Nell’accingermi a descrivere alcuni aspetti delle psicosi (il lettore perdonerà la genericità del termine, ma per ora non occorre più precisione) devo premettere un brevissimo ragionamento sul metodo delle indagini che ho condotto[1]. In filosofia ci sono rivoluzioni concettuali che hanno fatto storia, e che comportano, ciascuna a suo modo, una epoché, che significa una sospensione epocale. Si tratta di un meccanismo del pensiero che concepisce un intero sistema filosofico come un oggetto che può essere fatto ruotare nello spazio, fino a vederlo da un punto di vista differente. La rivoluzione copernicana di Kant è un esempio di sospensione epocale, seguito da una rotazione di prospettiva. Nel nostro lavoro di analisti, saper fare la stessa cosa è fondamentale. Visto da un certo punto di vista, un sintomo depressivo (ad esempio) ha una funzione. Lo stesso sintomo, fatto ruotare nella nostra mente sino ad essere visto da un angolo diverso, può avere una funzione del tutto differente. La rotazione è possibile solo se preceduta dalla sospensione epocale, ossia, da un passo indietro del pensiero, altra dote che è necessario esercitare spesso nel lavoro analitico. Passo indietro e rotazione sono gli schemi di funzionamento logico che ho utilizzato per collocare il mio punto di vista nella cura delle psicosi. Detto questo, posso introdurre il punto di prospettiva da cui ho analizzato il campo clinico (perché passo indietro del pensiero e rotazione dell’oggetto impongono che ci si metta fermi da qualche parte a guardare).
Si tratta del transfert sovraintenso. Con questo termine intendo quel fenomeno per cui nel rapporto con il paziente psicotico l’analista viene quasi deificato. La deificazione è secondaria rispetto ad un fenomeno più profondo, che probabilmente è specie specifico, ossia, un aggrapparsi spasmodico, radicale, violento e disperato. Cerco di spiegarmi meglio.
Nel mio lavoro mi è successo ben presto di curare pazienti che nel giro di pochissime sedute si sono aggrappati a me con una forza inaspettata e inquietante. Ogni volta mi sono interrogato ed ho cercato di capire se il fenomeno fosse dovuto a qualche mio impulso seduttivo, o a qualche fantasma non analizzato, o a una mia richiesta inconscia di essere amato, o altre modalità di indurre nel simile delle risposte di attaccamento. Nei limiti delle mie possibilità mentali e analitiche, posso escluderlo. Direi che sono stato semplicemente gentile ed accogliente, cosa che mi viene piuttosto naturale. Un’analisi attenta di questo tipo di legame mostra che esso è del tutto unidirezionale (al paziente non importa nulla sapere chi io sia come persona), è di natura penetrativa, è estremamente intenso e privo di articolazione nella parola. Mi tocca fare esempi per immagini, anche se amerei evitarlo. Immaginiamo un essere dotato di un artiglio a scatto, fatto per forare una corazza, fare un buco e permettere ad un arpione di fare solidamente presa, per poi iniettare attraverso il buco così fatto qualcosa che si dovrà sviluppare. Un dispositivo simile viene installato sulle sonde spaziali che vanno sulle comete. Arrivata sulla superficie, la sonda spara una serie di arpioni per rimanere fissata sulla massa cometaria. Oppure si pensi al virus che si attacca alla membrana di un batterio o di una cellula, la “fora” (i meccanismi molecolari sono diversi dal fare un buco, naturalmente) e inietta il suo RNA, che costringerà la cellula ospite malgé lui a lavorare al servizio del virus. Il paziente psicotico fa lo stesso lavoro. Tutto avviene in modo silenzioso e potente. L’idealizzazione dell’analista è quindi secondaria, e può essere tratatta in vari modi. Credo che tutti i pazienti psicotici siano in grado di agire in questo modo, date alcune condizioni. Essi devono percepire che l’analista è innocuo, non è protetto da meccanismi di difesa rigidi e pervasivi, e non si terrorizza facilmente (non si rompe, non va in pezzi). Ne deriva che il transfert psicotico, alla sua radice, non è né relazionale né discorsivo, è un puro fare presa solida sull’altro. Noi però non osserviamo un fenomeno allo stato puro, ma l’esasperazione, l’amplificazione di un meccanismo specie specifico. Potremmo dire che tutti noi siamo stati così, ma, se non siamo affetti da patologie psichiche complesse, significa che il nostro sistema di ancoraggio ha fatto presa nel momento giusto e con la persona più o meno giusta, l’artiglio è scattato e il meccanismo non serve più. Se tutto ciò non accade, il meccanismo moltiplica a dismisura il suo potere penetrativo e di aggancio, e rimane in attesa – diciamo così – della preda adatta, come ibernato, e – chissà perché – nel corso di questa ibernazione diventa più potente ed aggressivo, come se si caricasse[2]. Ciò detto, io ho ritenuto utile prestarmi a questa funzione di… cellula ospite mosso da curiosità scientifica. So bene che si sconsiglia di farlo, ma io tendo a non seguire i consigli saggi, come tutti i montanari curiosi[3].
