Pratica Psicoterapeutica

Il Mestiere dell'Analista
Rivista semestrale di clinica psicoanalitica e psicoterapia

NUMERO 2
1 - 2010 mese di Giugno
PSICOANALISI E ISTITUZIONE
RENDERE “CONSAPEVOLE” UN CRONICO DELLA SUA CRONICITÀ
di Roberto Carnevali

Ho assistito casualmente qualche giorno fa a un dialogo fra due infermieri del CPS in cui lavoro, e sono stato stimolato a intervenire nel discorso, che è sfociato in una discussione interessante che mi ha sollecitato le riflessioni che seguono.

Infermiere (uomo, da poco in psichiatria dopo anni al Pronto Soccorso): “...non vuol proprio capire che è un cronico, e che quindi certe cose non le può fare!”
Infermiera (donna, da molti anni in psichiatria, e sempre in questo CPS): “Sarebbe bello se fosse facile far capire a un cronico che lo è! È un problema che abbiamo tutti quello di riuscire a renderli consapevoli della loro malattia, ma non sempre ci riusciamo”.
A questo punto intervengo, dicendo che non è vero che questo problema ce l'abbiamo tutti, perché per me ad esempio non è comprensibile quale sia l'obiettivo che si vuole perseguire cercando di rendere consapevole un cronico della sua cronicità; ne nasce una discussione pacata ma dai toni decisi con l'infermiera “anziana”, mentre l'uomo arrivato da poco si ritira in buon ordine.

In effetti si sente dire molto questa cosa da parte di psichiatri e del personale medico della psichiatria; anche molti psicologi la pensano così; anzi, in alcuni questionari c'è addirittura una voce che recita “consapevolezza della propria malattia”, portandolo come un dato che, se presente nel paziente, lo rende più collaborante e dunque a prognosi più favorevole.
Dunque è bene che un cronico sappia di essere cronico. Così se per caso gli venisse l'idea di operare qualche cambiamento radicale nella sua struttura di personalità, arriverebbe subito a capire che non è possibile e desisterebbe. Non sia mai che un cronico smentisca la sua diagnosi ed esca dalla cronicità! Dopo tutta la fatica che abbiamo fatto per diagnosticarlo, incasellarlo e costruirgli addosso un bel “Piano Terapeutico Individuale”!
Al di là dell'ironia, ritengo che tra le cose che vanno in una direzione opposta a quella che caratterizza, secondo il mio punto di vista, una prospettiva psicoanalitica relazionale, questa della consapevolezza della “malattia” sia tra le più smaccatamente assurde.
A un seminario ASP, Stefano Bolognini, che è uno degli psicoanalisti di cui maggiormente condivido le idee, propose una modalità relazionale, tra analista e paziente, fondata sulla prospettiva “del bicchiere mezzo pieno”. Ho scritto a suo tempo un lavoro intorno a quel seminario, e ne riporto un passo (“La complessità nel lavoro clinico di Stefano Bolognini. Note a margine”, IIa parte di: Conci M., Carnevali R., “Essere psicoanalisti oggi. Incontro con Stefano Bolognini”, in Setting N. 21/2006, FrancoAngeli, Milano):

