Quante volte sentiamo esprimere il desiderio di ritornare al periodo dell’infanzia, descritto come gioioso, spensierato e senza affanni e preoccupazioni. Ma è proprio vero che il periodo dell’infanzia ha queste caratteristiche? Elena Russo Arman, con il suo spettacolo The juniper tree, ci dice che no, non è vero, e ci conduce, attraverso la ripresa di alcune favole dei fratelli Grimm intrecciate fra loro, in un mondo infantile cupo e carico di vissuti angosciosi e dolorosi.
The juniper tree è andato in scena dal 3 al 21 maggio al Teatro Elfo Puccini di Milano, ed Elena Russo Arman, che da molti anni ne è uno degli esponenti più significativi, ci offre uno spettacolo a tutto tondo, nel quale profonde la sua creatività pescando dal profondo di se stessa, attingendo ai simboli e agli archetipi, e utilizzando il linguaggio teatrale in modo poliedrico. Affiancata, come ormai da alcuni anni, da Alessandra Novaga per la composizione e realizzazione delle musiche originali, dà vita a una favola nera nella quale, oltre ad aver curato l’adattamento, la regia e, con Saverio Assumma Devita, le scene e la realizzazione dei pupazzi, interpreta una madre che muore subito, e segue, muta e sempre presente, la vita del suo bambino, lasciato tra le grinfie di una matrigna cattiva e rifiutante, interpretata, non a caso, da un attore uomo, Lorenzo Fontana. La sorella (Maria Caggianelli Villani), per fortuna non è come le sorelle di Cenerentola, ed è l’unica a dare al bambino un po’ di affetto e di comprensione; il padre infatti è un robot, un uomo meccanico che sta in una cornice e viene attivato solo per dire frasi scontate che non incidono sulla realtà, e rinforzano in questo desolato mondo familiare il senso di vuoto e di “assenza”.
Il linguaggio teatrale trova forme espressive davvero originali, coniugando tradizione e modernità. Il bambino è un burattino, animato, come usavano in RAI tanti anni fa Maria Perego (topo Gigio) e Velia Mantegazza (Roby e Quattordici), da una persona interamente coperta di nero, e così resa invisibile. L’animatrice è Elena, la madre morta, che segue passo dopo passo il suo bambino e assiste impotente alle sue sofferenze e alla sua morte. Dopo la morte, il bambino diventa un uccellino che grida la sua disperazione, ed è Elena stessa a dargli voce, in un canto struggente e intensamente melodioso in cui racconta la sua triste storia.
La musica di Alessandra Novaga è parte essenziale dello spettacolo, e si sviluppa partendo da temi antichi, modernizzandosi nei suoni e nei ritmi col procedere della storia, fino al canto dell’uccellino, che racchiude in sé un percorso musicale straordinariamente ricco, nei tempi e nei toni.
Si sentono gli echi delle pantomime di Lindsay Kemp, in particolare Mister Punch, una favola noir messa in scena dallo straordinario mimo, attore, regista e coreografo (inglese di nascita e italiano d’adozione) come spettacolo per bambini alla fine degli anni ’70. Anche lì la storia era carica di aspetti horror, e al tempo stesso riusciva ad entrare nei meandri della vita interiore del bambino con una profondità ricca e toccante.
Il riferimento alla pantomima e alla gestualità mi dà modo di riproporre in questo contesto una considerazione presa da un mio lavoro di qualche anno fa, sul tema dell’interpretazione, in senso teatrale e psicoanalitico[1].
La parola “interpretare” viene usata abitualmente in due contesti, quello psicoanalitico e quello teatrale, con due significati che possono apparire diversi, ma che a un’attenta analisi mostrano invece avere molti punti di contatto.
Quando l’analista interpreta offre al suo interlocutore, e a se stesso, una rilettura di un materiale (ciò che il paziente fa e dice) che fino ad allora appariva avere un certo significato manifesto, e che attraverso quell’interpretazione si presta ad essere visto sotto una nuova prospettiva; dopo l’interpretazione il significato dell’oggetto interpretato si amplifica, e può essere osservato con occhi diversi.
Pensando al teatro come qualcosa che accompagna la storia del genere umano, che in ogni epoca ha cercato forme di “rappresentazione” della realtà, possiamo pensare che l’interpretazione da parte dell’attore abbia il senso di proporre per l’appunto la rilettura di un materiale (il testo) che, allo stesso modo dell’analisi, attraverso quell’interpretazione acquista nuovo significato, e diventa visibile sotto una nuova prospettiva. E ciò a prescindere dal fatto che lo spettatore conosca precedentemente il testo rappresentato: ciò che dà il senso del “nuovo” non è necessariamente dire o fare qualcosa di diverso da chi si è cimentato nella rappresentazione dello stesso testo, ma offrire una visione della realtà che l’interpretazione possa connotare permettendo di coglierne molteplici significati, e magari uno specificamente che l’animo dell’interprete riesce in modo particolare ad evidenziare.
La rappresentazione teatrale può dunque essere vista come una “costruzione” in cui l’interpretazione ricrea la realtà rivestendola di significato. E qui il parallelismo coll’analisi è totale.
The juniper tree è davvero uno spettacolo di rara bellezza, e si offre allo spettatore come un esempio di interpretazione nel senso or ora proposto, collocandosi come punto d’arrivo (e di ripartenza) nel percorso che da anni Elena Russo Arman sta facendo con i suoi spettacoli, nei quali rilegge i classici e le storie di vita attuali, facendoseli passare dentro e restituendoci un tutt’uno di parole, gesti e suoni nei quali esprime se stessa con un linguaggio teatrale ricco e armonioso.
[1] v. Carnevali R. “Il mimo: un corpo che interpreta”, in Costruzioni psicoanalitiche n. 2/2001, FrancoAngeli, Milano.