Avvio questa mia riflessione a partire dal concetto di “paradigma”, introdotto nella comunità scientifica da Kuhn. Ciò che è più interessante di tale concetto è la segnalazione che in un “paradigma”, cioè in un sistema di pensiero inerente una o più branche della scienza, diventato dominante nella comunità scientifica e poi nel senso comune (ad esempio il paradigma copernicano oppure quello evoluzionistico), si annidano macchie cieche, punti oscuri o elementi di contraddizione, che rivelano la natura sempre provvisoria del pensare scientifico, le cui sintesi portano a sistemi di pensiero comunque a loro volta provvisori e quindi destinati ad essere sostituiti, prima o poi, da altri sistemi, capaci di generare a loro volta, nuovi paradigmi.
Possiamo certamente parlare di “paradigma relazionale” per quanto concerne la psicoanalisi contemporanea e quindi possiamo pensare che anche in tale paradigma, pur così incontestabilmente dominante, siano presenti macchie cieche. Di qui la necessità, per il pensare psicoanalitico così intrinsecamente orientato alla complessità ed al “sospetto”, di guardarsi dal rischio di una adesione acritica, o addirittura ideologica, al paradigma relazionale oggi dominante. In che termini potremmo definire ciò che caratterizza tale paradigma? Viene in esso sottolineato e ribadito il superamento, già in atto nella psicoanalisi contemporanea da tempo, del modello pulsionale e dell’innegabile pansessualismo della psicoanalisi delle origini. Ma c’è soprattutto il superamento di un modello epistemologico a cui Freud e la psicoanalisi della prima metà del Novecento, aderivano fideisticamente: il modello cioè della cosiddetta “psicologia monopersonale”, per la quale nella situazione analitica c’è una sola “persona”, il paziente, presente sulla scena nell’interezza della sua vita interna, mentre lo psicoanalista è presente solo, grazie all’”atteggiamento analitico”, come schermo e come interprete, e non a sua volta come soggetto “personale”. Si tratta, come ormai chiunque e da tempo sostiene, di una grande illusione impossibile e insostenibile, giacché è apparso sempre più evidente che lo psicoanalista influenza potentemente e in più modi la situazione interpersonale e intrapsichica del paziente, oltre ad esserne, ovviamente, potentemente influenzato sul pianodel proprio mondo interno e quindi ben al di là della sua “funzione” analitica. Tant’è che al concetto di “controtransfert” (anni Cinquanta) si è più recentemente aggiunto il concetto di “transfert” dello psicoterapeuta! (Donadio….). Tale concetto va ben al di là del concetto di controtransfert, anche nelle sue concettualizzazioni più estensive, e prevede l’inevitabilità di un investimento “transferale” (non “controtransferale”) sul paziente da parte dello psicoanalista.
La situazione paziente-psicoterapeuta è dunque intrinsecamente duale e interattiva e quindi impone la necessità di passare da una psicologia monopersonale ad una psicologia bipersonale non però orizzontale bensì asimmetrica, cioè basata su di una netta distinzione di ruoli e di funzioni tra i suoi due interlocutori.
Dalla constatazione inerente la inevitabilità e la centralità della relazione nella psicoterapia (sia essa psicoanalitica o altro, ma io qui mi occupo di psicoterapia psicoanalitica e della sua specificità) si è passati a dedurre da parte i molti che la relazione sia essa il fattore terapeutico centrale! Qui c’è un salto logico ed epistemologico, che rimanda ad una macchia cieca del paradigma relazionale. Cioè non si è dedotto solo che la psicoterapia psicoanalitica si svolge e si realizza come impresa terapeutica in uno scenario relazionale, e quindi inevitabilmente duale e interativo,constatazione incontestabile e centrale, ma si è dedotto che sia la relazione stessa, in quanto tale, ad essere terapeutica! Allora dobbiamo chiederci, ed è questo l’oggetto del mio scritto, di quale “relazione” si parli, e in che modo la relazione, questa relazione(cioè la relazione tra psicoterapeuta e paziente) sia fattore di cura. Ed ecco, sinteticamente, le mie tesi al riguardo.
1) La relazione è pre-condizione e non agente di per sé, e in quanto tale, del processo terapeutico.
2) La relazione non è neanche terapeutica in quanto “relazione buona” (di contro alle relazioni “cattive” del paziente). E ricordo, ad esempio, che nella psicoanalisi “tradizionale” si sosteneva che la relazione psicoterapeuta-paziente dovesse anche implicare un fattore di frustrazione ( e si parlava di “frustrazione ottimale”).
