Caro Guido,
ho letto con attenzione il tuo articolo sulla negazione. L’articolo è senz’altro interessante, per certi aspetti originale. È scritto bene, tranne in qualche punto. È scorrevole, colloquiale, immediato, forse qua e là eccessivamente autoreferenziale. È particolarmente interessante il paragrafo che riguarda il rapporto tra diniego e rimozione (pp. 4-6): nel diniego vi è un rifiuto di certi aspetti o imput della realtà perchè questi alla fin fine potrebbero evidenziare o stimolare componenti inconsce, affetti e idee che sono state rimosse per vari motivi. Anche il paragrafo successivo, quello relativo alla dissociazione come conseguenza del diniego, è importante. Come Freud ha affermato in “La scissione dell’Io nel processo di difesa” la scissione è la conseguenza del diniego e non viceversa.
Qui naturalmente si pone un problema (che esiste nella letteratura contemporanea) di una confusione notevole tra scissione e dissociazione; per quanto mi riguarda preferisco utilizzare il termine dissociazione per quei disturbi in cui la funzione mnemonica è compromessa. Inoltre, per questi autori come Bromberg sembra che col recupero del pensiero di Ianet tutto è dissociazione e la rimozione non esista più.
Nel paragrafo successivo a p. 7 viene discusso il contrasto tra chi considera gli abbandoni come espressione di resistenza e chi li spiega come conseguenza di situazioni di realtà e anche rimprovera l’analista di presentare problematiche controtransferali (il che in qualche caso è vero). Io resto del parere che, quando ci sono abbandoni improvvisi o precoci la cosa fondamentale difensiva con la conseguenza fuga. Non bisogna peraltro sottovalutare le possibilità che l’analista non abbia potuto o saputo leggere segnali preconsci o inconsci da parte del paziente rispetto alla sua tendenza a lasciare la terapia. Credo proprio che sia di grande importanza monitorare il transfert e controtransfert rispetto alle resistenze e anche all’aggressività del paziente. Per esempio a p. 12 il paziente atleta e scalatore parla di una scalata rischiosissima da compiere con un compagno bravo quanto lui: viene a questo riguardo il dubbio che il compagno sia l’analista, nei confronti del quale emerge tutta l’ambivalenza del paziente. Inoltre mi riferisco anche a quanto scrivi a metà di p. 3 e che a me pare troppo assolutistico e forse rinunciatario: il paziente, a sostegno della sua intenzione di interrompere, il dato di realtà e in questo modo l’analista, verrebbe privato dello strumento interpretativo. io non credo che si tratti di un argomento extra-analitico e che comunque sia opportuno metter in moto il processo preinterpretativo facendo osservare immediatamente al paziente che probabilmente dietro all’elemento di realtà ci possono essere tutta una serie di motivazioni inconsce che sono da capire. Non voglio dire con questo che si possa sempre evitare il drop-out, ma per lo meno, come diceva Cremerius, gli si mette dentro un dubbio, “un uncino nella pelle”, rispetto alle sue intenzioni.
Infine un punto critico molto importante riguarda la differenziazione tra il concetto di diniego e quello di negazione. Tu in effetti dai all’articolo il titolo di "negazione" ma parli sopratutto di diniego. Sia la negazione che il diniego sono meccanismi di difesa che utilizzano il simbolo del no, ma la negazione ha in sè qualcosa di progressivo nel senso che permette in parte l’emergere del materiale rimosso ed è rivolta all’intrapsichico. Come si esprime Freud (p.198) “la negazione è un modo di prendere conoscenza del rimosso, in verità è già una revoca della rimozione, non certo però un’ accettazione del rimosso. Si vede qui come la funzione intellettuale si scinde dal processo affettivo”.