Pratica Psicoterapeutica

Il Mestiere dell'Analista
Rivista semestrale di clinica psicoanalitica e psicoterapia

NUMERO 16
1 - 2017 mese di Giugno
CLINICA – IL CONTESTO SOCIOCULTURALE
A “RUOTALIBERA” SU TEMI ANTICHI E ATTUALI: PROPAGANDA, PAURA, OBBEDIENZA, SICUREZZA
di Giorgio Meneguz

Io non prenderò parte alla vostra competizione:

non voglio né comandare né obbedire.

Erodoto, Storie III, 83

 

Dopo una seduta con un paziente ossessivo, un vero filosofo ricchissimo di concetti ma privo di esperienze di vita, mi sono lasciato andare a pensieri che si sono sviluppati come associazioni indisciplinate girovaghe attorno a un asse centrale. Ora, a distanza di poco tempo, proverò a scriverli concedendomi qualche divagazione.

Mi era rimasta in testa l’osservazione del paziente, che aveva contato mentalmente i bottoni della mia camicia, sette, e da lì era piombato in un rigido mutismo. Il suo pensiero si era paralizzato. Non dirò come ho lavorato, perché non è quello lo scopo di queste brevi note. Mi limiterò a riferire il canovaccio di pensieri che mi si sono affollati nella mente nell’ora che avevo libera dopo la seduta. Pensavo a come possa organizzarsi un sistema dittatoriale nella mente di un soggetto a causa della paura. Pensavo all’inganno delle apparenze: il mio paziente sembra una persona tranquilla, del tutto pacifica, generosissima, e tuttavia autoritaria e subdolamente competitiva. È talmente ben difeso da una corazza di regole e rituali che lo imprigionano, da ignorare la tremenda paura dell’aggressività (delle emozioni vitali) che sta alla base di tutto. Scava scava, è evidente che per lui il mondo è pieno di spiacevoli sorprese e di pericoli. Sottoposto quotidianamente a pressioni educative moralizzanti, era diventato un bambino disciplinato e, da quando si è costruito un oppressore interno narcisista che lo domina e lo protegge, ora vive soggiogato da una propaganda interna che fa appello alla paura per stimolare il controllo. Non è un fobico, ma dappertutto ci sono malattie, delinquenza, incidenti, eppure niente sembra toccarlo personalmente. Lui ha chiuso il sedere e trattiene tutto; là dentro c’è un mondo di cognizioni e principi e razionalizzazioni. Così può vivere in sicurezza nel suo piccolo mondo infinito di un pensiero sopraffino che sostituisce l’azione e l’esperienza emotiva. Occupandosi di politica è diventato custode dello status-quo, obbligato dal suo governo interno a obbedire e a esigere ordine e disciplina (anche nelle relazioni amicali e intime) secondo la formula hitleriana: “Responsabilità verso l’alto, autorità verso il basso”. In linea con la caratteristica del ciclista nel folklore tedesco: di sopra s’inclina, di sotto scalcia. Pensando a lui mi è tornata l’idea banale secondo la quale il funzionamento ossessivo può rappresentare una figura clinica che si presta come metafora, o forse meglio come modello, per figurare il tema attualissimo delle relazioni fra governo, propaganda, paura, obbedienza, sicurezza.

Chiunque non sia del tutto a digiuno di qualche nozione sulla storia del sapere, può facilmente associare l’argomento alle posizioni di alcuni filosofi del Sei/Settecento. Prima di spulciare qua e là in quel che rammento di vecchie letture di filosofia politica, mi piace spolverare il ricordo, riposto in qualche angolo nella mente del mio unico lettore, sulla vita di Kant, che era, a suo modo, una personcina un tantino ossessiva. Avevo letto[1] che il grande filosofo di Könisberg temeva le malattie, temeva il contagio, odiava il sudore. Si dice che, nel percorrere il tragitto fra casa sua e l’Università, fosse talmente puntuale che chiunque lo vedesse passare avrebbe potuto spostare sull’ora esatta le lancette del proprio orologio. Un giorno il professore tenne una lezione completamente sconclusionata, tanto che al termine, un amico e collega gli si avvicinò chiedendogli stupito che cosa gli fosse successo. Kant rispose che la sua attenzione era totalmente catturata dalla giacca di uno studente in prima fila cui mancava un bottone: non riusciva a togliere gli occhi da quell’asola vuota, e quel disordine gli impedì di concentrarsi sulla lezione. Sembra tra l’altro che Kant non abbia vissuto una vivace esistenza. Va detto, però, che il pranzo era per lui un momento di convivialità, e poteva prolungarsi per tre o quattro ore. Se gli amici non erano disponibili, era solito invitare qualche sconosciuto – importante che gli invitati fossero intellettuali o politici, cioè in grado di discutere con lui. Il suo maggiordomo tuttofare si chiamava Lampe ed era da lui molto amato. La storia del bicchiere andato in frantumi mi fa pensare a quanto fosse potente la difesa di Kant contro il temutissimo impulso omicida, che egli, da buon ossessivo, non viveva come proprio. Un giorno, durante un pranzo, Lampe ruppe inavvertitamente un bicchiere. Kant si premurò di raccogliere personalmente i pezzi di vetro, ordinò al maggiordomo di scavare una profonda buca in giardino e sotterrò i cocci dicendo che quello era l’unico modo per evitare il pericolo che qualcuno si ferisse.  E quando arrivò il giorno in cui il fidato Lampe morì, trascorso un periodo di sofferenza che non terminava per così dire fisiologicamente, Kant decise che era giunto il momento di riprendere le consuete attività. Scrisse su un foglio: DIMENTICA LAMPE!, e lo mise in bella vista nel suo studio.

