misteriosa, non è assoluta trasparenza, ma sempre confinee rimando; appropriarsene da padroni o soccombergli da servi significa smarrirsi nella follia. Un altro pesante sospetto grava sulla bellezza: quello di divenire rifugio dalle ingiustizie e dalle brutture del mondo, dai drammi della storia. Dove trovare il coraggio di parlare di bellezza dopo la miseria dell’Olocausto? Camus risponderà di voler rimanere fedele alla bellezza e agli oppressi e agli ultimi. Nella frammentazione del “bello”, del “buono” e dell’”utile” la bellezza diviene qualcosa di drammatico: spazio in cui l’uomo deve decidere per la vita o per la morte, per l’apparenza o per la realtà, per l’angelo o per satana (Lucifero, portatore di luce, il più bello fra gli angeli!).
La sua forza è data dalle attrattive che esercita: nelle infinte forme in cui si declina, richiama vibrazioni arcaiche mai sopite, che vengono da noi avvertite nel corpo e nell’anima in maniera immediata. Così come è stato evidenziato da Nietzsche, nell’uomo si trova una motivazione anche più forte dell’amore, dell’odio o della paura: l’interesse, cioè il sentirsi coinvolti dalla bellezza.
Molteplici sono le vie della bellezza che ci riportano all’origine del nostro essere uomini: la bellezza come estasi, come soglia, come dramma, come formazione alla corporeità e come tesoro nascosto. La bellezza come estasi comporta nel suo incontro un decentrarsi da se stessi, che ci apre alla contemplazione. Prendersi cura dell’innata sensibilità alla bellezza significa favorire l’apertura del cuore e della mente allo stupore del puerche c’è in ognuno di noi, come via della crescita e della conoscenza. La bellezza come soglia: ogni bellezza non esaurisce la totalità ma è epifania che indica e rimanda ad una bellezza più piena. Infatti è importante cogliere in ogni bellezza il fascino ed il limite, ovvero l’invito ad andare oltre…dalla bellezza visibile alla bellezza invisibile.
La bellezza è spazio e luogo in cui convergono gratuità, mistero e limite appunto: non si possono possedere tutte le bellezze. Ma la bellezza è arma a doppio taglio…ambigua nel suo essere anche dramma. Può difatti come ogni bene prezioso, divenire dannoso fino a portare alla morte. È questo un apprendimento necessario ai fini della maturazione della persona. L’eccezionale bellezza, sia in un uomo che in una donna, spesso si rivela più una sventura che non una fortuna…La consapevolezza di possederla può dare alla testa, rendendo egocentrici ed egoisti. Un’altra possibilità è che susciti violente passioni di desiderio e di invidia negli altri, passioni che portano a tragedie e drammi. La storia e la letteratura contengono molte vicende di persone belle finite tragicamente. Una delle più note è quella di Cleopatra. È necessario allora prendere coscienza che possiamo esser torturati dal desiderio della bellezza. La bellezza tuttavia è anche strada per la formazione alla corporeità e alla sessualità. Ogni incontro autentico è armonia e danza di corpi, nel rispetto e nella reciprocità, nel calore e nell’accoglienza, nell’inesauribile spinta della forza dell’amore. La bellezza, infine, è un vero tesoro nascosto. Eraclito da Efeso affermava che l’intima natura delle cose ama celarsi. Scoprire allora la bellezza delle piccole cose, spesso dimenticate o nascoste è sempre un’avventura interessante, che stimola la capacità di andare oltre le apparenze. Un ulteriore passo è scoprire – come afferma Kundera – che l’uomo senza saperlo, compone la propria vita secondo le leggi della bellezza, anche nei momenti di maggiore smarrimento. «Compito allora urgente e difficile è cercare di andare verso una nuova inedita bellezza: amare la bellezza in un volto sfigurato, negli umili e negli oppressi, nella consapevolezza che anche il dolore si addolcisce e si abbellisce quando accolto nell’amore […]. Forse, il gusto segreto della bellezza è riservato a coloro che rischiano di attraversare le apparenze, anche se brutte, alla ricerca della luce che brilla nello sguardo profondo di ogni vivente»[58].
[1]Sulla teoria del processo di contatto-ritiro dal contatto – qui per motivi di spazio ridotta praticamente ai minimi termini – si rimanda ai capitoli dal 13 al 15 del testo base F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman (1997) (ed. or. 1951),Teoria e pratica della psicoterapia della gestalt. Vitalità e accrescimento nella personalità umana, Astrolabio, Roma.
[2]Il Sé si articola anche in: funzione Esdel Sé (lo sfondo delle relazioni scontate con l’ambiente; il “dentro la pelle”, luogo da cui emergono i bisogni); funzione personalitàdel Sé (ciò che il Sé è diventato assimilando all’organismo i risultati dei precedenti contatti con l’ambiente), la funzione Iodel Sé (la funzione volitiva e intenzionale, che opera delle scelte identificandosi con alcune parti del campo e rifiutandone altre).
