Pratica Psicoterapeutica

Il Mestiere dell'Analista
Rivista semestrale di clinica psicoanalitica e psicoterapia

NUMERO 15
2 - 2016 mese di Dicembre
PSICOANALISI E ISTITUZIONE
OPEN DIALOGUE: UN APPROCCIO INNOVATIVO PER GLI ESORDI PSICOTICI
di Alessandra Micheloni

Venerdì 28 e sabato 29 Ottobre 2016 si è tenuto a Parma il seminario dal titolo Open Dialogue: un approccio innovativo per gli esordi psicotici.

L’evento, organizzato dall’AUSL di Parma e da IDIPSI (Istituto di psicoterapia sistemica integrata) ha visto la partecipazione di un vasto numero di persone provenienti da tutta Italia, che a vario titolo, si sono incontrate in una due giorni per dialogare con lo psicologo clinico finlandese Jaakko Seikkula a proposito del modello da lui progettato e denominato nel 1995 “Open Dialogue”.

 

Il corsivo riferito al termine “persone” non è casuale e mi aiuta a richiamare uno dei concetti chiave alla base della prospettiva che Seikkula propone: l’essere umano.

L’assemblea infatti ha visto la presenza di professionisti quali psichiatri, psicologi, psicoterapeuti, educatori, infermieri, ma anche di utenti e loro famigliari. Un vasto gruppo dunque di soggetti che primi fra tutti si sono trovati a condividere il fatto stesso di essere semplicemente per l’appunto persone.

Questa caratteristica, implicita e spontanea del seminario, da sola ben introduce al senso dell’Open Dialogue: un incontro, un dialogo appunto, fra esseri umani, che hanno qualcosa da dire riguardo a una situazione di disagio, di sofferenza. Non importa in quale veste, se come madri, padri, psicologi, vicini di casa o insegnanti di scuola, il dialogo, come insegna Seikkula riprendendo il concetto del filosofo russo Mikhail Bakhtin, è qualcosa di estremamente semplice, che ci accomuna e di cui tutti abbiamo bisogno sin dalla nascita, tanto quanto respirare è vitale.  

Così, sino a partire dal complesso lavoro con le forme di psicopatologia più grave, Seikkula non parla con “schizofrenici”, ma con “esseri umani”. Al di là delle differenze culturali e di sistema dei vari paesi del mondo, questa, dice, è l’idea da inserire nella pratica del Dialogo Aperto. L’interesse per la specificità del soggetto che soffre, non giudicante e privo di qualsiasi desiderio etichettante, che guarda alla sofferenza come qualcosa da conoscere e interrogare, è uno degli aspetti che ritengo di maggior rilevanza.    

 

Il termine Open Dialogue è stato coniato nel 1995, ma in realtà fa riferimento a un’esperienza trentennale iniziata nel 1984 in Lapponia, nel nord della Finlandia, e poi a poco a poco estesasi a tutto il paese.

Un altro aspetto che mi sembra importante sottolineare è che questa metodologia è nata dal basso, dall’incontro quotidiano con l’intensità della crisi e dal bisogno sempre più incalzante di integrazione tra approcci operativi diversi: sistemici famigliari da un lato e psicodinamici dall’altro. Questo preciso bisogno, di trovare orizzonti comuni tra prospettive apparentemente molto diverse, è qualcosa che i servizi come i CPS, ad esempio, conoscono molto bene. Si pensi all’intrecciarsi di figure come psichiatri, psicologi, infermieri, educatori e assistenti sociali, ma si pensi anche (guardando alla mia personale esperienza) ai tirocinanti psicoterapeuti, spesso risorsa fondamentale nel difficile confronto con le liste d’attesa, che appartengono altrettanto spesso a formazioni diverse tra loro, ma necessitano di lavorare in sinergia. È il caso delle terapie famigliari, delle terapie di coppia, ma anche delle riunioni d’équipe, a volte terreno di scontro più che di ascolto reciproco.   