Dunque, si immagini un punto di vista sull’intero fenomeno delle psicosi che sia collocato in modo esclusivo nel punto focale del transfert psicotico (come l’ho descritto sopra) di tipo sovraintenso. Si immagini di vedere tutte le manifestazioni della psicosi rigidamente, esclusivamente da lì. Il primo risultato che si ottiene, è che il transfert psicotico funziona come un sistema ottico di ingrandimento (una specie di microscopio) e che produce delle modifiche sia nella percezione del tempo, che della natura delle cause. Come spesso accade nelle psicosi – purché ci si metta nel luogo d’osservazione di cui ho parlato sopra – questo fenomeno ci permette di ipotizzare che la nostra specie sia composta da parassiti predatori aggressivi estremamente specializzati. In questa specializzazione il linguaggio riveste una funzione predatoria specifica[4].
La prospettiva temporale si sposta all’indietro – dicevo – nel senso che lo psicotico stesso convoca nel suo discorso un intero clan che egli percepisce come immediatamente presente alla mente, ossia, un mucchio di gente tutta addosso che si dà un gran da fare a fare qualcosa. L’ordine delle generazioni salta, e i personaggi immediatamente presenti appartengono a un arco temporale che può arrivare al secolo. Nonni e bisnonni se ne stanno nella mente del paziente tutti insieme, appunto, affaccendati attorno a lui. In questo quadro, il delirio forma una specie di mappa che coincide punto per punto con caratteristiche specifiche dei componenti del clan, con aspetti della loro storia, dei loro pensieri, e, soprattutto, dei loro traumi. Il delirio contiene anche le interpretazioni del paziente, che hanno la funzione di risolvere i traumi trasmessi da una generazione all’altra. Si tratta di una specie di romanzo storico documentato, il cui punto di prospettiva è, in questo quadro, del tutto razionale. Purtroppo ci vuole un pel po’ di tempo a far tornare tutti i conti, e spesso non è possibile farlo perché il benessere del paziente esige interventi che non permettono di perdere tempo in indagini.
In tutti i casi emerge un fatto univoco, si direbbe persino monotono. Il clan assegna allo psicotico una funzione essenziale. Talmente essenziale da essere – di nuovo! – probabilmente paradigmatica della nostra specie. La funzione assegnata allo psicotico dal suo clan (sia quello mentale che quello reale, senza alcuna differenza) è quella di rendere possibile la funzione simbolica in quanto tale. Detta così, la faccenda suona oscura. Tremila anni di storia del pensiero non hanno chiarito cosa si possa mai intendere con funzione simbolica, per quanto se ne parli in lungo e in largo. Diciamo che lo psicotico funziona come punto di riferimento attorno a cui far ruotare tutto il mondo del clan. Si potrebbe evocare il mito freudiano del padre primordiale, oppure la funzione del totem, il senso della pietra filosofale in alchimia, il valore dell’accordo di tonica nella musica tonale. Insomma, lo psicotico è l’Urvater, il padre primordiale del suo clan. Le distinzioni sociali non valgono più, non ci sono madri, padri, fratelli. C’è un Uno, da cui si deduce un Tutti Noi. Devo mio malgrado ammettere che questi esempi sono precisi solo a metà. Quando intendo funzione simbolica in quanto tale, intendo qualcosa di assolutamente radicale. Lo psicotico è colui che permette a un gruppo umano del tutto particolare di pensare, di avere dei pensieri, di operare sostituzioni simboliche tra pensieri, di effettuare operazioni mentali di spostamento e condensazione, come direbbero gli psicoanalisti. Nella clinica ci sono tracce chiare sotto varie forme. Per brevità (ce ne sono moltissime), cito il fenomeno per cui una figlia viene concepita dalla madre nell’intento di dare una madre a se stessa (intenzione inconscia connessa del fantasma del morire assieme, questo, di solito, cosciente e spesso raccontato all’analista come preoccupazione reale). È un indice che rileva una struttura sottostante del tipo che sto descrivendo.