3) La relazione è terapeutica in quanto nuova, diversa, specifica ed inedita, rispetto alle relazioni comuni.
4) Più specificamente la relazione è terapeutica nella misura in cui si distingue e, per certi versi, contraddice le altre relazioni umane.
In che modo? Io credo che essa abbia e debba avere le seguenti caratteristiche:
- E’ una relazione governata e regolata da un setting e da un setting specifico, che è quello psicoanalitico.
- E’ una relazione in cui uno dei due attori, lo psicoterapeuta, esprime sé stesso (interventi, atteggiamenti, ecc) facendo passare, o meglio cercando di far passare la sua persona attraverso il ruolo (psicoterapeutico) e non direttamente o addirittura impulsivamente (lo psicoterapeuta di orientamento psicoanalitico, prima di parlare, riflette e valuta il possibile effetto delle sue parole e si sforza di mantenere un atteggiamento controllato, rappresentando in tal modo un oggetto stabile e sicuro; lo psicoterapeuta, empatizza e non simpatizza).
- Per il paziente il compito è ben diverso: esprimere direttamente e senza censure la propria persona e dar voce direttamente e senza censure al proprio mondo interno (“libere associazioni” ecc).
Grazie a tale asimmetria relazionale può costituirsi nella relazione col paziente sia come
oggetto transferale e come tale somministrare al paziente, quando se e come gli parrà clinicamentepiù opportuno, interventi interpretativi; sia come
oggetto reale e, in quanto tale come persona che inevitabilmente fuoriesce dal ruolo e concorre a determinarne le modalità di estrinsecazione. Tutto ciò avrà un effetto assai forte sul paziente e rappresenterà un terreno di esplorazione soprattutto nei termini del lavoro di confrontazione; sia come
oggetto nuovo (Loewald…) e come tale rappresentare anche per il paziente una figura relazionale di tipo nuovo che indirettamente rivela al paziente modi nuovi e inediti di essere nel mondo e nel rapporto con l’Altro. Una simile esperienza consente l’incontro con aspetti di Sé sconosciuti e una più piena consapevolezza dei conflitti interni al Sé e del loro riversarsi dentro la relazione con l’Altro. Di qui la possibilità di una elaborazione trasformativa che porti ad un “nuovo Sé”, più ampio e più consapevole ed ad un Io più forte e più capace di proteggere adeguatamente la persona del paziente nella sua vita.
La relazione psicoterapeutica ad orientamento psicoanalitico si distingue dalle altre relazioni umane anche per il suo non essere tanto una relazione interpersonale quanto una relazione soprattutto inter-psichica e intra-psichica (Bolognini…) in cui i due soggetti da un lato si scambiano continuamente parti interne di Sé, dall’altro lato vivono la relazione all’interno delle dinamiche di ciascuno di essi. E in quest’ultimo caso sono entrambi portatori di processi sia transferali che controtransferali, con questa differenza però, o asimmetria, appunto, e cioè che mentre il paziente esprime direttamente i propri movimenti transferali, lo psicoanalista dovrà, senza agirli, intercettarli e cercare di analizzare dentro di Sé, tra sé e sé sia il proprio controtransfert che il proprio transfert e in questo modo entrare in un rapporto più profondo con il proprio paziente, conoscerlo, empatizzare con lui.
Occorre però qui fare una precisazione. Nella corrente pratica clinica e nell’uso che sembra caratterizzare il “senso comune” di molti clinici si direbbe che l’ ”empatia”sia di fatto confusa con la “simpatia”. Mi spiego. Per empatia si intende correttamente nel lessico psicoanalitico (M.Fornaro, 1996; S.Bolognini, 2002) la capacità del terapeuta di “sentire dentro” il paziente, conformemente al significato etimologico dell’espressione. Si tratta quindi di avvertire, dentro di sé, nei termini di un processo, attivo e consapevole, di identificazione le emozioni, i sentimenti, i processi di pensiero presenti nel paziente. Si tratta di una esperienza “interna”, passibile a sua volta di auto-osservazione e non necessariamente verbalizzabile al paziente.
Intendo adesso soffermarmi un poco su alcuni aspetti e situazioni concrete della relazione
psicoterapeutica di orientamento psicoanalitico, in cui tale relazione appare vistosamente,
specieagli occhi del paziente, come una relazione speciale e diversa.
