Pratica Psicoterapeutica

Il Mestiere dell'Analista
Rivista semestrale di clinica psicoanalitica e psicoterapia

NUMERO 17
2 - 2017 mese di Dicembre
IL CONTESTO SOCIOCULTURALE
LE FASI DELLA TRASMISSIONE GENERAZIONALE DELLA PSICOANALISI
di Alfredo Civita

Ci pare di poter individuare nella storia della psicoanalisi tre distinte fasi relative alle modalità di trasmissione generazionale, da maestri ad allievi, del sapere psicoanalitico, in particolare del sapere teorico e tecnico.

La prima fase decorre, come ogni cosa in psicoanalisi, da Freud e dalle prime generazioni di psicoanalisti. E Penso qui anzitutto ad Abraham e Ferenczi, e in secondo luogo a psicoanalisti eterodossi, ma di grande valore, come Carl Gustav Jung.

Partiamo proprio da Freud, il quale in tutti i suoi scritti non si rivolgeva alla comunità degli psicoanalisti, e tanto meno a una fazione della comunità. Il lettore a cui Freud destinava i suoi scritti era costituito dalla comunità degli esseri  umani nella sua interezza. Certo, vi sono opere freudiane a dir poco ardue, e penso in particolare all’Introduzione al narcisismo  (1914) e all’Io e l’Es (1922). Ma in questi due casi, come pure in altri e mi viene in mente soprattutto  Al di là del principio di  piacere (1920), le difficoltà per il lettore non scaturiscono dalla scelta di adoperare uno stile espositivo volutamente criptico, ma piuttosto dalla natura al tempo stesso sperimentale e altamente speculativa dei problemi con i quali Freud andava cimentandosi senza requie, sospinto dalla sua indomabile pulsione verso il conoscere.

Per cogliere pienamente la vocazione freudiana di scrittore universale, il lettore è invitato a leggere la prima serie di lezioni dell’Introduzione alla psicoanalisi, 1915-17. In questo scritto, Freud non palesa la propria creatività, non ce n’era davvero più bisogno, mostra piuttosto di possedere il talento, davvero raro, specialmente da noi in Italia, di saper divulgare le idee scientifiche che era andato creando, senza minimamente banalizzarle o semplificarle.

Ma il lettore rilegga anche i due ultimi capolavori di Freud, scritti nel 1937, a due anni dalla morte e in piena e inarrestabile malattia: Analisi terminabile e interminabile e Costruzioni in analisi (1937). Questi due saggi tanto brevi quanto intensi e profondi non hanno per nulla un carattere divulgativo, anzi sono probabilmente l’estremo tentativo che Freud espresse per rendere ragione di due importanti problemi  psicoanalitici, che noi oggi senz’ombra di dubbio classificheremmo come epistemologici: quando e in quali condizioni è opportuno chiudere un trattamento psicoanalitico? Come comportarsi di fronte alle reazioni  del paziente alle nostre interpretazioni, o piuttosto  alle nostri costruzioni?

Da Costruzioni in analisi vorrei citare il brano iniziale che dimostra quanto Freud, pur non dandolo a vedere, fosse consapevole delle problematiche epistemologiche insite nella psicoanalisi.

“Un degnissimo studioso[1], cui ho sempre attribuito il merito di aver reso giustizia alla psicoanalisi in un’epoca in cui la maggior parte degli altri studiosi si sottraevano a quest’obbligo, ha espresso però una volta, nei confronti della nostra tecnica analitica, un’opinione che è parimenti oltraggiosa e ingiusta. Egli ha detto che quando prospettiamo a un paziente le nostre interpretazioni, ci comportiamo con lui secondo il famigerato principio: Heads I win, tails you lose [testa vinco io, croce perdi tu]. E’ come dire che se il paziente è d’accordo con noi, va tutto bene; e se invece ci contraddice, essendo questo solo un segno della sua resistenza, ci dà ragione lo stesso. In questa maniera riusciamo sempre ad averla vinta” (Freud, 1937, p. 54).

Abbiamo prima accennato al valore non solo psicoanalitico ma anche epistemologico di questo saggio. Il motivo è che in esso si trova inclusa una confutazione ante litteram della celeberrima e distruttiva critica della rilevanza scientifica della psicoanalisi a opera di Karl Popper, il grande filosofo della scienza. Questi in un saggio pubblicato originariamente nel 1957 scrisse quanto segue:

 

“L’elemento più caratteristico [della psicoanalisi e di altre discipline pseudoscientifiche come per esempio il marxismo, NDR] mi parve il flusso incessante delle conferme, delle osservazioni che ‘verificavano’ la teoria in questione; e proprio questo punto viene costantemente sottolineato dai loro seguaci” (Popper, 1972, p. 64).

