Sintesi del Seminario tenuto da Antonello CORREALE (28.VI.2018) presso la Scuola di Psicoterapia Psicoanalitica dell’Aduto SPP, Milano
La Pulsione di Morte è da sempre un concetto controverso; secondo Freud e secondo alcuni autori che l’hanno seguito, è parte della natura umana, una sorta di tropismo all'origine, alla quiete assoluta e primigenia; per altri autori, essa è una deriva pessimistica dello stesso Freud, maturata in seguito ad alcuni eventi tragici da lui vissuti: un lutto familiare, l'esperienza della guerra, l'instabilità politica.
Per comprendere come Freud sia giunto a coniare tale concetto è opportuno domandarsi il perché, a quale problema cercasse di rispondere. Egli parla del Principio di Morte per la prima volta nella pubblicazione "Al di là del Principio di Piacere". È il 1920. È da poco terminata la Prima Guerra Mondiale, con milioni di morti, la distruzione totale. Sigmund Freud si trova davanti alla massima espressione della cattiveria umana e si domanda: perché la crudeltà?
Intanto crollano ben tre imperi: quello austro-ungarico, quello russo, quello ottomano. Il mondo cambia faccia, tramonta una visione romantica ed elefantiaca del mondo, in favore di una versione nuova, aggressiva e accelerata.
Inoltre, nel 1920 la figlia Sophie muore per influenza "spagnola".
Tuttavia, per applicare il concetto di Principio di Morte a una dimensione clinica, Freud parte dall'osservazione delle nevrosi di guerra. I soldati che erano andati in battaglia e avevano perciò vissuto esperienze spaventose, anche dopo aver lasciato il fronte tornavano costantemente su quelle esperienze passate, le ricercavano, le rievocavano addirittura con un profondo, nascosto e misterioso piacere. Da qui, l'idea che l'esperienza traumatica non venga esclusa dalla mente; anzi, vi ritorna, vi viene ricercata e ospitata con questo strano godimento. Tale fenomeno è una rivoluzione, perché è in netto disaccordo col Principio del Piacere, relativizza questa legge che, fino a quel momento, aveva guidato in modo assoluto il paradigma freudiano. Ecco perché il nuovo lavoro viene intitolato Al di là del Principio di Piacere.
In questa nuova ottica, il trauma sembra avere un potere attrattivo e non viene cancellato dalla mente. Perché? Già Aristotele aveva proposto una soluzione, pensando alla catarsi, alla purificazione da traumi e conflitti attraverso una loro riedizione. Per Aristotele ci purifichiamo solo se proviamo pietà, terrore ed entusiasmo. La morte suscita certamente repulsione e paura, ma anche attrazione. Freud cerca di capirne il motivo e osserva l'esistenza, nell'uomo, di una tendenza a tornare a una stato originario di pace assoluta. Per cogliere la funzione di questa tendenza, guarda all'evoluzione darwiniana: la prima vita è nata semplice, vegetale, acquatica; poi ha sviluppato le branchie e il movimento; quindi è uscita dai mari grazie ai polmoni e, con rettili, volatili e mammiferi, ha colonizzato cielo e terra. Questa tendenza sarebbe una sorta di nostalgia proprio per quando non eravamo niente, è un desiderio di annullamento, di azzeramento, un livellamento verso l'inerme, un voler tornare materia inorganica: perché Vita significa lotta, prevaricazione, ansia; crescere è desiderare, ma desiderare fa anche paura, implica fatica. A livello ontogenetico, in una dimensione individuale, il livello zero è quello neonatale, quando si vive l'illusione di essere fusi con la madre, quando ella faceva tutto per noi, addirittura quando eravamo nel suo ventre. L'ipotesi proposta da Freud, quindi, è quella di una forza nascosta, un'inclinazione ad azzerare la vita.
Anche Ferenczi si posiziona su una linea simile: lo psicoanalista ungherese pensava che tutti gli uomini avessero un desiderio, profondo e prepotente, di tornare alle origini e che queste fossero nell'acqua (sempre in una visione darwiniana dell'evoluzione). Coerentemente, riteneva che la fantasia alla base di tutta la sessualità fosse tornare dentro a un corpo, a un ventre (Thalassa, 1924).