Kant era il grande filosofo che tutti conosciamo. Scriveva che “la paura è la voce di Dio alla quale tutti gli animali obbediscono”[2], e da buon illuminista criticava la filosofia politica di Hobbes in base alla distinzione fra paura e responsabilità di fronte alla legge. Senza rigettare le basi dell’antropologia hobbesiana, sosteneva che occorre fondare una pace fondata sul diritto e non sulla filantropia, ed è possibile realizzare tale scopo solo considerando la malvagità naturale degli uomini e non una presunta bontà innata.[3] I filosofi del Sei/Settecento avevano studiato la paura come strumento formidabile al servizio del dominio, e, a ben vedere, diverse volte nella storia la paura collettiva si è rivelata come la principale risorsa del potere. Il miglior filosofo pragmatico del Rinascimento, il fiorentino Machiavelli, pensava agli uomini come a degli egoisti privi di scrupoli, in particolare i cittadini di città ben più dei montanari. Ammiratore dell’astuto Cesare Borgia, teorizzò la figura di un sovrano “scorretto”, simulatore e dissimulatore, “furbo come una volpe e feroce come un leone”. Sosteneva che i legiferatori devono presupporre che gli uomini nascono malvagi e tali rimangono, perciò la loro funzione è di far sì che i cittadini vivano in una costante paura della coercizione, se è il caso anche violenta, del governo.[4] Ben più acutamente di lui sul piano psicologico e nel teorizzare lo Stato (era nata nel frattempo la scienza moderna: Galileo, Newton…), Hobbes sosteneva[5] che un popolo non si sottomette solo per paura della punizione, deve conseguire nell’obbedienza anche un beneficio secondario, e lo trova nella protezione dal pericolo della guerra di tutti contro tutti cui la natura condurrebbe gli uomini se non ci fosse un contratto civile, uno Stato a difesa dell’ordine pubblico. Secondo la filosofia politica di Hobbes, è indispensabile che i cittadini vivano la paura sia sul piano verticale sia su quello orizzontale, perché nascendo uguali gli uni agli altri, gli uomini sono motivati da un radicale conflitto fra l’istinto del dominio e la tensione verso la libertà. Giambattista Vico sosteneva che all’origine della società umana sta la paura.[6] Di opinione differente fu il massimo teorico del liberalismo settecentesco e fautore del dispotismo illuminato, Montesquieu, secondo cui il governare in base alla paura dei cittadini esprime una degenerazione della sete di dominio del sovrano. Possiamo fermarci qui perché, nonostante le differenze dei punti di vista, i filosofi politici sono concordi (e Freud si unì a loro, condividendo in particolare il pessimismo antropologico di Thomas Hobbes – Melanie Klein portò alle massime conseguenze la teoria) nel ritenere la paura come un forte mastice sociale, una risorsa per la collettività e, contemporaneamente, uno strumento al servizio del controllo sociale da parte del governo o di forze politiche che mirano alla conquista del potere. Gli psicologi sembrano concordi, oggi, sull’idea che la stoffa della nostra relazionalità quotidiana sia la connessione dialettica fra sistemi affermativo-esplorativo e cooperativo: individualismo e socialità, competizione e collaborazione sembrano essere le tensioni motivazionali primarie nella psicologia politica.

Siccome non basta la nuda costrizione a spiegare per quali ragioni una classe dominata riesca a sopportare a lungo il giogo (l’aveva evidenziato fra gli altri Horkheimer),[7] perché il sistema funzioni è indispensabile la fondamentale inclinazione umana all’obbedienza e il bisogno di sottomettersi del piccolo d’uomo alla protezione di figure carismatiche. Lo strettissimo intreccio fra paura e sicurezza, la ricerca di figure in grado di suggestionare alle dimensioni della paura e della sicurezza e di proporsi infine come guida è bene evidenziata da Freud, quando riprende il concetto del narcisismo delle piccole differenze e scrive che l’essere umano “ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po’ di sicurezza”[8] (dove, per Freud, “felicità” sta per “libertà”).