 

La comprensione di questo brano richiede un breve ma essenziale accenno alle teorie epistemologiche di Popper. In opposizione alla teoria neopositivista della verificazione, Popper  elaborò la teoria della falsificazione. Una teoria scientifica è attendibile non già in quanto ha ricevuto un alto numero di verifiche, magari anche un numero rilevante sotto il profilo statistico. No, secondo Popper, una teoria è scientificamente attendibile se, almeno e soprattutto, in linea ideale, è falsificabile; vale a dire se esistono situazioni reali o immaginabili di fronte alle quali la teoria risulta falsa. A parte la logica e la matematica, le teorie che si dimostrano sempre e necessariamente vere non assurgono al rango della scienza. La scientificità presuppone la possibilità di esporsi e soccombere all’errore. In caso contrario si tratta di teorie pseudoscientifiche. E Popper includeva la psicoanalisi appunto tra le teorie pseudoscientifiche.

La scienza autentica e rigorosa non deve cercare dovunque e sempre verifiche, conferme, deve al contrario esporsi coraggiosamente alla ricerca di possibili errori, di possibili falsificazioni. Come accadde per la teoria della relatività generale di Einstein, la quale nel 1919 fu messa coraggiosamente alla prova dall’astrofisico Arthur Eddington durante un’eclissi totale di sole: il risultato fu che la teoria della relatività generale si dimostrò non già vera una volta per sempre, ma piuttosto ancor più affidabile in quanto teoria scientifica.

Ora, quanto alla psicoanalisi, la contestazione è precisamente quella avanzata qualche decennio prima dal degno e ignoto amico di Freud: “Testa vinco io, croce perdi tu”. La psicoanalisi trova ovunque conferme delle proprie teorie. Ergo, a parere di Popper, non assurge alla dignità della scienza, la cui essenza presuppone la ricerca di errori piuttosto che di innumerevoli conferme.

Esattamente venti anni prima che Popper scrivesse il suo saggio contro la psicoanalisi, Freud con grande eleganza respingeva la critica entrando strettamente nel merito del problema, cogliendo inoltre l’aspetto fruttuoso della critica popperiana. Uno psicoanalista, che non vuole o non sa fare bene il proprio mestiere si trova effettivamente nelle condizioni di avere sempre ragione. “Se tu, paziente, dici sì, va bene, se dici no, va bene ugualmente perché stai erigendo una resistenza contro il mio faticoso tentativo di esplorare il tuo inconscio”.

Molti anni prima che la teoria falsificazionista venisse formulata da Popper, Freud, in rapporto alla psicoanalisi,  la respinse dunque con estrema finezza. Mette conto tuttavia di osservare che Popper non aveva però del tutto torto nel sottolineare che l’atteggiamento più proprio dello scienziato non deve consistere nel cercare pervicacemente verifiche e conferme alla teorie nelle quali crede;  l’attitudine corretta e più proficua deve essere quella di esporre coraggiosamente la teoria alla possibilità di essere falsificata.

Io credo che, seppure in un contesto completamente diverso, queste preoccupazioni di Popper si applichino pienamente anche alla psicoanalisi o alla psicoterapia di indirizzo analitico. Terapeuti che non hanno imparato per bene il loro mestiere, magari perché eccessivamente narcisisti, possono essere tentati inconsciamente di applicare il famigerato trucchetto del “testa vinco io, croce, perdi tu”.  Pensiamo per esempio a un sogno molto complesso nel quale a un certo punto compare grazie a una zia, un cane magico che aiuta il paziente dentro al sogno a cavarsi dai guai. Un terapeuta non ben formato, associando lui stesso in luogo del paziente, potrebbe dire qualcosa del genere: “Quel cane magico rappresenta sicuramente la sua parte irrazionale alla quale lei si affida, quando sta male, nell’attesa di un miracolo”. Un paziente con un minimo di solidità potrebbe replicare: “Non mi sembra, dottore, che sia questo il significato”.  E in tal modo, secondo la dottrina di Freud, si apre ex novo il lavoro di interpretazione e costruzione, un lavoro il quale, va da sé, impegna ambedue i membri della coppia.

Se il paziente è solido le cose possono andare così, cioè bene. Un paziente meno solido, o che appartenga a una ben nota tipologia di pazienti, potrebbe al contrario  stare felicemente al gioco e dire: “È vero, è proprio così”. Se da un lato pertanto Popper ha fatto un torto alla psicoanalisi, da un altro lato ha colto in profondità una possibile degenerazione del lavoro analitico.

Torniamo ora al nostro argomento:  la trasmissione generazionale delle conoscenze psicoanalitiche. Ho fatto prima riferimento, pensando alla prima generazione di psicoanalisti, a Gustav Jung, della cui opera, a dir il vero,  non ho una conoscenza sufficientemente approfondita. Nondimeno con Jung mi capita sempre questa esperienza: ogni volta che mi accade di leggere qualche suo testo o anche solo un brano di un suo testo, non solo resto colpito dalla profondità del suo pensiero e della sua erudizione, ma vengo anche e soprattutto colpito dalla chiarezza, dal nitore del suo stile letterario.    