- Il silenzio. È noto come possa essere difficoltoso, specie per gli psicoterapeuti più giovani mantenere nel rapporto col paziente una situazione di silenzio anche protratto. Nelle relazioni comuni il silenzio è naturalmente presente, ma, specie quando l’interazione dialogica è più diretta, esso è vissuto e connotato negativamente. Ma il silenzio nella relazione psicoanalitica ha un significato diverso e fecondo, fa parte della relazione in modo attivo e costruttivo, ad esempio favorendo una posizione di vicinanza-distanza ottimale del terapeuta dal paziente, oppure favorendo le libere associazioni di quest’ultimo. Aggiungo che in una società come la nostra, sempre più rumorosa e chiassosa, sperimentare il silenzio è di per sé terapeutico per quanto difficile, tant’è che il terapeuta dovrà stare ben attento ad evitare che il silenzio sottoponga il paziente a frustrazioni eccessive o, peggio, ad un senso di abbandono.
- rispondere alle domande del paziente? Perché no, ma non necessariamente e non senza averci attentamente pensato. In una relazione comune non rispondere ad una domanda sarebbe segno di villania oppure la risposta appropriata ad una domanda importuna. Nella relazione psicoanalista/ paziente il discorso è diverso. La domanda del paziente non è un intervento a statuto speciale, ma un materiale esplorativo non diversamente da qualsiasi altra comunicazione del paziente. Questo comporta che, prima eventualmente di rispondere, lo psicoterapeuta analizzi ed esplori la domanda stessa. So che i giovani colleghi fanno fatica su questo punto, ma anche qui sono convinto che la loro difficoltà derivi dal non avere sufficientemente interiorizzato la consapevolezza della diversità e specificità del dialogo psicoterapeutico rispetto alle altre interazioni umane.
- Dare consigli? Anche in questo caso non si tratta di una questione di principio da trattare in modo assolutistico. Ci sono momenti nel corso di una psicoterapia, specie con certi pazienti, in cui il terapeuta non può sottrarsi a tale necessità. In linea di massima, però, perché mettersi in fila dopo i numerosissimi interlocutori del paziente da cui il paziente stesso avrà certamente ricevuto consigli, in qualche caso anche ottimi? Facciamo soprattutto il nostro lavoro e, anche in questo caso, mettiamo al primo posto la necessità di esplorare e analizzare la richiesta del paziente e farne, insieme a lui, occasione di elaborazione.
Nella clinica psicologica è comune che i pazienti chiedano ai clinici indicazioni e consigli, anche assai concreti, riguardo a decisioni e difficili situazioni di vita. Per lo più la nostra risposta, un po’ convenzionale e scontata, ma non per questo meno valida, è che l’aiuto che può venire da noi è quello di metterli nella condizione di diventare loro stessi buoni consiglieri di sé stessi. È evidente che ci sono situazioni nelle quali può essere indispensabile dare indicazioni concrete e, quindi, accettare di erogare consigli. E tuttavia è pur vero che i nostri pazienti sono per lo più circondati da numerosi aspiranti consiglieri, alcuni dei quali non mancano di dar loro buone indicazioni. Non è dunque il caso di aggiungersi frettolosamente alla schiera. Possiamo in effetti dare ai nostri pazienti molto di più: aiutarli ad esplorare minuziosamente il problema ad analizzare la situazione, a prospettarsi scelte diverse e a valutarne i possibili effetti.
- Empatia vs simpatia. Per empatia si intende correttamente nel lessico psicoanalitico la capacità del terapeuta di “sentire dentro” il paziente, conformemente al significato etiologico dell’espressione. Si tratta quindi di avvertire, dentro di sé, nei termini di un processo, attivo e consapevole, di identificazione, emozioni, sentimenti, processi di pensiero presenti nel pazienti. Si tratta di una esperienza “interna”, non necessariamente verbalizzabile al paziente. Per avere valore terapeutico la comunicazione empatica deve introdurre un piccolo elemento in più di autoconsapevolezza dentro lo stato mentale del paziente, renderglielo più nitido, dare più forza all’emozione e, al tempo stesso, rendere l’Io più capace di contenimento. L’empatia è dunque uno strumento schiettamente psicoanalitico e non ha niente a che vedere con la “simpatia” che, a sua volta, può essere espressa e testimoniata al paziente. Simpatizzare vuol dire, a differenza dell’empatizzare, “sentire con”, “sentire insieme a”; è quindi un’esperienza di condivisione verbalizzata. Con il paziente adolescente è abbastanza comune simpatizzare (e talora lo si fa, a mio avviso, persino troppo); con i pazienti adulti in genere la simpatia va certamente distillata e misurata, a favore di interventi di autentica e strutturante empatia (Bolognini…).