[3]Cfr. P.A. Cavaleri (2003), La profondità della superficie. Percorsi introduttivi alla psicoterapia della Gestalt, Franco Angeli, Milano, pp. 91-104.
[4]Ivi, p. 247.
[5]Cfr. M. Heidegger (1976) (ed. or. 1927), Essere e tempo, Longanesi, Milano.
[6]In questi ultimi decenni, la psicopatologia è stata limitata allo studio del “caso clinico” soltanto come paradigmatico di un quadro sintomatologico, operando un’incauta estrapolazione dallo sfondo/contesto psichico naturale originario di riferimento: la ricerca del senso e del significato del disagio psichico.Il termine “psicopatologia” affonda le sue radici nella “Psicopatologia generale” di Karl Jaspers (1913-1959), di ispirazione fenomenologica, e si sviluppa come metodo di conoscenza dell’accadere psichico, ovvero dei fenomeni interni all’uomo (Erleben). Con Jaspers la psicopatologia si esplicita, oltre allo spiegare causale (Erklaren), nella comprensione empatica (Verstehen), donandoci delle descrizioni del vissuto del soggetto precise e pertinenti, donde la denominazione di “fenomenologia comprensiva”. Binswanger, rifacendosi alle tesi ontologiche dell’analitica esistenziale di Heidegger, alla fenomenologia trascendentale di Husserl e sviluppando gli assunti di Brentano sulla coscienza intenzionale, riesce con la sua Daseinsanalysea superare i limiti della soggettività del comprendere di Jaspers. Indagando sulle strutture trascendentali che costituiscono l’essere-nel-mondo, con l’antropoanalisi (o analisi della presenza, o analisi dell’Esserci) egli rompe gli argini dell’intrapsichico versusl’incontro coesistentivo. Tuttavia, la GestaltTherapyprosegue su questo cammino epistemologico ponendo il Mit-Da-Seincome condizione originaria ed ermeneutica della condizione umana con un’analisi specifica, olistica dell’esperienza relazionale. Si focalizza quindi sulla descrizione fenomenologica non solo del vissuto soggettivo ma anche di quanto accade tral’organismo animale-umano e l’ambiente.
[7]H.G. Gadamer (1983) (ed.or. 1960), Verità e metodo, Bompiani, Milano, p. 437.
[8]Bateson G., M.C. Bateson (1993) (ed. or. 1987), Dove gli angeli esitano, Adelphi, Milano.
[9]M. Buber (1993) (ed. or. 1954-1956), Il principio dialogico, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo.
[10]F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman (1997) (ed. or. 1994), Teoria e pratica della terapia della Gestalt. Vitalità e accrescimento nella personalità umana, op. cit., p. 245.
[11]Ivi, p. 277.
[12]Ivi, p. 276.
[13]Ivi, p. 277.
[14]Ivi, p. 247.
[15]Ibidem.
[16]In ambito psicoanalitico, dopo i lavori citati di Federn, Bick, Anzieu, si è registrato un rinnovato interesse verso il concetto di campo come paradigma teorico e clinico pregnante grazie alle riflessioni dei coniugi Baranger sul campo bi-personale (cfr. Baranger et al., (1990) (ed. or. 1969), La situazione analitica come campo bipersonale, Cortina, Milano).
[17]Cfr. E. Polster, M. Polster, M. Spagnuolo Lobb (1989), Continuum di consapevolezza o continuum di contatto? Temi e processi in terapia della Gestalt, in «Quaderni di Gestalt»,V, 8-9, pp. 91-98; G. Salonia (1989), Tempi e modi di contatto, in «Quaderni di Gestalt»,V, 8-9, pp. 55-64.
[18]F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman (1997) (ed. or. 1994), Teoria e pratica della terapia della Gestalt. Vitalità e accrescimento nella personalità umana, op. cit., p. 498.
[19]Cfr. G. Salonia (1989), Dal Noi all’Io-Tu: contributo per una teoria evolutiva del contatto, in «Quaderni di Gestalt» V, 8/9, pp. 45-53.
[20]Sue lezioni orali (1985).
[21]«Nella confluenza il ‘Sé che si concentra’ si sente circondato da un’oscurità oppressiva, […] non è consapevole di nulla e non ha nulla da dire». (F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman (1997) (ed. or. 1951), Teoria e pratica della terapia della Gestalt. Vitalità e accrescimento nella personalità umana, op. cit., p. 267.