Anche laddove la sua riflessione vira verso la dimensione dell’irrazionale, almeno a mio parere, la sua scrittura rimane ferma e lucida. Jung, non meno di Freud, si rivolgeva nei suoi scritti a ogni lettore, alla comunità universale dei lettori.

Ed è questa, da Freud, da Jung, fino ad Abraham, Ferenczi, Balint, Anna Freud, e tanti altri, la prima fase di trasmissione del sapere analitico. Ho osservato in precedenza che la questione della trasmissione della psicoanalisi concerne esclusivamente la teoria e la tecnica. Cercherò brevemente di spiegare perché escludo dal discorso  il punto di vista clinico.  Lo spunto, che fu per me illuminante, lo devo a Donald Winnicott. Questi, nel celebre saggio, L’odio nel controtransfert del 1947, scrive quanto segue – e il lettore potrà anche apprezzare e magari giovarsi dalla bella classificazione delle tipologie del controtransfert:

 

“Si possono classificare  i fenomeni di controtransfert come segue:

1)            L’anormalità nel controtransfert dei sentimenti, delle relazioni e delle identificazioni stabilite che sono state rimosse dall’analista. Si può dire a questo proposito che l’analista ha bisogno di riprendere la sua analisi personale, un problema che ci sembra riguardare più gli psicoterapeuti in generale che gli psicoanalisti.

2)            Le identificazioni e le tendenze collegate con le esperienze personali dell’analista e con il suo sviluppo personale, che forniscono la situazione positiva per il suo lavoro analitico e rendono il suo intervento diverso qualitativamente da quello di qualsiasi altro analista.

3)            Dalle due precedenti categorie distinguo il controtransfert autenticamente oggettivo,  o, se questo è difficile, l’amore e l’odio dell’analista oggettivamente osservabili, in relazione alla personalità ed ai comportamenti effettivi del paziente” (Winnicott, 1991, p. 235).

 

 Il punto che ci interessa è il secondo che troviamo tanto profondo quanto in pari tempo ovvio, autoevidente; lo esprimeremmo a parole nostre in questi termini: come ogni essere umano è diverso da ogni altro, allo stesso modo ogni terapeuta è diverso da chiunque altro.  Il corpo, il volto, la voce, le posture, lo stile comunicativo, il sorriso, la maniera di essere preoccupato e di comunicarlo al paziente, tutto ciò insieme a innumerevoli altri fattori costituiscono la sua qualità personale, il suo modo unico, assolutamente irripetibile di stare al mondo e per ciò stesso la sua maniera di stare di fronte o accanto al paziente. Tutto ciò ha a che vedere, ci pare evidente, con la posizione e l’azione clinica, che pertanto restano in qualche modo ineffabili, e comunque di certo estranei al discorso sulla trasmissione del sapere e del fare psicoanalitico. Certo, lo studio,  l’analisi personale e le supervisioni possono modificare la qualità personale dell’analista. Io per esempio chiudo la seduta dicendo, “Bene”, come appunto faceva a suo tempo il mio analista. Davvero non riesco a fare altrimenti, nonostante qualche goffo tentativo, tipo: “Beh, il nostro tempo è finito”. Tuttavia credo che l’influenza della propria analisi e della formazione in generale, per quanto rilevanti, possono soltanto scalfire in superficie la qualità personale del terapeuta e con essa il suo stile clinico.

Non vorrei essere frainteso: non sto dicendo che il trattamento psicoanalitico non possa modificare anche profondamente la mente e l’inconscio del paziente. Sicuramente la mia analisi personale ha comportato importanti cambiamenti, certo non tutti quelli che retrospettivamente  posso dire di aver desiderato. L’analisi pertanto mi ha cambiato in meglio. Non ha modificato, come, credo, nessuna analisi potrebbe fare, la mia qualità personale, il mio concreto essere nel mondo, tanto per citare un po’ goffamente Martin Heidegger.

Una precisazione: il concetto di qualità personale che ho derivato da Winnicott  va nettamente differenziato dal concetto di personalità, comunemente inteso in ambito psicopatologico e psicologico generale. Molte persone possono avere la stesso tipo di personalità ovvero lo stesso tipo di disturbo di personalità. Tra gli esseri umani possono esservi sia somiglianze di tratti caratteriali ovvero somiglianze più indefinite e sfuggenti che possiamo riferire al concetto wttgensteiniano di  somiglianza o area di famiglia. Precisamente da queste tipologie di somiglianze sono nati nel tempo  i concetti di personalità e di disturbo di personalità.