L’obbedienza: il modo più sicuro (e infantile) per ottenere protezione e sicurezza.[9]  Quali sono le motivazioni che ci portano a obbedire? Il riconoscimento e l’ammirazione del valore dell’altro sembra essere una buona ragione. Per il bambino si tratta di un comportamento di generosità naturale, e se l’obbedienza ha il prezzo del sacrificio, essa è all’interno della dialettica del dare e ricevere l’amore nell’interazione con la persona di accudimento. Nell’adulto l’obbedienza può essere volontaria e razionale; obbedire a regole funzionali e a figure di autorità autorevoli è fra i fattori di consolidamento della dimensione sociale. L’obbedienza volontaria può essere stimolata anche da suggestioni e da forme di mistificazione. Possiamo obbedire volontariamente al demagogo, a un dittatore, sottometterci a un ideale (politico, religioso, scientifico) con cui ci identifichiamo. La fede in una religione, ad esempio, nasce abitualmente da una mistificazione capillare, dall’assottigliamento quotidiano delle capacità di pensiero critico nei bambini, da una specie di colonizzazione del pensiero da parte di dogmi e rituali inculcati da genitori e altre persone carismatiche. L’obbedienza può essere frutto di una manovra masochistica finalizzata a colpevolizzare l’altro assumendo il ruolo di vittima lamentosa. Un’altra potente motivazione all’obbedienza è la paura. Paura della violenza e della sofferenza corporea, paura di perdere quel che si possiede (persone, denaro, beni materiali, ecc.), paura dell’abbandono.

Cediamo il potere a qualcuno affinché ci protegga dalla paura, ci rimettiamo alle sue regole, ma alla fine il potere rafforza e moltiplica e strumentalizza la nostra paura per rafforzarsi. E la dinamica si fa circolare. Noi abbiamo paura del potere e il potere ha paura di noi, e più ha paura più diventa repressivo. Un governo esprime diverse modalità di rapporto con la paura dei cittadini. Può diventare egli stesso, con i suoi strumenti, fonte della paura. Oppure può scatenare la paura nei cittadini facendo leva su figure della malvagità e della violenza, la criminalità (rappresentata da diversi soggetti simbolici), fingendosi il più fidato avversario della paura mentre di quest’emozione ne fa la fonte del proprio potere repressivo.[10] La paura può essere una preziosa fonte di consenso elettorale. Alcune forze politiche affiancate da una schiera di intellettuali al loro servizio realizzano una “fabbrica della paura”, il cui prodotto (ne sono ghiotti i mass media) produce a sua volta odio e obbedienza. Il fiuto imprenditoriale ne ha approfittato per costruire un’industria della sicurezza privata e pubblica, un mercato sempre più fiorente di sistemi di allarme e difesa per le abitazioni e le città.[11] “Lo psicoanalista Adam Phillips racconta una barzelletta su un mullah che sta davanti alla propria casa a Londra e tira chicchi di mais. Un inglese gli si avvicina e gli chiede perché lo faccia: ‘Perché tiene lontane le tigri’, risponde il mullah. Al che l’inglese obietta che veramente non c’è nessuna tigre lì. ‘Allora vuol dire che funziona’, dice il mullah”[12].

Passato ormai il tempo in cui la minaccia principale per il mondo occidentale era il “comunismo”, nell’attuale fase storica la propaganda indica una triade di agenti del Male: i terroristi islamici, i migranti, le etine delinquenziali. I cittadini più attenti sanno che è un modo per nascondere i pericoli reali della delinquenza organizzata nei rapporti mafia/politica, della criminalità finanziaria, della corruzione, dei peculati e dei falsi in bilancio, dei fondi neri, della precarietà nel lavoro e della disoccupazione. I delinquenti utili alla propaganda cinica di alcuni partiti o governi sono i poveri, gli immigrati, i disoccupati, gli emarginati. Essi diventano il “capro espiatorio”, responsabile di ogni male, il simbolo su cui sono fomentati fanatismo, xenofobia, secessionismi e odio.[13]

Si apre qui il tema della propaganda[14], che è quella comunicazione finalizzata alla manipolazione delle scelte, efficace in base al grado d’indipendenza del carattere, alla fonte di provenienza e alla natura della propaganda. A un appello alla paura, in cui vengono indicati oggetti, idee o persone come simboli di genitori cattivi che risvegliano i demoni dormienti nella fantasia inconscia, consegue la proposta di simboli compensatori dei genitori buoni, capaci di sconfiggere i demoni. Il gioco è fatto. Tolto il velo a certa propaganda, è evidente che interessi economici e politici hanno ingigantito enormemente il pericolo del terrorismo. L’altra faccia della propaganda è quel fenomeno che i giornalisti hanno chiamato “complottismo” (uno strumento retorico  prevalentemente usato dai “movimenti populisti”), secondo cui esistono poteri occulti che governano le sorti planetarie dell’umanità. Per esempio, le banche e i manager della finanza sono l’unica causa dei mali del mondo, il loro progetto segreto è una cospirazione degli ebrei per dominarlo (ahimè, non era di questo tipo la propaganda nazista che giustificò i campi di sterminio?). D’altronde è noto che il concetto di post-verità è usato nella propaganda politica. Nella campagna elettorale, Trump aveva affermato che con Obama la disoccupazione era salita al 49%, mentre in realtà era al 5%.