[22]«La retroflessione nell’interruzione di contatto è caratterizzata dall’incapacità di lasciarsi andare all’ambiente, dopo che il bisogno organismico è stato individuato l’energia è cresciuta e si è pronti al contatto con l’ambiente, che tuttavia non avviene perché lo si percepisce piccolo (nelle diverse sfumature; non capace di prendersi cura, di sostenere, ecc.». (V. Conte (2014), La modalità relazionale narcisistica nella post-modernità e il lavoro terapeutico in Gestalt Therapy, in «GTK rivista di psicoterapia», IV, 4, pp. 17-37).
[23]Riprendendo la teoria evolutiva di M. Mahler (1972, 1978) con “too early” e “too late” Salonia intende (orientativamente) prima dei tre anni e dopo i quattro anni di età (comunicazione personale).
[24]«L’interruzione può verificarsi durante l’eccitazione, e il sé compie allora un’introiezione, cioè, opera uno spostamento dalla propria pulsione potenziale o del proprio appetito con quello di qualcun altro. […] per evitare l’offesa della non appartenenza (per non parlare di tanti altri conflitti) viene inibito il desideriostesso». (F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman (1997) (ed. or. 1951), Teoria e pratica della terapia della Gestalt. Vitalità e accrescimento nella personalità umana, op. cit., p. 277, cit. in V. Conte, La modalità relazionale narcisistica nella post-modernità e il lavoro terapeutico in Gestalt Therapy, op. cit., p. 21.
In ambito psicoanalitico Green parlerà, diversi decenni dopo, di narcisismo di morte come forma di narcisismo patologico che conduce alla morte del desiderio stesso dell’altro, della relazione e del contatto. (Cfr. A. Green (2005) (ed. or. 1983), Narcisismo di vita, narcisismo di morte, Borla, Roma).
[25]V. Conte , La modalità relazionale narcisistica nella post-modernità e il lavoro terapeutico in Gestalt Therapy, op. cit., p. 21.
[26]Cfr. O. Kernberg et al.(2000) (ed. or. 1999), Psicoterapia della personalità borderline, Raffaello Cortina, Milano.
[27]Cfr.P.M. Bromberg (2007) (ed. or. 2001), Clinica del trauma e della dissociazione. Standing in the spaces, Raffaello Cortina, Milano.
[28]Cfr. G. Salonia (2014) (ed.), La luna è fatta di formaggio. Terapeuti gestaltisti traducono il linguaggio border-line, Il pozzo di Giacobbe, Trapani; V. Conte (2010), Il paziente Border-line: un’ostinata e sofferta richiesta di chiarezza. Intervista a Valeria Conte a cura di Rosa Grazia Romano, in «GTK rivista di psicoterapia», I, 1, pp. 61-75.
[29]Cfr.P.M. Bromberg (2007) (ed. or. 2001), Clinica del trauma e della dissociazione. Standing in the spaces, op. cit.
[30]Secondo la teoria evolutiva gestaltica durante la crescita si susseguono la seguenti fasi: confluenza, introiezione, proiezione, retroflessione, contatto e post-contatto. Tranne che per contatto e post-contatto, gli altri termini possono generare una certa confusione perché utilizzati sia per designare le fasi evolutive che preparano al contatto, sia i momenti dell’esperienza o ciclo di contatto Organismo/Ambiente e sia, infine, le interruzioni di contatto all’interno di esso (cfr. G. Salonia (1989), Dal Noi all’Io-Tu: contributo per una teoria evolutiva del contatto, op. cit.).
[31]F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman (1997) (ed. or 1994), Teoria e pratica della terapia della Gestalt. Vitalità e accrescimento nella personalità umana, op. cit., in G. Silvestri, Narciso: riflesso senza acqua. Il mito secondo Bill Viola, riflessioni sull’esperienza narcisistica, in «GTK rivista di psicoterapia», II, 2, 2011, p. 86.
[32]Ibidem.
[33]Cfr. ivi.
[34]Ivi, p. 87.
[35]Cfr. J. Müller-Ebert et al. (1989), Narcisismo nella terapia della Gestalt, in «Quaderni di Gestalt», V, 8/9, pp. 15-25.
[36]Ivi,p. 8.
[37]Ivi,p. 12. Questo comportamento ci fa venire in mente l’atteggiamento dello psicoanalista nei confronti del paziente che usa l’identificazione proiettiva.
[38]Ivi,p. 14.
[39]Ibidem.
[40]«E con le lacrime turba lo specchio d’acqua che s’icrespa […] ‘Dove ti ritiri?’ […] esclama» (Ovidio (2005) MetamorfosiIII, Einaudi, Torino, vv. 474.477, cit. in G. Salonia et al. (2013) (ed.), Devo sapere subito se sono vivo. Saggi di psicopatologia gestaltica, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani, p. 159.