I concetti di personalità o di disturbo di personalità si applicano  dunque a una classe di individui. La qualità personale è al contrario assolutamente unica, irripetibile, e ciò a priori come parlassimo delle impronte digitali o del DNA. La qualità personale concerne l’essere nel mondo della persona, di conseguenza si espande sui membri della coppia di ogni relazione clinica.

 Torniamo adesso al tema del presente scritto: le modalità di trasmissione generazionale del sapere psicoanalitico. Abbiamo finora descritto la prima delle tre fasi che, a nostro parere, si sono succedute nella storia della psicoanalisi fino ai giorni nostri. La prima fase è caratterizzata sostanzialmente dal seguente carattere comunicativo: lo psicoanalista, che sia Freud, Jung, Ferenczi o Abraham, non si rivolge alla comunità degli psicoanalisti, tanto meno a una fazione di tale comunità, si rivolge invece alla comunità universale dei lettori, ovvero a tutte le persone dotate della capacità di leggere e comprendere. La psicoanalisi fino a questo momento non è ancora una scienza specialistica. In breve tempo però lo diventerà in maniera rilevante. E se questa evoluzione abbia giovato oppure abbia danneggiato la psicoanalisi, è una domanda a cui io non so rispondere, anzi forse è una domanda priva di senso compiuto. Ma stiamo a vedere.

La svolta ha luogo con l’opera pur magistrale di Melanie Klein, e si esaspera ulteriormente con le opere dei suoi principali allievi, Donald Winnicott e Wilfred Bion – ambedue allievi ambiziosi e geniali che ben presto, dopo i rapporti con la Klein (analisi personale con Bion, supervisioni con Winnicott), andarono per la propria strada spinti da una creatività intensa quanto ricca.

Per introdurre i caratteri di questa nuova fase farò esclusivamente riferimento a Bion, al Bion della maturità, e in particolare all’opera  che considero il suo capolavoro, Apprendere dall’esperienza. La comunicazione letteraria in psicoanalisi diventa a partire da Melanie Klein, e poi dai suoi allievi indecifrabile, o meglio criptica, per comprenderla non basta una buona cultura filosofica, psicoanalitico classica o psichiatrica. Per comprenderla occorre possedere il codice di decriptazione. E chi mai possiede questo codice?, stiamo a vedere. Ma per dare subito un’idea di quanto sto dicendo, citerò l’incipit del quarto capitolo di Apprendere dall’esperienza, un inizio peraltro decisamente importante nell’economia dell’opera giacché vi si introducono i temi dello Schermo degli elementi Beta e con esso il tema della psicosi. Metterò in nota il testo inglese affinché il lettore possa rendersi conto che la traduzione è assolutamente ineccepibile. Leggiamo.

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“L’esperienza emotiva va adesso esaminata in generale e non soltanto per come si presenta nel sonno. Ciò che ho detto fin qui può anche essere riassunto e sottolineato capovolgendo una popolare credenza sull’incubo: si soleva un tempo dire che uno aveva avuto gli incubi perché aveva fatto indigestione e che per questo si svegliava in preda al panico. La mia versione dei fatti è viceversa la seguente: il tale paziente che dorme è in preda al panico:  poiché non è capace di avere un incubo, non può né svegliarsi né addormentarsi; da quel momento, egli ha sofferto di un’indigestione mentale” (Bion, 1994, p. 31).[2]

Prima di vedere come se la cavavano i colleghi e allievi di Bion di fronte a testi come quello citato, che francamente non è per nulla dei più ostici, vien fatto di domandarsi che  cosa sia accaduto nella psicoanalisi per indurre gli autori più significativi a trincerarsi dietro un linguaggio che esige un codice interpretativo. Una prima risposta che mi pare inoppugnabile risiede nella scomparsa di Freud che in qualche modo garantiva sia l’ortodossia dottrinale sia e soprattutto il bisogno di farsi capire da chiunque, che fosse analista o no.

Tuttavia debbono esservi di sicuro altre ragioni forse più profonde. Ma prima di affrontare questo arduo problema, mettiamoci nei panni di uno studente di Psicologia che sta preparando l’esame di Psicologia dinamica e che si trova a leggere la frase di Bion che abbiamo citato. Se lo studente ha una personalità tendenzialmente narcisistica troverà da solo una spiegazione che lo convincerà pienamente. Se è più sano, cos’altro potrà restargli da fare se non andare dal prof e dirgli: ”Embè che vuol dire questo”? E il professore che nella circostanza incarna in tutto e per tutto  il rappresentate e l’interprete di Bion, gli fornirà, posto che sia sufficientemente capace di leggere e capire effettivamente le riflessioni bioniane, la spiegazione corretta e, a dir il vero, davvero profonda per chi desideri veramente comprendere cosa sia la schizofrenia e come possa manifestarsi nella relazione clinica.

