Non credo che in questo breve scritto riuscirò a soffermarmi in modo adeguato sul lavoro di Alfredo Civita: altri sono in grado di farlo molto meglio di me. Ma non potrei neppure parlare di Alfredo come persona, non lo conoscevo abbastanza e non sarebbe rispettoso. Mi limiterò allora solo ad alcune riflessioni, impressioni.
Ho incontrato Alfredo durante la prima riunione di redazione cui ho partecipato, più o meno tre anni fa, se non ricordo male. Sapevo che avrei incontrato un professore universitario e sinceramente un po’ mi sentivo in soggezione. Quello che invece mi colpì immediatamente fu il suo modo di fare e di porsi: umile nel senso più alto del termine. Una persona profondamente connessa con la “terra”, con la propria natura umana, limitata ma anche dotata di slanci conoscitivi impetuosi. Ecco: di impetuoso in Alfredo ho notato la curiosità. Faceva tante domande, su tutto: su una parola non udita bene, su un concetto che gli sembrava confuso, su un fatto di cui non era a conoscenza, su cosa volesse davvero dire l’autore di un articolo.
E nei suoi scritti credo che tutto questo si noti. Nel suo ultimo articolo su questa rivista parla proprio di autori che trasmettono una conoscenza oscura e che spingono a chiedere delucidazioni direttamente a loro. E fa continuamente domande a se stesso: sta procedendo bene quella terapia? Cosa avrei potuto fare con quel paziente? In uno dei suoi articoli, sempre in questa rivista, parla di un suo caso di oltre venti anni fa, chiedendosi cosa avrebbe potuto fare di più.
I suoi scritti sono estremamente chiari eppure lasciano continuamente aperte delle domande, proprio come fa la morte. La morte non un chiude un’esistenza, la lascia per sempre aperta, beffardamente incompiuta. Lo sgomento, la rabbia per ciò che non ci potrà più essere e per quello che non si potrà più fare è qualcosa che è possibile accettare pienamente solo a parole, è qualcosa che la morte purtroppo porta sempre con sé. Tutto il resto, la ricerca di un senso, il cercare di pensare qualcosa che non si conosce (e non si potrà mai conoscere), sembrano assumere i connotati di debolissime razionalizzazioni. Quello che resta è sempre un “filo spezzato”… come un’analisi incompiuta. E sappiamo che spesso quando cerchiamo di dare un senso ad una terapia che, non per nostra volontà, si è interrotta o è finita troppo presto, lo facciamo prima di tutto per cercare di lenire quella sensazione di rabbia e sgomento che ci accompagna. Cercando di “dominare” qualcosa che nostro malgrado ci è sfuggita di mano. Come il caro Alfredo Civita.