I sistemi di propaganda e il complottismo funzionano perché la psicologia umana ci porta a credere che, nella vita reale, accadrà nuovamente un evento emotivamente toccante piuttosto che un fatto rimasto più debole nelle tracce di memoria. Per esempio, un grave atto terroristico o un incidente aereo richiamano maggiormente la nostra attenzione, rispetto ad altre situazioni che dovrebbero suscitare un allarme sociale. È stato stimato che nel 2001 (“l’anno orribile del terrorismo”) le vittime americane di terrorismo furono 3.000, mentre nello stesso anno sono morti negli Stati Uniti 700.000 cittadini per patologie cardiache, 550.000 di tumore, 18.000 furono le vittime di autisti ubriachi[15]. Gli psicologi hanno chiamato questo fenomeno “euristica delle disponibilità”: la credenza secondo cui è più probabile che si riverifichi un evento d’impatto emotivo piuttosto che un evento le cui propabilità di ricomparsa sono oggettive.

Il terrorista islamico, gli arabi, il mondo musulmano e la religione di Maometto sono diventati oggi il nemico che, più di ogni altro, è in grado di suscitare allarme personale e sociale. Qui il problema si fa molto complesso poiché il gesto del terrorista è finalizzato a demoralizzare il nemico in un clima di paura e spingerlo a reazioni irrazionali[16]. Nell’attuale contesto storico, la strategia, si badi bene, una strategia narrativa  – in ogni caso, si tratta di una strategia di guerra – mira a destabilizzare il sistema della civiltà secolarizzata per spingere i governi alla Crociata. È ormai chiaro a tutti gli osservatori che il terrorista cerca pubblicità. “La pervasività dei media moltiplica l’eco degli attacchi. Poiché la legge non scritta dell’informazione di massa è l’enfasi, chi colpisce sa che una strage di civili in una capitale occidentale garantisce visibilità planetaria per mesi. E la condanna altrui vale molto più dell’autoglorificazione. Tanto più alto il volume della nostra retorica, tanto più robusta la promessa di vendicare le vittime innocenti, quanto maggiore l’audience di chi ha pianificato gli attacchi. Se vittoria e sconfitta si misurano oggi soprattutto sul fronte della narrazione, i massacratori di civili innocenti godono di un vantaggio di partenza garantito dai media. I nostri molto più dei loro”[17].

Viviamo in una fase storica, in questa tarda modernità, che Antony Giddens ha definito “una cultura del rischio”[18]. Non c’è alcun dubbio che il rischio faccia parte del nostro vivere quotidiano: fu Beck, prima di Giddens, a definire la nostra società come caratterizzata dal rischio. Fu davvero un disincanto, come diceva Max Weber, ciò che la secolarizzazione portò al “mondo occidentale”, perché da allora la scienza si sostituì alla religione nel ruolo protettivo verso l’umanità. Al contempo, gli sviluppi della scienza e della tecnologia sono diventati anche una grande minaccia e lo sviluppo del capitalismo stimola la fantasia di futuri scenari apocalittici. Ma poiché lo stato d’emergenza permanente che serpeggia fra molti occidentali riguarda la minaccia del terrorismo, occorre riflettere seriamente.

Anzitutto è sotto gli occhi di tutti il fatto che i terroristi islamici sono in vantaggio nei nostri confronti: loro ci conoscono correttamente, “dall’interno”, mentre noi, in generale, ci siamo sempre cullati in una relativa ignoranza sulla loro cultura e civiltà (di provenienza o di residenza). Mi sembra di capire bene che le variabili in gioco sono moltissime, eppure so che una riflessione sul terrorismo islamico non può tralasciare un approfondimento, impossibile da affrontare nell’economia di questo scritto, su argomenti di enorme complessità. Ne segnalo alcuni. Gli Stati del Levante Arabo sono divisi etnicamente e politicamente corrotti; persistono governi repressivi e violenze e torture di Stato; aree territoriali strettamente tradizionaliste hanno subito una modernizzazione troppo rapida; l’integralismo religioso si è dimostrato un programma totalitario che frena lo sviluppo economico e culturale; i conflitti tra fazioni confessionali, risalenti la disputa sulla scelta del successore di Maometto nel 632, fondano la narrazione radicale di gran parte dei conflitti; l’educazione religiosa capillare indottrina i bambini a diventare soldati di una grande causa, per cui il morire è un martirio oblativo premiato in Cielo e in Terra con gloria e ricompensa economica ai famigliari; la struttura dittatoriale del potere politico pacifica le tensioni fra clan; élite governative e gruppi economici trainanti sono in contrasto fra loro; colonizzazione e decolonizzazione hanno destabilizzato non solo gli assetti politico sociali, ma anche gli equilibri nei clan e fra le etnie. E ancora va segnala una dimensione, anch’essa decisiva, che è la cultura beduina di commercianti capitanati da uno sceicco, cultura dell’onore e del risentimento.