Ma lasciamo ora il mondo dell’università, di studenti e professori, e transitiamo nella sfera affatto diversa di colleghi psicoanalisti e di allievi in formazione.

A proposito della difficoltà di leggere Bion, Gaburri e Ferro ebbero a scrivere, in un’occasione assai prestigiosa,  non molti anni or sono, quel che segue.

“Ci pare importante ricordare, come premessa, la difficoltà di offrire dell’opera di Bion, un quadro sistematico e obiettivo. Ciò ci sembra intrinseco alla natura stessa degli argomenti trattati oltre che alla modalità espositiva di questo autore. Esporremo, quindi, pur cercando di dare il massimo di obiettività, le idee che ci siamo fatti di Bion, confortati dal fatto che anche Meltzer confessa di trovarsi nella stessa situazione: «Nell’opera di Bion non si trovano idee strutturate in modo da formare una unità, ognuno deve fare da solo. Ne deriva che le idee che ognuno si fa delle idee di Bion sono qualcosa di diverso dalle sue»” (Gaburri, Ferro, 1988, p. 318, nota).

In verità Meltzer nello stesso testo citato da Gaburri e Ferro, riferendosi a Gli elementi della psicoanalisi (1962) scrive anche questo con la gradevole ironia che gli era propria: “A causa della difficoltà di questo libro è impossibile, se non ci si consulta personalmente con Bion (cosa che alla fine bisogna fare) essere sicuri dei molti apparenti errori di stampa (questo libro deve essere stato assolutamente incomprensibile per il povero correttore di bozze)” (Meltzer, 1998, p. 78).

 

Un grande psicoanalista come Donald Meltzer ci dice in sostanza che per capire Bion occorre alla fin fine procedere come lo studente universitario: questi, speranzoso, chiedeva lumi al professore; Meltzer  poteva alzarsi, avvicinarsi a Bion e chiedergli: ”Wilfred per favore ma questo [poniamo la preconcezione] cosa significa mi fai magari un esempio”

 

Insomma, a partire da Melanie Klein e in seguito coi suoi allievi, per lo più ribelli piuttosto che ortodossi, le modalità e i canali stessi della trasmissione del sapere psicoanalitico mutano in maniera veramente profonda.  Riassumiamo il punto della questione che ritengo centrale.

 

Ai tempi di Freud, di Jung e  comunque delle prime generazioni psicoanalitiche, la trasmissione sia del sapere teorico sia del sapere tecnico avveniva anzitutto e in primo  luogo attraverso la lettura di libri e articoli sulla psicoanalisi.  Non ci sembra un caso a tale proposito che Freud vietava ai propri pazienti di leggere libri di psicoanalisi. La mia opinione su questo punto è che Freud temesse che la lettura di opere psicoanalitiche impedisse o corrompesse  lo sviluppo di un transfert autentico, spontaneo e soprattutto non condizionato da fattori esterni al settng analitico.[3]

 

Fatto sta che a partire dalla Klein, la trasmissione sia del sapere analitico sia del saper fare avviene essenzialmente per via orale – mediante l’analisi personale, le supervisioni, le comunicazioni personali, le conferenze - e solo in seconda istanza attraverso la lettura di articoli e libri. Questa mi sembra francamente una trasformazione epocale nella storia della psicoanalisi.

 

Tutto ciò si può anche esprimere in questi termini: la psicoanalisi che ancora si ispira Freud a partire dagli anni cinquanta e sessanta si spezzetta in fazioni altamente elitarie e, per così dire, l’un contro l’altra armate. – E deliberatamente non faremo cenno in questa sede a psicoanalisti per me illeggibili ma dalla possente  ed enigmatica creatività come Jaques Lacan e Ignacio Matte Blanco.

 

Dunque, quali fattori indussero gli piscoanalisti del secondo dopoguerra dal sentirsi talmente accerchiati dal mondo esterno, da porre in atto una reazione di chiusura e un atteggiamento di difesa quasi militare. Come dire: chi crede in me, possederà la chiave di volta per accedere ai miei sublimi pensieri psicoanalitici, chi non si sottopone vada pure liberamente per la sua tanto dissestata e improbabile strada.

 

Ora un primo fattore lo abbiamo individuato nella morte di Freud, nella sua uscita di scena dall’arena della psicoanalisi che rimaneva destituita della sua divinità fondatrice. Il dio o semidio di fronte al quale inginocchiarsi, nell’attesa dei suoi favori, non c’è più, e questo vuol forse dire che mai c’è stato. Ora siamo liberi, almeno in parte, o piuttosto ci illudiamo di esserlo  – giacché, a quanto pare, tutti gli scritti psicoanalitici che si allontanano o perfino giungono a confutare  definitivamente le dottrine freudiane, hanno una prima parte nella quale si dà atto a Freud di essere pur sempre all’origine delle idee che vengono illustrate e che per lo più nulla ormai hanno a che fare col pensiero di Freud. Non so francamente decidere tra queste due diverse interpretazioni dell’autorità di Freud in articoli che pure si allontanano anni luce dal suo pensiero originario: si tratta di autentica devozione ovvero di mere questioni di calcolo in seno alle ormai innumerevoli società o associazioni psicoanalitiche.