In questo quadro esiste una precisa organizzazione interna. Vien comodo usare la metafora della fabbrica. Come in una fabbrica organizzata secondo il modello fordista, il clan dello psicotico, auto dedottosi attorno all’Uno fondativo, si dispone in una struttura articolata con una precisa definizione delle mansioni. Possiamo schematizzare tre generazioni, anche se non si deve essere troppo rigidi su questa cifra, il tre, perché vi sono casi in cui la produzione di uno psicotico richiede a volte più, a volte meno tempo. Di norma, io non scenderei sotto i sessanta – settant’anni. Le tre generazioni, l’ultima occupata dallo psicotico – lavorano in modo sinergico. L’aspetto singolare della fabbrica è che ha un solo operaio, lo psicotico, e una serie di padroni – tutti gli altri. Di nuovo, si può fare una riflessione di carattere generale. Possiamo definire la psicosi come uno degli esiti possibili dell’applicazione del potere dell’uomo sull’uomo. Nulla come le psicosi è più adatto a ragionare sull’idea del potere in quanto tale – nella sua natura intima, più radicale – e del suo senso per la nostra specie. Lo psicotico è stato prodotto per essere messo al lavoro per produrre qualcosa. La prima generazione è di solito vicina a traumi reali. Essa trasmette alla seconda il senso d’una catastrofe sempre possibile, che viene tradotta nei termini d’una identità incerta e imprendibile, che viene quindi amplificata per via immaginaria e trasmessa allo psicotico come richiesta radicale di fornire elementi identitari in modo continuo, perché essi si consumano nel gruppo senza mai fissarsi in modo definitivo. Devo specificare subito che la sequenza che ho descritto nei due periodi precedenti è riassunta in modo estremo. Ogni passaggio è decisamente complesso e merita una studio a sé[5]. Il meccanismo di trasmissione del trauma, la sua elaborazione da parte della generazione intermedia, l’uso di pratiche immaginarie per aumentarne il potere traumatico (i traumi nei clan psicotici aumentano nel loro potere patogeno immaginario da una generazione all’altra secondo meccanismi specifici), tutto ciò è qui solo abbozzato, ma mi preme di fornire per lo meno un’immagine generale di tutto il quadro.
Dal lato dello psicotico, egli risulta messo al lavoro senza sosta secondo due principi di base, che ho ritrovato sempre identici, e che ho cercato di riassumere in due leggi. Si possono immaginare come il mansionario, le istruzioni esistenziali all’opera nel paziente psicotico, ma sono condivise da tutto il suo clan in modo consensuale, come si trattasse di precetti religiosi d’una comunità di integralisti. Non a caso regole simili, anche se molto meno rigide, valgono, ad esempio nelle sette. Tali leggi sono sempre presenti nell’inconscio dello psicotico (è indubbio che esista un inconscio in tutte le psicosi, anche se diversamente strutturato rispetto ai non psicotici).
La prima legge si può chiamare legge dello spossessamento. Non riesco a farla breve, perché è una legge formulata in modo da non dare scampo. Fa venire in mente certi contratti fatti per telefono per errore, per cui ci si trova obbligatoriamente padroni di un aspirapolvere, a meno di non finire in tribunale, o anche peggio. Dunque, ecco la legge dello spossessamento:
Nessuna azione, proveniente dalla tua mente o dal tuo corpo designerà in alcun modo, direttamente o indirettamente, un’entità in cui tu possa, in essa azione riconoscerti. Nulla di ciò che è visibile, nulla di quanto la natura ha reso percepibile, sarà riconducibile, direttamente o indirettamente, a un “tu” in qualsiasi modo agente o pensante. Nulla di ciò che tu o un terzo potrebbe percepire come sorto da te, sarà a te, in qualsiasi modo, attribuito. In nessuna forma, in nessun sistema di riferimento o testimonianza, sarà possibile legare a te alcunché, in modo che tu o un terzo possa dire “questo (gesto, pensiero, cosa) è tuo, questo (gesto, pensiero, cosa) dei tu.