Eppure molto di tutto ciò è superficiale, insufficiente quando non addirittura fuorviante se ci soffermiamo su due considerazioni basilari. La prima è che il terrorismo islamico non è espressione di una radicalizzazione dell’Islam, bensì un’islamizzazione della radicalità e del fanatismo: la violenza che distrugge il Levante Arabo non è di matrice religiosa, pur avendone il carattere. È vero che è caratteristica essenziale dell’ideologia monoteista l’esigenza che il fedele sia obbediente, sottomesso, colpevole. Virtù fondamentali che valgono per il Cristianesimo come per la religione islamica. Islam per esempio significa “sottomissione” (è l’infinito sostantivo di “sottomettersi”), muslim significa “sottomesso” (participio di “salima”, sottomettersi). Da una tale posizione mentale di base al fanatismo, il passo è breve. Tant’è che, ad esempio nelle discussioni con i credenti cattolici, un ateo o anche solo un laico è immancabilmente accusato di essere un religioso che non vuole riconoscere di esserlo, un credente che non ha ancora trovato Dio. Kant scrisse un interessante libricino sul fanatismo[19]. Il fanatico, dice Kant, è ammalato della malattia più pericolosa che la natura umana conosca, l’illusione, l’autoinganno di avere confidenza e una relazione privilegiata con le potenze celesti. Nel fanatico la voce di Dio coincide con un Super-io quantomeno severo, diremmo noi. Il fanatico si sottomette alla causa – politica, religiosa, o altro − idealizzata, divinizzata. E facendo della causa il proprio idolo, nel suo asservimento il fanatico s’identifica col proprio sé grandioso proiettato, e pieno di ardente passione si sente contemporaneamente sottomesso e partecipe dell’Assoluto[20].

La seconda considerazione basilare riguarda alcune date fondamentali per capire la situazione attuale attraverso la storia del Levante Arabo e di alcuni paesi islamici non arabi. 1) 680: la battaglia di Kerbala che portò alla rottura definitiva fra sunniti e sciiti, uno scisma dal carattere politico (lotta per il potere) e non religioso. 2) 1979: l’esito del lavoro della CIA, iniziato nel 1953 contro il governo Mussadeq in Iran, porta alla dittatura del sanguinario Reza Pahlevi e prepara il terreno per il ritorno dell’ayatollah Khomeini, col quale risorge il conflitto fra sciiti e sunniti in Medio Oriente. A questo punto gli USA (e gli Stati occidentali) temono che l’Iran si allei con l’URSS e stringono un patto di alleanza e collaborazione con l’Arabia Saudita, che è sunnita e wahabita (sono gli ultraconservatori sunniti), acerrima nemica dell’Iran. Nel 1980 il sunnita Saddam Hussein, che governa l’Irak a maggioranza sciita, entra in guerra con L’Iran. Gli USA (e gli Stati occidentali) armano l’Irak, Saddam Hussein diventa cittadino onorario di Detroit. 3) 1990: terminata l’epoca della guerra fredda, con la nascita della globalizzazione neoliberista − ristrutturazione tardo-moderna del capitalismo − inizia la disintegrazione delle comunità politiche e cittadine in tutto il Levante Arabo. Le istituzioni economiche internazionali impongono ai governi liberalizzazione e privatizzazione, con la conseguenza che il legame fra poteri religiosi e ricchissimi e corrotti uomini d’affari al potere si stringe provocando tre conseguenze: a) le comunità confessionali assumono il potere al posto delle comunità politiche; b) ora sono le moschee e gli istituti di carità islamici e non lo Stato a erogare il welfare; c) la società si ristruttura su base islamica enfatizzando le radici integraliste. Nel 1991, dopo una decina di anni di guerra contro l’Iran, Irak è in crisi e decide di invadere il Kwait. Gli USA attaccano l’Irak, (Desert Storm). 4) 2003: gli USA, “incaricati di una missione divina” secondo G. W. Bush, invadono l’Irak. Conseguenze politiche: imposizione delle quote confessionali all’Irak post-Saddam; liberazione dal potere dei talebani in Afhanistan; senza il potere dei talebani e senza il partito sunnita in Irak, l’Iran può riprendere la politica espansionista in Medio Oriente, con la conseguenza di un ritorno della guerra fredda fra Iran e Arabia Saudita (ancora più appoggiata dagli USA di Trump) per l’egemonia del Medio Oriente. Un aforisma di Anatole France recita così: “Una popolazione che stia sotto la morsa del terrore della guerra e dell’invasione è molto facile da governare, perché non chiede mai riforme sociali, non protesta per le spese per armamenti e forniture militari, paga senza discussioni, rovina se stessa ed è eccellente per gli scopi di finanzieri e industriali per i quali i patriottici terrori sono un’abbondante fonte di guadagno”.