 

Ritengo che siano due i fattori ulteriori che hanno condotto la psicoanalisi a barricarsi e a dividersi in fazioni  acutamente contrapposte.  Il primo dei due fattori consiste semplicemente nel fatto che nella seconda metà del Novecento la psicoanalisi è ormai ben lungi dall’essere l’unica forma di trattamento psicologico dei disturbi mentali. Anche se tutti gli orientamenti psicoterapeutici che cominciano in questi anni ad affermarsi, dal cognitivismo clinico, alla teoria sistemico-familiare, fino all’orientamento gestaltico, trassero origine in ultima istanza dalla psicoanalisi di Freud – e se no da dove? – andarono tutti pian piano a configurare una situazione di accerchiamento e di attacco. E come difendersi dall’accerchiamento offensivo, se non rendendo sempre più specialistica, più raffinata la teoria e la tecnica psicoanalitica? Per la prima volta la psicoanalisi è chiamata a difendersi sul suo stesso terreno, il terreno che la psicoanalisi medesima ha arato per la prima volta nella storia della civiltà e della scienza.

 

Il secondo fattore è altrettanto rilevante, e anzi lo è forse ancor di più: pensiamo all’avvento degli psicofarmaci nel corso degli anni Cinquanta. Nel bene e nel male, ma soprattutto nel bene ovviamente, gli psicofarmaci hanno modificato profondamente il volto della psichiatria, della psicoterapia e della psicoanalisi. Nel giro di un decennio e in parte casualmente vengono sintetizzate le prime molecole antidepressive, antipsicotiche (neurolettici) e  ansiolitiche (benzodiazepine). Negli anni seguenti tutto diventerà più raffinato e solido, si pensi solo al passaggio dagli antidepressivi triciclici ai serotoninergici, e anche alla sintesi degli stabilizzanti dell’umore.

 

Ora, io non ho vissuto quegli anni, ma mi sono fatto con buona cognizione di causa l’opinione che gli psicoanalisti (medici o meno) e tutti gli psicologi di indirizzo psicoanalitico, vedessero nei farmaci un’entità nemica della psicoanalisi, un attacco alla psicoanalisi, come forse ai giorni nostri potrebbe valere per alcune posizioni delle neuroscienze. Fatta eccezione naturalmente per le psicosi conclamate, e in primo luogo per la schizofrenia, lo psicofarmaco tendeva a essere visto come un fattore di impurità del trattamento analitico, come una macchia che ostacola l’esplorazione dell’inconscio.

Da tutto questo scaturiva la necessità assolutamente vitale di mettere a punto medicine psicoanalitiche sempre più specifiche e fini: l’interpretazione anzitutto, che tuttavia si avviava lentamente verso un tormentato declino, e poi soprattutto il contenimento e l’accoglimento della sofferenza del paziente. Ma affinché tutto questo non dia luogo a un discorso e a una pratica terapeutica debole, condannata all’estinzione, diventava sempre più decisivo il fattore della cripticità, e con esso della trasmissione verbale e non più libresca del sapere psicoanalitico. 

Il nostro argomento è dunque la trasmissione della teoria e della tecnica psicoanalitica da maestro a allevi. Abbiamo individuato finora due fasi radicalmente  diverse. La prima fase appartiene alle prime generazioni di psicoanalisti, a cominciare, va da sé, da Sigmund Freud. La modalità principale di trasmissione generazionale delle conoscenze e competenze psicoanalitiche è in primo luogo la lettura dei testi di Freud, e solo in secondo luogo l’analisi personale. Freud, Jung e tanti altri sono scrittori scientifici universali. I loro testi, le loro parole sono destinate a ogni lettore.

La seconda fase, profondamente diversa, è caratterizzata dal seguente elemento: l’ascoltatore o il lettore può comprendere e giovarsi delle parole del maestro solo se appartiene alla sua  fazione o orientamento. Abbiamo osservato che questo radicale cambiamento del modo di trasmettere le conoscenze sia da un lato  dipeso dal proliferare di indirizzi psicoterapeutici non psicoanalitici, dall’altro e soprattutto dall’introduzione in psichiatria nel corso degli anni Cinquanta delle principali tipologie di psicofarmaci.