Lo psicotico, come tutti noi, in qualche modo cerca disperatamente di rappresentarsi nel mondo, di vedere sé in qualcosa, di potersi riconoscere in un modo qualsiasi, ma esattamente questo gli è impedito. Perché? Ecco il senso della seconda legge, che in modo esteticamente reprensibile chiamo la legge dello strappare via. Qui non possiamo ricorrere ad un enunciato. Lo strappare via è l’azione per cui da un lato lo psicotico è stato addestrato a iper – rappresentarsi (ciò che nella clinica analitica freudiana corrisponde alla chiusura narcisistica nel delirio o in altri modi classici). Addestrato ad iper rappresentarsi significa che è stato sospinto in tutti i modi ad essere, è stato eccitato ad esistere[6], a esasperare questo conato vitale. Nel momento in cui questa spinta ad essere giunge il suo apice, qualcuno gli strappa via il suo esito, e se ne appropria, secondo la prima legge. Sembra una forma estrema di sfruttamento, che si potrebbe leggere agevolmente secondo la teoria marxista del plusvalore. Diciamo che si tratta di un plusvalore applicato alla funzione simbolica in quanto tale, come produzione del singolo a vantaggio di un gruppo ristretto. Insomma, la psicosi serve a fare i modo che un gruppo che è o si percepisce in estremo pericolo, possa sopravvivere. Messa così, è una soluzione che sacrifica uno per permettere agli altri di tirare avanti. Non è un caso che nel momento in cui un paziente psicotico migliora perché riesce a staccarsi dal suo…posto di lavoro, il clan implode. Ne ho avuto numerosi esempi. Riuscito a curare con fatica terribile il paziente, ho assistito sempre al peggioramento anche impressionante della salute mentale di un intero gruppo di persone. D’altra parte, temo non ci sia scelta. Se si vuole ottenere un risultato clinico apprezzabile, non si può tenere un piede in due scarpe, soprattutto nelle psicosi. So bene che quanto dico non piacerà per nulla a chi ritiene possibile curare i pazienti lasciandoli nelle famiglie d’origine, ma che dire. La verità è sempre fastidiosa.
Per rendere meno difficile la comprensione dei fatti, posso fare un esempio immaginario. Si immagini lo psicotico come una mano che si protende verso un oggetto, che si carica quindi di desiderio. Si immagini che qualcuno inciti, spinga, ecciti a desiderare quell’oggetto. Si immagini che chi spinge a questo, sorvegli la tensione della mano in attesa che arrivi al massimo. E qui, esattamente in questo momento, si immagini che quel qualcuno, notando quanto l’oggetto si sia caricato di desiderio, lo strappi via a quella mano e se ne appropri. La legge dello strappare via è una cosa di questo genere. Dal punto di vista clinico, in questo quadro, l’idea che il corpo nelle psicosi la percezione del corpo sia frammentata, va corretta. I frammenti sono intrisi della sensazione mentale che siano sempre appena stati strappati via di dosso , sono un insieme dinamico di qualcosa che è sempre in via di esplosione – se mai si possa immaginare una esplosione continua. Nelle psicosi il corpo risulta sede di sensazioni fortissime contemporanee alla sensazione che parti del corpo si stacchino di dosso per via di asportazione violenta. Il coppo a pezzi è insomma un elemento dinamico.
Anche la percezione del tempo nelle psicosi rimane ferma esattamente nell’attimo in cui lo strappare via avviene. Non esiste un tempo che scorre, ma un tempo bloccato e teso come in un eterno fermo immagine al culmine dell’eccitazione, privata con violenza del suo oggetto. È probabilmente questa la radice della cosiddetta angoscia psicotica, stato d’animo estremamente complesso e oscuro.
Che prove abbiamo per dire che tutto quanto ho descritto è per lo meno verosimile? Sempre rimanendo fissi nel luogo d’osservazione che ho proposto, la prova è semplice quanto scomoda. Nel transfert, l’analista viene collocato dal paziente esattamente dove il clan ha collocato lui. Ciò avviene con una certa graduale dolcezza (l’analista, nell’intento del paziente, non si deve accorgere della manovra). In sostanza, bisogna fare a finta di non accorgersi che il paziente psicotico sta sgattaiolando dal suo luogo di lavoro (prescritto dal clan) e ci sta facendo sedere sulla sedia di…operaio cottimista al suo posto, ed è chiaro che in questa fase qualsiasi interpretazione del transfert è un’idea davvero pessima. L’interpretazione di transfert nelle psicosi è una necessità assai tarda nel quadro della cura. Deve avvenire in modo necessario, ma nei tempi opportuni, altrimenti si rischiano guai davvero spettacolari. Se lasciamo che il paziente, nella sua mente, ci sostituisca a lui nel suo mondo, nella su fabbrica, per usare la metafora che ho introdotto prima, si assisterà ad una serie istruttiva di fenomeni. Egli si sposterà indietro di una generazione e ci tratterà esattamente come hanno trattato lui. In questo modo ci offre una serie di informazioni in vivo e di istruzioni su come fare a curarlo. Nella cura delle psicosi, il come si fa va imparato dal paziente. Sarà lui a darci una specie di manuale di istruzioni, perché ci dirà nel transfert come è stato trattato, che cosa fare per curarlo e di che cosa ha bisogno. Sta poi a noi vedere come regolarci. Dopo la lettura delle istruzioni, ci viene accordato un notevole margine di liberà creativa per l’azione terapeutica.