Sarebbe da questa tendenza al principio inorganico, al niente primordiale, che nasce la riedizione del trauma, perché esso ha la medesima direzione, lo stesso destino: il trauma azzera, il trauma annulla. Esso è un evento inaspettato e imprevedibile, che minaccia la sicurezza fisica e psicologica dell'individuo e gli ricorda la sua mortalità, il suo essere fragile. Il trauma è una sorta di memento dell'esistenza di una forza maggiore, di un potere che può vincerci, annichilirci, cancellarci. Il trauma è una forza che tende all'annullamento e ne siamo attratti proprio perché ci ricorda che possiamo essere annullati. La guerra - come quella che ha scosso Freud e lo ha spinto a interrogarsi - è un macrotrauma che uccide vite, rade al suolo intere città, riporta al Momento Zero. Addirittura, la ferocia espressa con la guerra potrebbe essere letta come un amore per ciò che non c'è più, un desiderio di tornare all'origine inorganica. La Pulsione di Morte avrebbe allora potuto essere chiamata Pulsione di Annullamento - forse anche godendo di miglior stampa e minori pregiudizi presso i pensatori.
Recuperando spiegazioni freudiane, la pulsione è ciò che sta a metà tra il biologico e lo psichico, nasce da un'energia fisica e funziona a livello mentale, è una richiesta del corpo che richiede gratificazione. Così Freud, chiamando pulsione questa gravità alla morte, le riconosce anche un cupo, misterioso piacere fisico.
Ovviamente esiste anche un'altra forza, l'Amore (in tutte le sue forme), che lega, unisce, protegge e rinnova senza ripetere: l'essere umano si trova tra queste due pulsioni, in un intreccio tra Eros e Thanatos.
Il trauma, però, rompe questo equilibrio, sfonda lo scudo protettivo delle difese, cioè di quelle strategie più o meno evolute, usate quotidianamente, per evitare il dolore e che sono perlopiù basate sulla logica della rimozione: questo oggetto lo vediamo, quello lo escludiamo; questo evento lo consideriamo, quello no. Il trauma irrompe improvviso e lacera il velo, travolge e allaga: ci mostra anche ciò che non vediamo, ci costringe a confrontarci con ciò che escludiamo. Il trauma comporta un'esplosione di energia libera, la quale, per essere gestita, deve essere legata in una storia, una trama; è necessario qualcosa che leghi questa energia, questo desiderio prepotente di annullamento per mezzo di una collocazione, di un contesto.
A ricamare una narrazione concorre la ripetizione del trauma, la continua rievocazione, la sua ricerca instancabile e ambivalente: è la traumatofilia. Questo concetto prende spunto dall'osservazione, da parte di Freud, del nipotino Ernst (figlio proprio di Sophie), il quale è impegnato in un gioco ripetitivo e in apparenza balzano: il bambino lancia un rocchetto e lo ritira a sé, commentando "fort-da" (vai-ecco, là-qua). L'interpretazione di Freud ammanta quel gioco semplice di un valore profondo, di rappresentazione simbolica del trauma: per un bambino il trauma per eccellenza è l'allontanamento della mamma (qui rappresentata dal rocchetto), che è accettabile solo se poi lei ritorna. Il trauma è l'andar via, la gioia è il riapparire: si può quindi dire che, per provare la gioia del ritorno, bisogna vivere l'angoscia del partire. La sparizione della mamma determina la frammentazione del mondo del bambino, il crollo della sua sicurezza, l'annullamento dell'esistenza (senza la mamma, sono morto; oppure è morta lei, perché non riappare); il ritorno della madre è, invece, la riconfigurazione di quel mondo, la ristrutturazione della sicurezza e dell'esistenza. Di fronte a quel gioco semplice, ma dal significato complesso, Freud si interroga sul perché della ripetizione: se la lettura simbolica è giusta, il piccolo Ernst si espone volontariamente al trauma più e più volte! L'ipotesi avanzata è che lo faccia per abituarsi al trauma e gestirlo: ripetendo la rappresentazione del trauma, si stuzzicano l'illusione di poterlo in qualche modo controllare ("aggiustandolo" dentro di sé, rievocandolo secondo la propria volontà, decidendo tempi e modalità, ecc...) e l'oscuro piacere di annullamento ad esso associato. La ripetizione del trauma - la traumatofilia - è quindi un tentativo di controllare l'incontrollabile.
Quali implicazioni cliniche della Pulsione di Morte?