[41]I.D. Yalom (2006) (ed. or. 1992), Le lacrime di Nietzsche, Neri Pozza Editore, Vicenza, p. 167.
[42]Ivi, p. 436.
[43]O. Wilde (2003), The short stories, Newton Compton, Roma.
[44]Cfr. S. Johnson (1986) (ed. or. 1979), La trasformazione del carattere, Astrolabio, Roma.
[45]V. Conte, La modalità relazionale narcisistica nella post-modernità e il lavoro terapeutico in Gestalt Therapy, op. cit., p. 31.
[46]Cfr. A. Lowen (2003) (ed. or. 1984), Il narcisismo. L’identità negata, op. cit..
[47]Sul concetto di intercorporeità cfr. G. Salonia (2008), La Gestalt Therapy e il lavoro sul corpo. Per una rilettura del fitness, in S. Vero, Il corpo disabitato. Semiologia, fenomenologia e psicopatologia del fitness, Franco Angeli, Milano, pp. 51-71; G. Salonia (2011), L’errore di Perls. Intuizioni e fraintendimenti del postfreudismo gestaltico, op. cit., pp. 49-66.
[48]G. Salonia et al. (2013) (ed.), Devo sapere subito se sono vivo. Saggi di psicopatologia gestaltica, op. cit., pp. 174-175.
[49]«Supponiamo che le energie di orientamento e manipolazione, volte all’esterno, siano pienamente impegnate nella situazione ambientale, che si tratti di amore, ira, pietà, dolore, ecc.; tuttavia l’individuo in questione non riesce a far fronte a questi sentimenti; egli ha paura di ferire (distruggere), o di essere ferito; sarà necessariamente frustrato: e allora le energie impegnate vengono rivolte contro gli unici oggetti privi di pericolo disponibili nel campo, e cioè la propria personalità e il proprio corpo […]. In modo nevrotico, colui che opera la retroflessione evita la frustrazione cercando di non essere mai stato impegnato; egli tenta, cioè, di annullare il passato, il suo errore, il suo sporcarsi, le sue parole. Egli rimpiange il fatto di aver invaso l’ambiente. Questo annullamento è ossessivo e ripetitivo secondo la natura del fenomeno; poiché una nuova formazione, analogamente a qualsiasi altra cosa, può venir assimilata solo se arriva a comprendere del nuovo materiale ambientale; nell’annullare il passato, l’individuo passa più volte sullo stesso materiale. L’ambiente tangibile dell’individuo che retroflette consiste soltanto di lui stesso, e su questa entità egli sfoga le energie che ha mobilitato. Se è la paura di distruggere che ha fatto insorgere la sua angoscia, egli ora tortura sistematicamente il proprio corpo e produce malattie psicosomatiche. Se è impegnato in un’impresa, egli lavora inconsapevolmente per il suo fallimento». (F. Perls, P. Goodman, R. Hefferline, Teoria e pratica della terapia della gestalt. Vitalità e accrescimento nella personalità umana,op. cit., p. 259-260).
[50]F. Nietzsche (1986) (ed. or. 1878), Umano troppo umano, Adelphi, Milano.
[51]Cfr. G. Salonia (2001), Sulla felicità e dintorni. Tra corpo, parola e tempo, op. cit.
[52]La descrizione del vissuto derivante dall’esito positivo della terapia ci ricorda il il pensiero di M. Klein ed in particolar modo il transito dalla posizione schizo-paranoide alla più matura e funzionale posizione depressiva. Con essa il lattante “perde” la madre ma guadagna la capacità di pensare. Avviene una ricomposizione della scissione primaria riguardante il seno e l’Io. Contemporanea all’unificazione congiunta dell’oggetto e dell’Io, si ha come caratteristica fondamentale la cessazione progressiva dell’attività proiettiva e consente al bambino la presa in carico delle sue pulsioni aggressive, in certo modo la sua “responsabilizzazione” nei loro confronti. (Cfr. M. Klein (1978) (ed. or. 1921-1958), Scritti, Bollati Boringhieri, Torino).
[53]Cfr. G. Silvestri, Narciso: riflesso senza acqua. Il mito secondo Bill Viola, riflessioni sull’esperienza narcisistica, op. cit., pp. 79-90.
[54]V. Conte, La modalità relazionale narcisistica nella post-modernità e il lavoro terapeutico in Gestalt Therapy, op. cit., p. 34.
[55]G. Salonia(2011), Sulla felicità e dintorni. Tra corpo, parola e tempo,Il Pozzo di Giacobbe, Trapani., p. 40 e seg.
[56]Ivi, p. 40.
[57]Ivi, p. 41.
[58]G. Salonia (2011), Sulla felicità e dintorni. Tra corpo, parola e tempo, op. cit, p. 43.