 

L’essenza del dispositivo è semplice; quasi come a dire che per gestire al meglio la complessità della sofferenza e del lavoro congiunto sia necessario recuperare gli aspetti primari della nostra natura, che Seikkula definisce in due pre-requisiti: respirare e dialogare.

Così come da subito il neonato respira, egli è da subito attore di dialogo.

Dunque non c’è nulla da imparare, ma è talmente elementare che diviene scontato, e negli istituti di salute mentale in particolare può accedere che questo venga via via sotterrato dal bisogno urgente di controllare i sintomi, le reazioni, ecc. Dice Seikkula: “più lo facciamo in realtà, più diminuiscono le risorse a nostra disposizione”.

La crisi psicotica, ma potenzialmente tutti i tipi di crisi, sono concepiti come una grande apertura, che offre tutte le sue potenzialità proprio nel momento più acuto e drammatico. Come se fosse una porta spalancata d’improvviso con forza, che ad un certo punto si richiuderà, quasi per inerzia, sulle soluzioni che il sistema sarà in grado di trovare. Il punto è essere in quel momento, prima che la porta si richiuda, non tanto per fornire soluzioni bensì, al contrario, per poterne essere parte.

Ecco perché la prima delle caratteristiche per una prassi ottimale (caratteristiche messe a punto grazie alla collaborazione con il professore Jukka Aaltonen nel 1995) è l’immediatezza dell’aiuto, che nel modello originale avviene entro le quarantotto ore successive alla richiesta.

 

Il secondo punto fondamentale del Dialogo Aperto è particolarmente interessante perché è forse quello che maggiormente permette di pensare a una possibile declinazione di questa tecnica nei Dipartimenti di Salute Mentale in Italia: la prospettiva di rete sociale.

Se penso alla mia esperienza di tirocinio in psicoterapia presso il CPS di Gorgonzola, nella provincia di Milano, in queste parole potrei al primo impatto non trovare nulla di nuovo; ogni paziente preso in carico dal servizio infatti prevede la stesura di un PTI (Piano Terapeutico Individualizzato) e questo è previsto per tutta quell’utenza il cui l’intervento coinvolge l’intera equipe o buona parte di essa. Come precisano poi Carnevali, Barone e Canova (2016), nel PTI c’è una voce relativa agli “interventi di rete”. Concetti dunque in apparenza già noti alla prassi corrente.

Ma cosa intende Jaakko Seikkula per “prospettiva di rete sociale”? Ascoltando meglio la proposta finlandese ho l’impressione di essere di fronte a qualcosa di un po’ diverso.

Per prima cosa, mi sembra che con questa indicazione lo psicologo finlandese non si riferisca a una tipologia di soggetti precisa; non si riferisce solamente all’equipe, non si riferisce solamente alla famiglia, né si riferisce esclusivamente all’una e all’altra. Si tratta di un invito più ampio che suggerisce di essere aperti a coinvolgere tutti gli attori che possono avere importanza nella situazione specifica e voglia di esserci.

Non si tratta di interventi isolati e poi in qualche modo interconnessi, bensì di un unico spazio dove accade tutto; dal confronto tra i colleghi operatori, al confronto tra una madre e il proprio figlio.

Qui si apre una questione assai rilevante, che rappresenta forse la vera sfida e che Anahi Alzapiedi, direttrice del Programma di Psicologia Clinica di Comunità dell’Ausl di Parma, individua in modo molto efficace nel suo intervento: “parliamo di Dialogo Aperto tra operatori e utenza, ma la parte più difficile è il Dialogo Aperto tra noi operatori.”

 

Il terzo punto per un intervento ottimale, flessibilità e mobilità, precisa come l’Open Dialogue non sia un metodo di trattamento, ma un modo di organizzare la vita. La scelta del trattamento più adatto avviene di conseguenza.

Ecco perché dunque l’O.D è prima di tutto una disposizione interna del terapeuta e degli operatori, nel loro dialogo personale con sé stessi e in quello tra loro e i colleghi.

Non è semplice pensare di applicare in modo fedele l’impianto originario che Seikkula e i suoi collaboratori suggeriscono, perché come lui stesso precisa, si tratta di un dispositivo nato e pensato in un preciso sistema socio-sanitario, quello finlandese appunto.