Nei casi più frequenti, il clan, nella sua opera di sorveglianza totale, ha dei punti ciechi in cui dimentica cose, idee, oggetti, immagini, fantasmi. Non se ne cura. Lascia che lo psicotico ne faccia uso, come un padrone feroce permette comunque al servo, ogni tanto, di prendersi delle licenze, di mangiare di nascosto, di rubacchiare un pezzo di stoffa, una vite, della segatura per scaldarsi. Chiamiamoli resti. Il clan tollera l’uso creativo dei resti, li interpreta come non pericolosi. Si può trattare di poca cosa (prognosi infausta, psicosi a delirio povero) che di enormità (prognosi favorevole, psicosi a delirio ricco, casi di grandi personalità creative, intelligenze insolite ed estreme). Si apre a questo punto il panorama della clinica del resto, che è poi gran parte della clinica esplicita delle psicosi, su cui è possibile innestare una varietà infinita di sistemi terapeutici.
Come ho detto in molti punti di questo articolo, ogni aspetto che ho esposto è in realtà descritto per sommi capi. La clinica delle psicosi dal punto di vista del transfert sovraintenso è estremamente interessante e ricca di fenomeni apparentemente del tutto marginali ma che, osservati con attenzione, condensano temi vasti e d’interesse generale. Credo che una delle caratteristiche di questo campo sia infatti quella di presentare fenomeni dall’aspetto minuscolo, trascurabile, privo di peso, ma in realtà fittissimi di conseguenze e connessioni interne.
[1] Il lettore perdonerà l’assenza di bibliografia estesa in questo breve scritto. Ogni parola potrebbe in realtà essere correlata a un riferimento bibliografico, con il risultato di ottenere un testo illeggibile. In un secondo lavoro cercherò di correggere questa grave mancanza. Per ora mi permetto di privilegiare la pura esposizione delle idee.
[2] Il fatto che tutti noi siamo dotati d’un sistema simile mi spinge a riflettere sulla formazione degli analisti. Dato che l’analisi personale non ci permette di cambiare specie (delirio che ho incontrato in ceri rari casi di psicosi) è opportuno domandarsi che fine faccia il nostro artiglio primordiale alla fine dell’analisi. Credo rimanga in quella particolare attitudine a penetrare nelle menti altrui che è una specie di malattia professionale dello psicoanalista e che gli rende un po’difficoltosa la vita in società, e che i nostri simili non analisti avvertono sempre come – seppur lieve – pericolo da noi emanato.
[3] Il tipo di transfert di cui mi occupo, così prezioso e contemporaneamente impegnativo dal punto di vista del trattamento, stranamente risulta scandaloso nelle cosiddette “istituzioni”. Ricordo una paziente in cura in un CPS in cui avevo lavorato, che si era aggrappata a me in questo modo, cosa che mi era sembrata del tutto legittima e normale. La cosa aveva suscitato un vero scandalo nella équipe dell’ospedale, che mi aveva apertamente attaccato considerando il transfert della paziente su di me una specie di terribile colpa morale a mio carico.
[4] Si immagini l’atto di parola senza riferimento al significato, ma en masse, come nuvola di suoni. Nelle psicosi, l’atto di parlare è simile ad una rete adesiva il cui unico scopo è quello di tenere fermo lì l’analista, di avvolgerlo in una rete invisibile, più o meno come fa il ragno con la bava quando prende una mosca e la avvolge di filo per conservarla come riserva di cibo. La risposta tipica dell’inconscio dell’analista è una forma specifica di noia abissale (già osservata da Winnicott) e a volte persino l’inibizione a muoversi fisicamente.
[5] Ho cercato di descrivere più in dettaglio questi fenomeni in un libro, La fabbrica delle psicosi, edito da Quodlibet Studio.
[6] Ricordo la madre di un paziente schizofrenico che lo lavava anche manipolandogli i genitali nella vasca da bagno con evidente soddisfazione erotica. Questo eccitamento somatico serviva a lei, ed era indotto con meticolosa attenzione, come rivelò il suo sguardo mentre me ne parlava, sguardo estasiato e ammiccante.