- Rassicurare? Così come l’esperienza empatica è stata confusa da alcuni con l’esperienza della simpatia, allo stesso modo l’azione supportiva viene spesso confusa con il sostegno dichiarato e verbalizzato o con la rassicurazione esplicita. Interventi di questo tipo, che certamente a ciascuno di noi è capitato di fare, servono in realtà a poco. Ciò che serve è aiutare il paziente a sviluppare dentro di sé forze e riassetti capaci di consentirgli di fronteggiare meno angosciosamente difficili situazioni di vita.
Grandi discussioni hanno diviso gli psicoanalisti sulla questione della rassicurazione e dell’azione supportiva. Così come l’esperienza empatica è stata confusa da alcuni con l’esperienza della simpatia, allo stesso modo l’azione supportiva viene spesso confusa con il sostegno dichiarato e verbalizzato o con la rassicurazione esplicita.
- Educare il paziente? La psicoterapia richiede sia al paziente che al clinico, modalità di funzionamento mentale e relazionale che, essendo assai lontane dalle esperienze comuni e quotidiane, necessitano di un vero e proprio apprendistato. Qui il terapeuta deve essere attivo e coadiuvante, aiutando il paziente a favorire sempre di più l’emergere di un pensare liberamente associativo e l’acquisizione di una certamente difficile esperienza di “regressione al servizio della psicoterapia”, grazie alla quale il paziente sappia da un lato esprimere con immediatezza sé stesso e dall’altro lato costituirsi come soggetto auto-osservante. Similmente occorre aiutare il paziente sospendere il giudizio, a mettere tra parentesi la dimensione morale e valoriale. Devo quindi ribadire ancora che paziente e terapeuta devono entrambi acquisire piena consapevolezza della specificità della loro relazione, che sfugge alle regole e alle convenzione della vita di relazione comune ed esterna. Questa specificità non ha nulla di sacrale; essa è meramente funzionale all’impresa terapeutica, al lavoro clinico, alle sue procedure, alle sue necessità. Fuori dalla stanza analitica paziente e analista saranno poi riconsegnati alla vita comune, alle sue leggi e alle sue convenzioni.
Mi fermo qui, anche se il discorso dovrebbe aprirsi ad altri temi e problemi inerenti soprattutto il setting. A questo riguardo non dimentichiamo che il setting non è un dispositivo rituale ma funzionale alla relazione. Protegge il paziente e protegge il terapeuta. È uno strumento, non un valore in sé (“il sabato è stato fatto per l’uomo,non l’uomo per il sabato!”), ma come tale e in quanto tale deve essere maneggiato con prudenza.
Avviando a conclusione la mia riflessione, ribadisco il vertice teorico-metodologico centrale in essa: la psicoterapia psicoanalitica è inevitabilmente intensamente relazionale, cioè animata, nutrita e perennemente conflittualizzata dalla dimensione relazionale; ma, lo ripetiamo, ad essere terapeutica non è la relazione in quanto tale, bensì la relazione in quanto psicoterapeutica e, nella fattispecie, terapeutica in una logica ed in un’ottica psicoanalitica. Tale distinzione, fondamentale, come abbiamo visto, proteggerà l’approccio relazionale dai rischi di derive a cui le “macchie cieche” presenti, almeno virtualmente, nel suo paradigma possono esporlo con grave danno anche per la pratica clinica.
La storia della psicoanalisi è stata caratterizzata, sin dalle sue origini, da una sorta di perenne oscillazione tra polarità ed aporie contrapposte: trauma vs fantasia, interpersonale vs intrapsichico, interpretazione vs relazione e così via (Fornaro- Giacobbi), Oggi, ormai da qualche decennio, il pendolo del pensare psicoanalitico si è stabilmente orientato sulla dimensione relazionale dell’esperienza psicoanalitica (Mitchell…). C’è motivo di credere che tale posizione debba considerarsi stabilizzata e permanente, e quindi non soggetta ai consueti movimenti oscillatori della storia psicoanalitica. E tuttavia l’oscillazione tra polarità a mio avviso continuerà, proprio all’interno del nuovo paradigma relazionmale, laddove tale paradigma ospita comunque orientamenti teorico-metodologici comunque diferenziati e tali da integrare dialetticamente anche le antiche comntrapposizioni polari, portatrici in ogni caso di fecondità di pensiero e di prassi. Questo mio modesto contributo vuole proprio andare in tale direzione.