Un primo collegamento può essere con il sadismo e la crudeltà. Nella propria concettualizzazione, Freud pensava a un ritorno al Nulla, alla pace del Niente, mentre alcuni suoi seguaci pensarono anche a modalità di vivere la Pulsione di Annullamento tali da esprimerla fuori di noi, proiettandola all'esterno e sugli altri (estroflessione): non sono modalità rare, d'altronde tutto il mondo naturale è pervaso di violenza e di istinto predatorio. Nell'uomo, poi, tale pulsione sembra assumere una violenza particolare e un'efficiente capacità di estroflettersi: infatti, grazie all'evoluzione e ai cambiamenti avvenuti nella struttura cerebrale - e soprattutto grazie allo sviluppo del linguaggio - nell'essere umano l'istinto (il comportamento che mira a gratificare un bisogno) può perdere il proprio oggetto originario e spostarsi su un altro oggetto (es., per sublimazione). Logica analoga viene assunta dalla Pulsione di Morte, la quale può diventare pulsione distruttiva (passando dalla paura di annullarci ad annullatori dell'Altro). Entra così in scena l'aggressività.
Sarebbe tuttavia sbagliato limitarsi ad affermare che la Pulsione di Morte coincide con l'aggressività pura e cruda; perché essa è aggressività, ma in funzione del recupero di una pace estrema.
L'altra faccia della medaglia è il masochismo, dove pure è possibile scorgere la Pulsione di Morte: esso è un ripetere violenze subite, e da simili esperienze se ne trae piacere perché è un ritorno allo stadio primordiale, all'essere nulla, al sentirsi oggetto. La Pulsione di Morte e la traumatofilia che comporta sono un attacco sistematico all'essere vivi. Il trauma ha la capacità di farci sentire inerti (Freud, Inibizione Sintomo Angoscia), oggetti, impotenti: ancora una volta, annullati.
Un altro sviluppo clinico riguarda il narcisismo. Non è un caso che André Green abbia scritto "Narcisismo di vita, narcisismo di morte" e coniato i relativi concetti. Il narcisismo di morte è nichilismo, svalutazione sistematica di tutto e, in questo modo, si trae un piacere, si esalta se stessi, perché null'altro nel mondo merita. Ecco qui, di fondo, c'è la Pulsione di Morte. L'onnipotenza è una forma quasi pura di questa pulsione. Il narcisismo di morte porta le persone a disperarsi di essere come sono, di trovarsi in certe condizioni deprecabili, ma in parte provano gusto a essere proprio in quelle condizioni, perché da esse traggono un senso di onnipotenza: il problema non sono loro, ma tutti gli altri. E' colpa degli altri se si vive in condizioni deplorevoli, se si devono affrontare fatiche gratuite. Ma non si tratta di paranoia, non c'è la convinzione che gli altri vogliano arrecare danno. Semmai è l'atteggiamento di chi non vuole mettersi in discussione: se sono gli altri a sbagliare, sono sempre gli altri a dover cambiare. Ma, in ultimo, è un voler tenere tutto fermo, un bisogno che nulla cambi davvero, perché cambiare veramente vorrebbe dire smuovere le differenze del sistema, mettersi in gioco, rivelare i propri difetti e le proprie inferiorità. Tutto deve essere appiattito - cioè annullato. Tomasi di Lampedusa fece dire a Tancredi, nel Gattopardo: "Se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi", che poi è un finto cambiare, è un rimestare nel torbido per poter continuare a lamentarsi che è torbido.
Questa dinamica richiama anche l'amore narcisistico. Se nell'amore oggettuale si ama l'Altro proprio perché è altro da noi, perché ha qualcosa che non abbiamo e, quindi, è espressione dell'accettazione del nostro limite, nell'amore narcisistico si ama l'Altro solo perché l'altro ci ama, e lo si ama nella misura in cui l'altro è specchio del nostro Ideale dell'Io, ci restituisce l'immagine della nostra grandezza. L'amore narcisistico implica la Pulsione di Morte: noi siamo tutto, l'altro è nulla oppure conta solo per quanta invidia attrae su di noi, quanto ci faccia idealizzare agli occhi della gente.
A proposito di invidia: anch'essa è una forma di espressione della Pulsione di Morte. L'invidia annulla. Essa è l'odio per un bene posseduto da un altro e che noi non possediamo, e mira a privare l'altro di questo bene distruggendolo, senza però farlo guadagnare a noi: "La sua bellezza imbruttisce me", afferma Iago nell'Otello. L'invidia tende ad azzerare le differenze, vuole livellare, rendere tutti uguali: è un odio per le diversità.