Consideriamo ora la terza fase decisamente più semplice  e nitida in apparenza, ma saranno gli psicoanalisti e gli storici del futuro a poter esprimere una valutazione storiografica  attendibile. Voi lettori e io stesso che vi scrivo ci stiamo dentro, la stiamo vivendo, questa terza fase, e non siamo pertanto in possesso della giusta distanza storica per formulare giudizi razionali, come invece, crediamo, abbiamo avuto modo di fare illustrando le prime due fasi.

Quanto segue è pertanto il risultato di valutazioni soggettive precise, precise per l’appunto unicamente sul piano soggettivo, ma lungi dall’essere attendibili sotto il profilo oggettivo. Per affrontare la questione delle modalità della trasmissione del sapere psicoanalitico, dobbiamo con un pizzico di audacia provare a rappresentare in tratti brevi ed essenziali la situazione che la psicoanalisi sta vivendo attualmente, nelle sue molteplici varianti

Trovo difficoltà perfino a localizzare nel tempo l’esordio di questa terza fase.  Approssimativamente tenderei a collocarla tra gli anni Ottanta e Novanta. La seconda fase, caratterizzata in sostanza da una chiusura in splendido isolamento da ogni altro approccio alla malattia mentale si dimostra col passare degli anni perdente in maniera grave. I medesimi fattori che avevano condotto la psicoanalisi verso una chiusura che assumeva davvero talvolta tratti psicotici o perfino autistici – la proliferazione di terapie rivali spesso assai efficaci e soprattutto la disponibilità di psicofarmaci sempre più mirati, sempre più efficaci e meno dannosi – ha spinto in tutto il mondo la comunità psicoanalitica a questo enigma vitale: se vogliamo sopravvivere dobbiamo rinunciare al nostro splendido isolamento, dobbiamo umilmente scendere piano piano dalla torre eburnea.

Il che significava davvero un profondo cambiamento culturale: dobbiamo confrontarci e magari allearci con orientamenti rivali, dobbiamo far cadere ogni pregiudizio nei confronti dei vertiginosi sviluppi della psicofarmacologia e in seguito delle ricerche neuroscientifiche, delle visualizzazioni cerebrali? La scommessa per nulla facile a cui la psicoanalisi sta  oggi andando incontro è questa:  poter conservare la propria identità scientifica e soprattutto tecnica aprendosi al tempo stesso a un mondo della salute mentale che sta cambiando rapidamente sotto tutti i punti di vista: scientifico, sociale e politico.

Descrivere e soprattutto riflettere sulla terza fase è alquanto arduo, in quanto, come già abbiamo avuto modo di osservare, è la fase che stiamo vivendo ora e in rapporto alla quale ci viene a mancare del tutto la giusta distanza storica.

Prendiamo le mosse da una congettura, che mi pare tuttavia alquanto attendibile, sulla situazione che la psicoanalisi sta vivendo attualmente in Italia e quasi in tutto il mondo. Ritengo che oggi esistano due ben distinte direzioni di ricerca. La prima direzione, in verità minoritaria, desidera restare fedele al  pensiero di Freud, arricchendo sempre più la psicoanalisi dall’interno. Al tempo stesso, nel primo orientamento assistiamo ai seguenti fenomeni: ritorno a un linguaggio non enigmatico, o almeno non deliberatamente ed esasperatamente enigmatico, interesse per ciò che accade nelle altre scienze e negli altri orientamenti psicoterapeutici. Non già per attivare ‘improbabili’ alleanze, ma per il semplice e fondamentale dovere scientifico dell’aggiornamento. Il carattere peculiare di questo primo orientamento resta comunque la convinzione che la psicoanalisi deve conservare la propria autonomia nel quadro della teoria e della tecnica psicoterapeutica, sforzandosi di rinnovare sempre di più il proprio patrimonio conoscitivo e operativo.

Per non annoiare il lettore e me medesimo, non farò i nomi dei numerosi protagonisti di questa terza fase, molti dei quali italiani, mi limiterò a rammentare tre concetti psicoanalitici assolutamente originali elaborati in questa terza fase.

Il concetto di Secondo sguardo elaborato dai coniugi Baranger.

Il concetto di terzo analitico intersoggettivo, che dobbiamo a Thomas Ogden.   

Il concetto di narcisismo di morte (morte del desiderio)  che è frutto del pensiero di André Green.

 

Questi tre concetti o teorie rappresentano. a mio parere, e anzitutto per quanto riguarda il mio lavoro clinico, un reale, obiettivo e profondo arricchimento del sapere psicoanalitico. Mi fanno capire meglio e lavorare meglio. Questi tre concetti, ma sicuramente se ne potrebbero enumerare molti altri, costituiscono senza dubbio un’evoluzione del sapere, e anzi preferirei dire della sapienza psicoanalitica.