Poiché le ricchezze dell’Impero ottomano facevano gola ai colonizzatori, durante la Prima guerra mondiale la Francia e il Regno Unito pensarono bene di spartirsele. Con un segreto agreement tracciarono i confini (attuali) della Siria e lasciarono nelle mani di gruppi di potere locali il governo, che da coloniale si trasformò in Stato indipendente controllato da un tiranno (ma i francesi vi rimasero fino al 1946). Anche la ridistribuzione del potere dopo Saddam Hussein in Irak ha contribuito a destabilizzare l’area. Nel 2010 e 2011, le violente proteste e agitazioni di piazza che i giornalisti occidentali chiameranno “Primavere arabe” sfoceranno nella guerra civile siriana e preparano la guerra civile che nel 2015 scoppierà nello Yemen (dove l’Arabia Saudita entra indirettamente in guerra contro i ribelli sciiti houti accusati di lealtà con l’Iran). L’80% della popolazione dello Yemen, giova ricordarlo, ha necessità di aiuti umanitari.

Se consideriamo l’identità dei combattenti il jihad, è evidente il problema del fanatismo religioso da parte di chi è reclutato, indottrinato e mandato a combattere. Nell’elementare schema del catechismo del terrorista islamico troviamo un universo paranoico abitato da cinque grandi famiglie: 1) i Giusti; 2) i sunniti deviati; 3) gli sciiti; 4) gli ebrei; 5) i crociati. Questa è l’essenza ideologica[21]. Ma non possiamo dimenticare che l’architettura della guerra ha bisogno di incentivi economici per strutturarsi, e in ciò le fabbriche di armi dei Paesi occidentali hanno piena responsabilità. Non va evidenziato solo il sostegno di USA ed Europa a regimi brutali come il Bahrain, l’Arabia Saudita e l’Egitto di Abd al-Fattah al-Sisi. C’è uno stretto legame tra i petroldollari investiti nelle piazze finanziarie di Milano, Londra e Parigi e il movimento jihadista, il quale ha colmato un vuoto con un miraggio (il ritorno del Califfato) in un deserto politico e sociale originato (grazie al finanziamento dell’Arabia Saudita e, indirettamente, degli USA) dall’azzeramento del pluralismo culturale iniziato già negli anni Settanta ed esploso dopo il 2003. Lo Stato islamico rappresenta l’esprit du temps dell’Irak e della Siria[22]. La territorializzazione di un sogno può magnetizzare i musulmani e senz’altro offre agli Stati occidentali un nemico fisico, un bersaglio da colpire a nutrimento dell’illusione che si stia combattendo una guerra convenzionale[23]. In questo senso, le guerre in atto sono due: una, sanguinosissima, fra Stati e gruppi nel Levante Arabo, un’altra contro “l’Occidente” per evidenziarne la diabolicità, scopo tattico è inculcare nelle persone uno stato paranoide di minaccia perenne in cui è impossibile predire e anticipare il pericolo. La morfologia della guerra è cambiata: come sempre, l’azione terroristica è una tecnica di combattimento, ma possiamo riconoscere nel terrorista islamico imbottito di esplosivo un’agghiacciante risposta al drone telecomandato che scarica bombe su obiettivi militari e civili senza alcuna distinzione[24].

La situazione del Levante Arabo e di alcuni paesi islamici non arabi non è facile da capire, non sono ben comprensibili le alleanze politico-militari. E si può ben osservare il caos dalle intricate alleanze in gioco: eserciti locali, militari di mezzo mondo, foreign fighters pro-Isis e foreign fighters anti-Isis, feroci bande di criminali. La Siria combatte l’Isis e combatte i ribelli siriani che sono tutt’altro che omogenei  − sono attivi gruppi di partigiani laici, democratici, musulmani democratici, gruppi di fondamentalisti sunniti, alcuni dei quali sono aiutati dall’Arabia Saudita, dal Qatar, da Al Nusra (i mujaheddin siriani affiliati con Alqaeda fino al 2016, che sono in coflitto con l’Isis ma come loro propugnano il jihad e il Califfato) e dalla Turchia, la quale (per combattere al-Asad) è tra i massimi sponsor dello Stato islamico e, al contempo combatte i guerriglieri curdi siriani. Forse è poco noto che nel Kurdistan occidentale (il Rojava), la fascia a nord della Siria che confina con la Turchia, sono attive formazioni anti-Isis molto efficaci, come le Forze Democratiche siriane (Sdf), la Brigata Antifascista Internazionale dell’Ypg (Unità di protezione popolare), che è la milizia popolare armata del Pyd (Partito del’Unione Democratica) formata in gran parte da donne (la coraggiosa milizia Yja Star) e l’esercito popolare anatolico del Pkk (Partito curdo dei lavoratori) − tutti quanti potenti antagonisti dell’Isis. L’Iran è alleato col governo filo-sciita irakeno contro l’Isis, sostiene il dittatore Assad in Siria, è accusato dall’Arabia Saudita di fomentare l’opposizione sciita in Arabia, arma e addestra le milizie sciite houti nella guerra civile contro il regime nello Yemen. L’Arabia Saudita, alleata USA, arma e finanzia l’Isis, i ribelli anti Assad e l’esercito sunnita dello Yemen. Il Libano invia in Siria gli Hezbollah (sciiti) a fianco dell’esercito di Assad contro l’Isis. Con la guerra algerina degli anni Novanta inizia ad affermarsi nel Maghreb e nel Sahel l’integralismo radicale islamico. Diversi gruppi di ribelli si affiliano ad Alqaeda e si diffondono in Mauritania, nel Ciad, in Niger e soprattutto nel Mali. La Libia è nel caos, con la presenza di territori Daesh e le truppe di Ansar Al-Sharia (presenti anche in Tunisia). L’intero territorio del Siriak  e l’Afghanistan sono nella confusione più completa, colpiti da guerriglie e sanguinosissime azioni terroristiche: allo sfaldamento della possibilità politica di governance in un territorio, corrisponde un consolidamento dell’Isis. Boko Haram ha un peso notevole sul territorio nigeriano e sul problema dei migranti sub sahariani. In Somalia, Uganda e Kenia agisce la cellula somala di Al Shabaab. Nel Mali, in Algeria e nel nord del Niger Al-Murabitum semina terrore. È evidente: “in Africa, il jihadismo è come quel serpente che ha già deposto le uova nel nido delle aquile”.[25]

