L’ultimo scritto di Civita meriterebbe una discussione assai articolata. Vorrei limitarmi ad alcune considerazioni. L’opera di Freud è talmente vasta e per alcuni aspetti anche contradditoria che chiamarsi freudiani non significa definirsi in maniera univoca. Che ne facciamo ad esempio della pulsione di morte? O della teoria del narcisismo primario? O della metafora dell’analista come un chirurgo? Si deve ricorrere a varie specificazioni, sottolineare in qualche modo ciò che più si accetta o meno si accetta della sua opera. Ad esempio il sottoscritto che si ritiene “sostanzialmente” (notate le virgolette) freudiano trovo fuorviante la convinzione che filtra attraverso tutte le considerazioni del grande maestro sulla tecnica che sia l’analisi a curare. Non è vero, va ribadito con forza, è l’analista che la pratica che cura. Mentre, ad esempio, sono stato semplicemente folgorato, a suo tempo, dalla straordinaria chiarezza e profondità del dallo scritto “Ricordare, ripetere rielaborare”. Potrei continuare e continuare. Quello che voglio dire è che l’opera freudiana nel suo divenire, mentre definisce la teoria e la pratica psicoanalitica lascia amplissimi spazi di discussione e sembra quasi richiedere operazioni di messa a punto, di ristrutturazione e di completamento. Sul piano clinico inoltre l’esigenza di una verifica, a partire da “analisi terminabile e interminabile”, assume caratteri di urgenza, di assoluta necessità. Diciamolo chiaramente: il trattamento analitico praticato da Freud non funziona. Basta leggere i resoconti delle sue analisi che ci sono state offerte da alcuni dei suoi pazienti (Smiley Blanton, Hilda Doolittle). A proposito dell’analisi di Blum ho scritto in termini fortemente critici io stesso su questa rivista. Si afferma quindi l’analisi kleiniana che riempie l’enorme vuoto teorico clinico del rapporto con l’oggetto primario, la psicologia dell’Io a ribadire l’importanza delle difese e dell’ambivalenza del transfert e via dicendo. Dunque, come scrive Civita, nella prima fase Freud annunciava la buona novella, si rivolgeva al mondo affinchè la scoprisse e la facesse sua. Nella seconda si approfondivano alcuni aspetti alquanto lacunosi della teoria e soprattutto si voleva sopperire alle mancanze che l’evidenza clinica veniva dimostrando. Questo comportava la messa in evidenza e l’approfondimento di aree di indagine circoscritte e non poteva che avvalersi di un linguaggio a carattere specialistico. Non ci si può certo rivolgere a un vasto pubblico se si discute ad esempio della colpa persecutoria e della colpa depressiva o della proiezione rispetto all’identificazione proiettiva, per fare degli esempi e gli interlocutori di chi ne scriveva non potevano essere che gli addetti al mestiere. Tutto questo appare ovvio, ma è successo, come notava Civita, che insorgessero difficoltà di comunicazione anche all’interno della stessa comunità psicoanalitica (la babelizzazione delle lingue). È accaduto infatti che queste correnti di pensiero, certe ci avere il monopolio della verità, venissero radicalizzando il loro punto di vista adottando un linguaggio sempre più autoreferenziale e si rinchiudessero in se stesse in opposizione alla altre fino ad apparire delle vere e proprie conventicole religiose. Facevano insomma delle loro scoperte qualcosa di simile a degli articoli di fede. A distanza di tempo sono molti gli autori che rilevano come la nascita della psicoanalisi avesse sollevato enormi speranze in un clima di euforia che portava ad una eccessiva auto idealizzazione. Credo che le nuove scuole si portassero dietro lo spirito messianico della prima psicoanalisi che nel fare scienza avrebbe mondato l’uomo della sua irrazionalità.
Cosa sta accadendo adesso, nella terza fase di Civita? Introduco altre considerazioni oltre a quelle fatte da lui. Azzardo per divertimento una metafora ippica. A me sembra che la psicoanalisi prima era un cavallo da corsa che era in testa al gruppo e correva verso il futuro, ora invece è un vecchio ronzino che insegue disperatamente gli altri. Fare una analisi prima era un vanto, ora un demerito; quando mi si chiede di cosa mi occupo, prima dicevo che ero uno psicoanalista, ora mi difendo e incomincio con il dire che sono un medico; delle tante polemiche al nostro interno non ce ne importa poco più che nulla, quello che davvero conta ormai è avere dei pazienti e lavorare ; travolti dalle nuove tecnologie e affascinati dalle scoperte delle neuro scienze ci chiamiamo scherzosamente “dinosauri”, l’inconscio ormai è diventato un retaggio del passato. Insomma l’euforia di un tempo ha ceduto il passo alla depressione. Era inevitabile, la nostra è una disciplina giovane, è cresciuta troppo in fretta e ora siamo ritornati con i piedi per terra. È vero che la psicoanalisi è da sempre in crisi e da sempre messa da noi stessi in discussione. Si deve ammettere però che abbiamo taciuto troppo a lungo dei nostri insuccessi, come il ritorno sul piano clinico dell’enorme mole di conoscenze che mettiamo in giuoco nel corso del trattamento sia troppo spesso deludente. Che fare? Si deve evidentemente continuare a crederci, resistere all’incalzare decisamente maniacale delle nuove terapie e della psicofarmacologia. Senza cessare mai il confronto sul piano clinico. A me sembra che questa fase depressiva deponga per una sopraggiunta maturità. Già ne vediamo vari segnali. Ormai è vincente la considerazione che la terapia abbia come condizione indispensabile la capacità di contenimento del terapeuta. L’affermazione di Wallerstein che il controtransfert è il terreno che accumuna ogni indirizzo analitico è, direi, scontata. In altre parole, lo ribadisco, è l’analista a curare, non la psicoanalisi, di qualunque indirizzo essa sia. Si stanno affermando momenti di sintesi davvero promettenti, vedi la teoria delle relazioni oggettuali quando non esclude la teoria pulsionale (Kernberg), o, più in generale, l’approccio bi personale che sa leggere le dinamiche intrapsichiche. Si dà la giusta importanza alla diagnosi, quale momento predittivo per il tipo di intervento consigliabile, il setting è divenuto più flessibile in relazione al paziente e agli obiettivi che si vogliono realisticamente raggiungere. La psicoterapia non è più l’ancella povera della psicoanalisi, il rame contrapposto all’oro. Le istituzioni analitiche stanno perdendo il tratto autoritario ed escludente di un tempo. Potrei continuare. A me sembra che la psicoanalisi proprio ora che ha perso nell’opinione di tutti il suo potere seduttivo e la sua capacità di attrazione, attraversi invece un fecondo momento di ristrutturazione e di cambiamento a tutti i livelli ; sicuramente sul piano clinico sa molto più realisticamente delimitare le aree di intervento che le sono proprie e i possibili obiettivi, è in grado insomma di operare in maniera decisamente più efficace rispetto al passato.