È assolutamente fondamentale osservare, per afferrare lo spirito della nostra terza fase, che queste e tante altre riflessioni psicoanalitiche del nostro tempo si svolgono all’insegna di una sempre più intensa attitudine pragmatista. Il dogmatismo di un tempo si è dissolto o almeno di molto attenuato. Più che un’evidenza scientifica, questo è piuttosto il mio ponderato desiderio.

A differenza della prima direzione di ricerca, il cui elemento essenziale consiste nella difesa non più dogmatica della specificità della psicoanalisi in quanto tale, si sono fatte avanti negli ultimi decenni e soprattutto negli ultimi anni innumerevoli tentativi di intrecciare un’alleanza con orientamenti di pensiero diversi dalla psicoanalisi.  Concludo limitandomi ad accennare alle alleanze che, a mio parere, maggiormente hanno dato o daranno buoni frutti per la cura. Penso al rapporto tra psicoanalisi e cognitivismo, sia teorico sia clinico.

Ma l’avvicinamento più inaspettato e fecondo, probabilmente, è con le neuroscienze. La scoperta straordinaria dei neuroni specchio, i quali nell’uomo sono diffusi in molteplici aree della corteccia cerebrale, comprese le aree linguistiche, ha eccitato il pensiero e forse anche la fantasia di eminenti psicoanalisti. Si sono avanzate congetture sull’empatia e perfino sull’autismo. La psicoanalisi può procedere in questo modo, non essendo una scienza empirica ma semplicemente una pratica clinica e forse una filosofia occulta.

Il significato rigorosamente scientifico dei neuroni specchio affiorerà faticosamente solo tra molti decenni. E beato chi potrà fruirne.

 

 

 

 

Riferimenti bibliografici

 

Bion W.R. (1962), Learning from Experience,  Karnac, Londra, New York 2005.

Bion W.R. (1962), Apprende dall’esperienza, Armando, Roma 1994.

Freud S. (1915-17), Introduzione alla psicoanalisi, prima serie di lezioni, O SF, vol. 8.

Freud S. (1914), Introduzione al narcisismo, OSF, vol. 7.

Freud S. (1920), Al di là del principio di piacere, OSF, vol. 9.

Freud S. (1922), L’Io e l’Es, OSF, vol. 9.

Freud S. (1937), Analisi terminabile e interminabile, OSF, vol. 11.

Freud S. (1937), Costruzioni in analisi, OSF, vol. 11.

Gaburri E., Ferro A.,  (1988), Gli sviluppi kleiniani e Bion, In Semi A.A., Trattato di psicoanalisi,  Vol. 1, Teoria e tecnica, Cortina, Milano.

Meltzer D (1978), Il processo kleiniano, vol. 3, Significato clinico dell’opera di Bion, Borla, Roma 1998.

Ogden T.H. (1991), La identificazione proiettiva e la tecnica della psicoanalisi, Atrolabio, Roma 1994.

Popper K.  (!957), Scienza, congettura e confutazione, in Congetture e confutazioni, Il Mulino, Bologna 1972.

Vegetti Finzi S., a cura, (1992), Psicoanalisi al femminile, Bari, Laterza.

Winnicott D.W. (1947), L’odio nel controtransfert, in Dalla pediatria alla psicoanalisi, Martinelli, Firenze 1991.



[1] L’identità di questo  degnissimo studioso non è, a quanto pare, rintracciabile. Che si tratti di un’invenzione letteraria che svolge una funzione euristica, che dà cioè avvio a una riflessione su un tema rimasto in sospeso? Non lo escludo,  ma non possiedo evidenze o argomenti che vadano in questa direzione.

[2] “The emotional expeirience must now be considereded generally and not only as it occurs in sleep. I shall emphasize what I have said so far by re-writing a popular theory of the nightmare. It used once to be said ad a nightmare because he had indigestion and that is why he woke un in panic. My versioni is: The sleeping patient is panicked; because he cannot have a nightmere he cannot wake up or go to sleep; he had  mental indigestion ever since” (Bion, 2005, p. 8).   

[3] Resterà per me per sempre un mistero assai stimolante capire come sia stato possibile che Freud, pur avendo del transfert una concezione precisa e geniale, e a ben vedere ancora attuale, abbia potuto prendere in cura analitica la figlia Anna. Che fosse una banale questione di denaro? L’Austria e la Germania se la passavano davvero male in quegli anni, e le analisi fatte in casa (Cf. Vegetti Finzi 1992).  potevano essere davvero una manna dal cielo. Se poi a ciò aggiungiamo la convinzione narcisistica di Freud di poter violare, lui solo, unicamente lui il padre della psicoanalisi, le sue stesse controindicazioni relative alla spontaneità del transfert approdiamo a una soluzione abbastanza ragionevole e che tuttavia ancora non mi riesce a convincere veramente.

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