A fronte di queste riflessioni, verrebbe da esclamare: Quanto è faticoso essere soggetti! Il che vuole dire fare i conti con se stessi. Freud disse che siamo attrezzati a combattere i pericoli esterni, ma lo siamo meno per combattere quelli interni. Come può esserlo la Pulsione di Morte quando è mera rinuncia ai desideri, alla nostra vita interiore. Se i bisogni sono necessità della vita biologica, mancanze da colmare pena la sofferenza, i desideri sono, invece, un volere qualcosa di oltre, in più. Questo in più è forse il contatto diretto con la materia, un piacere puro, provato senza filtri intellettuali. Nell'essere umano questa purezza è andata perduta con l'evoluzione cerebrale, con l'invenzione del linguaggio che ha permesso di polarizzare il mondo. Questa mediazione comporta nell'uomo una quota di insaturazione del piacere e del desiderio, che è la nostra fragilità (per esempio, esponendoci all'uso di sostanze, alla bramosia di denaro fine a se stesso, ecc., nell'illusione di saturare); ma è anche la nostra forza, la spinta a cercare soluzioni sempre nuove per colmare il vuoto.
Finora si è visto come, nella clinica, la Pulsione di Morte si esprima innanzitutto nelle problematiche narcisistiche. Ma la si ritrova anche in altre dimensioni, come nel disturbo borderline. Dopo aver sperimentato traumi infantili, l'individuo borderline tende a riviverli continuamente in ogni accadimento, anche minimo; vive ogni esperienza negativa come traumatica; addirittura ricerca l'esperienza negativa e, a fronte di un intoppo, il suo vissuto emotivo è intenso come se fosse il trauma primigenio. Il concetto di ripetizione è centrale per la Pulsione di Morte e il paziente borderline è traumatofilico, reitera i traumi e, per renderli più probabili, crea condizioni ambientali favorevoli allo scopo: giunge a concepire i rapporti umani come rapporti di violenza e di potere, cerca di diventare egli stesso violento e potente; le relazioni perdono le colorazioni emotive e diventano una sequenza di azioni e reazioni, di agiti su di sé e sull'altro.
La Pulsione di Morte può trovarsi anche nelle psicosi. In tali quadri, essa si esprime non tanto nei sintomi positivi, quanto in quelli negativi; la psicosi caratterizzata da questi ultimi porta a una vita fatta di noia, disinteresse, immobilismo, evitamento dei rapporti umani. Perché lo psicotico cronico è negativista, perché non vuole fare nulla? Certo, perché la vita attiva richiede fatica, l'ingaggio personale mette a rischio; ma forse c'entra pure l'annullamento e la "sicurezza" del niente: è meglio il nulla che il caos. Per lo psicotico desiderare di fare è una cosa, ma fare è ben altra cosa. Questa è - per citare ancora Green - la psicosi bianca.
Però la Pulsione di Morte lavora anche oltre la clinica in senso stretto, oltre l'individuo: si esprime, per esempio, nelle istituzioni, quei grandi apparati spersonalizzati, ma divisi da un'intensa contraddizione interna, attraversati e lacerati da una doppia anima: una innovatrice e una conservatrice. Ogni istituzione ha un obiettivo e, per perseguirlo, si dota di un'organizzazione, una gerarchia e una scala di poteri. L'organizzazione è necessaria, ma ha la tendenza fisiologica a diventare ipertrofica. Così, quanto più l'istituzione è malata di narcisismo, tante più energie saranno distolte dal perseguimento dell'obiettivo ufficiale e dirottate nella gestione della stessa organizzazione interna, fino a quelle situazioni di stallo in cui controllare cosa fa l'altro è più importante del fare. Questa è ancora Pulsione di Morte, immobilità, annullamento. E tutte le istituzioni hanno in sé il germe di questa possibile malattia.
Qui giunti, è importante sottolineare un punto: la Pulsione di Morte non è totalmente negativa, bensì può essere anche una dimensione positiva: essa è ritorno all'origine, è fonte di attivazione inquieta, di continua ricerca, di costante opera atta a colmare una mancanza. Il richiamo alla mancanza apre, infine, al tema dello sperdimento: gli uomini non tollerano la mancanza, cercano sempre qualcun altro o qualcos'altro che li saturino, li completino. E non tollerano la perdita, l'allontanamento dell'altro o dall'altro, perché la perdita li fa sentire sperduti. Lo sperdimento fa paura, ma pure affascina di mistero. Proprio come il trauma, nella cui ricerca c'è il voler ritrovare qualcosa di già noto, ma anche incappare in qualcosa di nuovo: nel trauma c'è la speranza di (ri)trovare qualcosa che confermi e che al contempo sorprenda.