Di questa prima parte mi limito a sottolineare l'importanza della prospettiva di fondo, che è quella di evidenziare la presenza di elementi non difensivi nel sogno, e di saperli cogliere e utilizzare nella relazione analitica. Esiste dunque, ci dice Bolognini, “un'area onirica potenzialmente e occasionalmente creativa […], basata sulle possibilità di rappresentazione, di scomposizione e ri-binazione degli elementi in gioco nel mondo interno del soggetto, grazie all'effetto solvente e riconiugante del processo primario, e alla riorganizzazione consentita dal processo secondario, che si alternano in varia misura. In tale prospettiva è possibile concepire versanti non solamente difensivi nel lavoro del sogno, al punto che si può parlare di un processo di elaborazione onirica dei vissuti, e probabilmente - talvolta - dei pensieri”. Se ci poniamo nella prospettiva denominata “del bicchiere mezzo pieno” sarà più facile cogliere, tra gli elementi presenti in un sogno, quelli che possono appartenere a quest'area, e trovare nel materiale onirico aspetti che possono contribuire a rinsaldare l'alleanza con il paziente, e che permettono anche all'analista di lavorare con maggior gratificazione. Riferendosi al caso clinico che cita, Bolognini dice: “Possiamo considerare questa produzione onirica secondo due ottiche dinamiche diverse, che io chiamerei molto semplicemente 'l'ottica del bicchiere mezzo vuoto' e quella 'del bicchiere mezzo pieno': da un certo punto di vista, la paziente non è ancora in grado di pensare e di comunicare direttamente il suo timore, sicché il lavoro onirico maschera lo scenario sottostante per contrabbandarlo al di qua della censura; da un altro punto di vista, il rapporto tra paziente ed analista sta cominciando a diventare rappresentabile, sia pure in modo traslato, e con il ricorso ad una curiosa soluzione 'mista' che implica tanto l'immagine quanto il gioco di parole. Sono vere tutte e due le cose, da un certo punto di vista la paziente si difende, dall'altro la paziente progredisce. Ciò che cambia, a seconda dei diversi punti di vista, è il vissuto soggettivo dell'analista al lavoro: apprezzando i progressi del paziente, lavorerà con maggiore sensazione di utilità, e in definitiva con maggior soddisfazione”.


Sia chiaro che non è mia intenzione avere una relazione fasulla con il paziente, nella quale gli taccio le cose sgradevoli per paura di scoraggiarlo; l'idea di “cronicità”, in ambito psichiatrico, mi sembra comunque soggetta a un margine di dubbio, e preferisco pensare all'uso di questo termine come un qualcosa che serve agli addetti ai lavori per intendersi nel loro comunicare, come del resto io ritengo che sia per tutte le denominazioni della diagnostica psichiatrica, che non rappresentano delle entità ma dei modelli convenzionali di riferimento; dunque non vedo il motivo di portare questo concetto (che, ripeto, non ritengo descrittivo di una qualche “realtà”) nella relazione con il paziente, e tantomeno di convincerlo che lo descrive in un suo modo di essere di cui deve prendere atto, come base per allearsi con me. Mi tornano gli echi del “soggetto supposto sapere” di lacaniana memoria, che pretende dal suo interlocutore un assoggettamento alle sue concezioni, ritenendo di potersi alleare soltanto se l'altro abdica alle proprie e si genuflette dichiarando la propria inferiorità e il proprio bisogno di aiuto. Senza negare l'asimmetricità del rapporto, il terapeuta che lavora nella prospettiva del “bicchiere mezzo pieno” si pone in una relazione in cui cerca di cogliere nel discorso del paziente (Bolognini parla del sogno, ma per la vita da sveglio del paziente il senso non cambia) gli elementi progressivi, e questo tanto più con il cosiddetto “cronico”, per il quale sono difficili, ma non impossibili, da rintracciare, e spesso fanno parte non del suo linguaggio verbale ma del discorso in senso lato che ci propone, e del quale, con una particolare attenzione e disposizione d'animo (Bolognini dice “vissuto soggettivo”) possiamo cogliere il senso.
All'inizio di Teoria interpersonale della Psichiatria (1953), Sullivan dice, a proposito della prospettiva interpersonale (cito a memoria), che la ritiene euristicamente e clinicamente feconda, e che quindi, anche se non fosse vero che è il fondamento per lo svilupparsi di ogni patologia psichiatrica, è opportuno fondarsi su questo presupposto, per attivare tutte le risorse che il terapeuta ha nei confronti di tale patologia, in un "gioco" interpersonale diversificante che entri in risonanza costruttiva con le risorse del paziente.
Rispetto all'idea di cronicità io ritengo che sia da applicare, in senso opposto, la stessa logica: se anche fosse vero che esistono i pazienti psichiatrici “cronici”, è opportuno lavorare come se ciò non fosse vero, per orientare la propria attenzione su tutto ciò che il paziente ha di residuo come risorsa progressiva, visto che solo questo può essere un vero fondamento per un'alleanza terapeutica costruttiva.

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