Di fronte a una confusione del genere è facile cadere in schematismi. Intanto andrebbe detto, credo, che il sottosviluppo, le tragedie umane e i disastri culturali del Levante Arabo non sarebbero causati unicamente

1) dalle nefaste conseguenze della colonizzazione e dal processo di decolonizzazione,

2) dagli interessi economici, dall’installazione di armate statunitensi in Arabia Saudita, Oman, EAU, Bahrein, Qatar Kuwait, e dalle tensioni delle grandi potenze occidentali, che il mondo musulmano vive come ingerenze aggressive di cui si sente vittima e

3) dalla globalizzazione occidentalizzante − variabili comunque gravissime in grado di provocare un ridimensionamento dell’identità dei musulmani, che si radicalizza su un fondamentalismo salafita della letteralità coranica ostile alla modernità identificata come Occidentale, laica e non credente[26].

Il sottosviluppo, le tragedie umane e i disastri culturali del Levante Arabo non sarebbero causati solo da quei drammatici fattori, bensì anche

4) dal ruolo importante della mentalità dei popoli vincolati alle tradizioni e a un’etica confessionale, a una religione integralista.

La “civiltà islamica” è “l’insieme delle nazioni e delle popolazioni, quali che siano le loro cittadinanze di origine, le loro culture e le loro storie particolari, che fanno appello a questa religione monoteistica e aderiscono al suo nucleo fondamentale di credenze. (…) Questa religione, travalicando largamente il quadro ristretto della semplice convinzione religiosa, determina e modella le mentalità, i comportamenti sociali, le visioni del mondo, la morale, i costumi, il diritto. Ovvero, la religione diventa civiltà per il semplice effetto del suo inserimento nel tessuto sociale, ossia, della sua politicizzazione”.[27] A ben vedere, però, spostando lo sguardo verso occidente, non è solo il fedele religioso seguace di Maometto a pretendere di imporre i dogmi professati della propria fede. È necessario ricordare qui non tanto le malefatte della Chiesa contro i “nemici di Dio” durante l’inquisizione nel sedicesimo e diciassettesimo secolo, quanto le ingerenze della Chiesa cattolica e della Conferenza episcopale italiana sulla politica e le scelte esistenziali dei singoli. Evidenziare le ricadute sociali delle battaglie dei movimenti estremisti come Comunione e Liberazione e dei fondamentalisti dell’Opus Dei, oltre alle pretese degli ecclesiasti, a ogni livello, di ergersi a guida morale della società, in cui verità di fede sono considerate verità universali, e dove, tra l’altro, la confusione fra peccato e reato circa il problema dei preti pedofili segnala una problematica in cui gli assunti di principio relegano ai margini la vita reale degli esseri umani. Nell’Islam il totalitarismo si fonda sul Corano, nella religione cattolica l’egemonia è data dal potere indiscusso della Chiesa, l’unica autorità che può stabilire che cosa sia veramente una verità scientifica. Convincere è lo scopo della propaganda. Lo scopo della scienza è, com’è noto, dimostrare. Nei messaggi mediatici sembra dominare una certa propaganda, e un serio pensiero sulla realtà non può che partire da una decostruzione critica delle narrazioni ufficiali che sia in grado di confrontarle con ricerche e dati di fatto.

Si è parlato di Trump anche su questa rivista. A me sembra che Trump e il Daesh rappresentino l’attuale Zeitgeist, il fallimento di due ideocrazie utopistiche: il Daesh si è legittimato  come Stato islamico, organizzazione territoriale della rappresentazione trascendentale del Califfato, gli USA si sono legittimati come messianica potenza del Bene sempre pronta a combattere il Male. Ovviamente per ragioni diverse, Trump e l’Isis segnalano una reazione avversa alla globalizzazione, in una fase storica  in cui il dominio degli USA sul pianeta sta declinando. Il paradosso è che, nonostante la prepotenza caricaturale dl suo attuale presidente, l’America non è più in grado di dominare il mondo, ma fa paura, perché non ha neppure la possibilità di uscire dal ruolo di superpotenza planetaria.[28]



[1] Borowski, L. E., Jachmann R. B., Wasianski E. A. Ch., La vita di Immanuel Kant narrata da tre contemporanei. Bari: Laterza, 1976.