Tuttavia, molto più utile e senz’altro pensabile sarebbe cogliere l’approccio dialogico nella sua accezione più ampia come “approccio (…) di tipo integrativo, al quale si possono aggiungere altre modalità terapeutiche (Ziedonis, Fulwiler, Tonelli, 2014; Ziedonis et al, 2005; Ziedonis 2004) adattandole alle necessità della persona e dei famigliari, come parte di uno ‘schema di cura’ ad ampio spettro e flessibile (Hald, 2013; Seikkula & Arnkil 2014)” (Olson M., Seikkula J., Ziedonis D., 2014, p. 2).

 

Per completezza cito solamente il quarto e il quinto punto, responsabilità e continuità psicologica, per soffermarmi maggiormente sugli ultimi due; a mio modesto parere quelli che consentono maggiore trasversalità e punti di contatto tra i vari orientamenti.

 

Per molti aspetti trovo la proposta del Dialogo Aperto molto vicina agli approcci psicoanalitici relazionali più attuali e per questo credo che l’intento integrativo del modello riesca ad avere un riverbero davvero ad ampio raggio, che è stato possibile toccare con mano e vivere nelle fasi di dibattito durante il seminario stesso. Con questa vicinanza non mi riferisco solamente alla condivisione di un modo relazionale di intendere la sofferenza psichica, ma anche all’attenzione per la peculiarità di ogni situazione e la necessità di partire da essa, affrontando il mare aperto.

Ciò è molto chiaro nel sesto principio della pratica dialogica: la tolleranza dell’incertezza.

L’importanza che l’approccio dialogico dà al soggetto come punto di partenza mi pare riscontrabile inoltre in diverse scelte tecniche: nell’estrema rilevanza della trasparenza, per la quale ogni decisione o discussione viene addirittura fatta direttamente nella sessione O. D, davanti e insieme al paziente; nella domanda usuale “Come vorreste usare questo incontro?”; la centratura sul momento presente e sulle emozioni in circolo, con l’inclusione di ciò che il terapeuta sente accadere dentro di sé, nella relazione.

 

Il settimo e ultimo principio è, insieme al sesto, la naturale conseguenza dei punti precedenti: il dialogo (polifonia). L’idea è che non ci si incontri per risolvere un problema, bensì per trovare un dialogo. Questo mette tutti gli attori in una posizione attiva, che esclude logiche colpevolizzanti o vittimizzanti. Una polifonia di voci multiple a cui poter lentamente dare spazio (Seikkula J., Olson M., 2003).

Proprio per questa ragione, dalle esperienze preliminari che stiamo cercando di condurre all’interno del CPS di Gorgonzola con diversi colleghi, tirocinanti e non, ritengo si tratti di un assetto potenzialmente utile a fronteggiare anche contesti famigliari difficili, caratterizzati da violenza e elevata aggressività, sia fisica che verbale, nei legami e nella comunicazione.

 

 

Bibliografia

 

Carnevali R., Barone R., Canova R., Dialogo aperto, terapia sistemica e terapia psicoanalitica – Progetto di ricerca, 2016; anche in Carnevali R, “Dialogo aperto, terapia sistemica e terapia psicoanalitica”, Pratica Psicoterapeutica n. 13 (2-2015), Mimesis, Sesto S. Giovanni (MI).

 

Olson, M, Seikkula, J. & Ziedonis, D. (2014). The key elements of dialogic practice in Open Dialogue. The University of Massachusetts Medical School. Worcester, MA.

 

Seikkula J., Il dialogo aperto – L’approccio finlandese alle gravi crisi psichiatriche, a cura di Chiara Tarantino, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2014.

 

Seikkula J., Arnkil T.E., Dialogical meetings in social networks, Karnak Books, NW3 SHT, 2006.

 

Seikkula J., Olson M., The Open Dialogue Approach to Acute Psychosis: its Poetics and Micropolitics, Family Process, Vol. 42, N. 3, 2003.

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