[2] Kant I., (1786), Presumibile inizio della storia umana. Antologia di scritti pedagogici. Verona: Il Segno dei Gabrielli edit., 2004; (1785), Fondazione della metafisica dei costumi. Roma/Bari, 2007; (1793), Sul detto comune: “questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la pratica”, http://bfp.sp.unipi.it/classici/kantdc.html.

[3] Kant I. (1795), Per la pace perpetua. Milano; Feltrinelli, 1997.

[4] Machiavelli N. (1513-19), Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio. Torino: Einaudi, 2000; Il Principe. Torino: Einaudi, 2006.

[5] Hobbes T. (1651), Leviatano, o la materia, la forma e il potere di uno Stato ecclesiastico e civile. Roma/Bari: Laterza, 1989.

[6] Vico G. (1730), La scienza nuova. Milano: Fabbri, 2006.

[7] Horkheimer K. (1936), Studi sull’autorità e la famiglia. Torino: UTET, 1974.

[8] Freud S. (1929), Il disagio della civiltà. OSF, vol. X, p. 602.

[9] Sennet R. (1980), Autorità. Milano: Bompiani, 1981; Popiz H. (1986), Fenomenologia del potere. Bologna: Il Mulino, 2001; Marcuse H. (1969), L’autorità e la famiglia. Torino: Einaudi, 1970; Horkheimer K. (1936), cit.; Adorno T. W. (1956), Teoria freudiana e fondamento della propaganda fascista, Questioni, 6, 1957. In Zolla E. (1960), La psicanalisi, Milano: Garzanti; Nielsen N. P. (2004), L’universo mentale “nazista”. Milano: Franco Angeli; Milgram S., Obbedienza all’autorità. Torino: Einaudi, 2003; Haney C., Banks C., Zimbardo P. G., Interpersonal Dynamics in a Simulated Prison, International Journal of Criminology and Penology, vol I, 69-97, 1997 .

[10] Zolo D. (2011), Sulla paura, fragilità, aggressività, potere. Milano: Feltrinelli.

[11] Amendola G. (2008), Città, criminalità, paure. Napoli: Liguori; Pavarini M. (2006), L’amministrazione locale della paura. Roma: Carrocci; Pitch T. (2008), La società della prevenzione. Roma: Carrocci.

[12] Svendsen L. H. (2009), Filosofia della paura. Roma: Castelvecchi, 2010, p. 103; Mueller J. (2006), Overblown: How Politicians and the Terrorism Industry Inflate National Security Threats, and Why We Believe Them. New York: Free Press.

[13] Escobar R. (2008), “La paura, in marcia”, IRIDE, 55.

[14] Money-Kyrle R. (1941), La psicologia della propaganda. In: Scritti 1927-1977. Torino: Bollati Boringhieri, 2002.

[15] Svendsen L. H. (2009), cit.

[16] Si veda il mio: “Note sull'interpretazione psicoanalitica del terrorismo e del fenomeno dei suicide bombers”. Psicoterapia e scienze umane, XXXIX, 2, 2005: 165-192.

[17] Editoriale (2015), Guerrieri del nulla, cit. pp. 9-10.

[18] Giddens A. (1991), Identità e società moderna. Napoli: Ipermedium libri, 1999; Beck U. (1986), Risk Society. Cmbridge: Polity Press; si veda anche il mio: Comprendere la dimensione rischio. Cenni sul contributo di Michael Balint. Attualità in Psicologia, 16, 3-4, 2001: 215-220.

[19] Kant I. (1764), Saggio sulle malattie della mente. Como: Ibis, 1992.

[20] Fromm E. (1963), Il carattere rivoluzionario. In: Il bisogno di credere. Milano: Mondadori, 1997.

[21] Editoriale (2015), Guerrieri del nulla. Limes, 11: 7-28.

[22] Calculli M. (2015), L’Isis è un progetto politico e come tale va combattuto. http://www.huffingtonpost.it/marina-calculli-/lisis-e-un-progetto-politico-e-come-tale-va-combattuto_b_8575614.html

[23] Editoriale (2015), Guerrieri del nulla. cit.

[24] Curi U. (2016), I figli di Ares. Roma: Castelvecchi.

[25] Albanese G. (2015), Il serpente del jihad ha deposto le uova oltre il Sahara. Limes, 12: 143-50.

[26] Ben Achour Y. (2007), Le relazioni tra la civiltà islamica e la civiltà occidentale. IRIDE, 51, 273-89.

[27] Ben Achour Y. (2007), cit. p. 274.

[28] Editoriale (2016), L’agenda di Trump. Limes, 11: 7-31.

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