Lo scritto del dottor Medri dal titolo Il diniego. Riflessioni, mi ha colpito per la sua tagliente precisione e perché contiene ragionamenti che mi occupano la mente da alcuni anni. Ha dato voce e reso sistematici alcuni nodi teorici e clinici radicali che trovo tanto scomodi e tormentosi, quanto non aggirabili, come a dire: bisogna occuparsi di queste cose, o queste cose si occuperanno di noi.
Per commentare punto per punto l’articolo bisognerebbe scrivere un libro. Limiterò dunque l’analisi a pochi argomenti, dicendo subito che non sono più importanti di altri, ma che si sono imposti alla mia attenzione per primi. In cuor mio, mi spiace di non essere sistematico ed esaustivo, ma così facendo mi comporterei come chi, invitato ad una festa, si mangi da solo tutte le tartine e finisca lo champagne. Morigeratezza ed educazione impongono di contenersi.
Nel mio commento ho deciso di adottare uno stile poco accademico – un po’ allegrotto, per così dire – perché essere concettoso, pesante e tetro su temi del genere potrebbe causare al lettore un attacco di gastrite, cosa che amerei evitare.
Uno dei miei amici più cari, Giovanni Piana, è un filosofo assai noto. La nostra amicizia è nata grazie alla comune passione per il violino, ma prima, ai tempi dell’Università, era stato uno dei miei professori e mi aveva “segato” (termine gergale studentesco arcaico, forse caduto nell’oblio e sostituito da chissà quale nuovo vocabolo) all’esame di filosofia teoretica. Da allora il mio Superio absburgico, quando voglio tirare in ballo la filosofia, si erige e agita il dito dicendomi: “Stai attento, bestia! Ricordati dell’esame di filosofia teoretica!” So che ai colleghi scricchiolano i denti quando si inseriscono argomenti di filosofia nella psicoanalisi. Hanno ragione. Spesso la cosa produce un nebbione teorico uguale a quello che, d’inverno, si incontra nella bassa padana tra Cremona e Piadena. Quindi ci starò attento, e assicuro che non si tratta di dare sfoggio di cultura o di tentare svolazzi narcisistici. Il mio Superio vigila inflessibile.
Per discutere appropriatamente – a parer mio – dell’articolo del dottor Medri, è utile riferirsi anche a testi e autori non psicoanalitici. Il primo è il libro di un Nobel per la fisica, Steven Weinberg, To explain the world - The discovery of modern science, HarperCollins, 2015. Il secondo è un articolo apparso sul Sole 24 ore il 20 settembre 2015 (inserto della domenica), pagina 29, dal titolo La scienza secondo Weinberg, a commento dello stesso libro di Weinberg e a firma di Ermanno Bencivenga, filosofo e professore in logica, etica e filosofia politica all’Università di Toronto. Il terzo è la Repubblica di Platone (e qui il mio Superio inizia a innervosirsi), segue Al di là del principio di piacere, di Freud, e per ultimo non un libro, ma il mio coniglio. Io ho un coniglio dell’età di circa 7 anni, ufficialmente proprietà di mia figlia, ma che in realtà è mia responsabilità curare e nutrire. Vive in una gabbia di ferro della superficie di circa mezzo metro quadro vicino alla porta del bagno.
La distinzione tra diniego e negazione mi sembra del tutto necessaria. La complessità del concetto di diniego, come ne tratta il dottor Medri, sta nel fatto che si trova all’incrocio tra pressione sociale (il magma delle tendenze sociali esattamente odierne), funzioni psichiche e transfert. Per quanto riguarda la negazione, che del diniego fa in effetti un uso – come dire - post moderno, non è certo una cosa che abbiamo inventato noi psicoanalisti. La negazione è una macchina simbolica che permette l’esistenza del pensiero in quanto tale. Non potremmo pensare senza la funzione logica della negazione. Di ciò non può non essere intrisa la nostra pratica. Che uno sia uno psicoanalista, uno stregone malese, o un tranviere di Praga, usa la negazione per poter pensare. In Freud la negazione ha alcune accezioni – come del resto ricorda anche il dottor Medri. La prima è una sezione, una parte, un settore della macchina nota come lavoro onirico (e qui il pensiero di Freud comunica direttamente con la disciplina della Logica), la seconda indica l’eclissi, l’esclusione dell’immagine fallica nella madre, la terza il motore di un effetto tipico delle perversioni (e non solo), ossia, la scissione dell’Io. Come si vede, si tratta di accezioni diverse e non sovrapponibili. Certo, possiamo rubricarle sotto la categoria della difesa, ma io credo che questo termine causi una certa confusione di piani. Confusione che - resti tra noi - Anna Freud fa con un certo entusiasmo. Il diniego, come mi sembra di aver capito nella elaborazione teorica del dottor Medri, è strettamente legato al transfert. Qui mi permetto di dire che non ci scommetterei la pelle sul parallelismo diniego/realtà esterna e negazione/realtà interna. Preferirei dire che il diniego è una difesa moderna che ha di mira, vive, si nutre, cresce nel transfert, anzi, ha di mira esattamente qualcosa dell’analista (e poi dirò che cosa) mentre la negazione esiste in quanto tale indipendentemente dalla relazione analitica. Mi spiego. Da bambino, all’età di 7 anni, avevo messo in piedi un labirinto di rituali ossessivi che avrebbero fatto la gioia di Freud. Recitavo litanie di preghiere per mezze ore, e se sbagliano a pronunciare una sola sillaba dovevo ricominciare da capo. Naturalmente la faccenda non si fermava qui. Non mi ero privato di nulla, ero un vero virtuoso del campo. Il festival dei meccanismi di difesa era quasi completo. Rendere non avvenuto, identificazione con l’aggressore, e, naturalmente, la negazione. Il non voler vedere, il negare, era l’arma più efficace per garantire la rimozione di spinte aggressive inaccettabili al mio povero Io. Nelle mie analisi personali, alcune volte la negazione ha inglobato dati di fatto della vita reale per rendere impossibile il prosieguo della cura. Devo dire che è capitato assai raramente, perché faccio l’analista e ho sempre cercato di andare contro gli effetti della rimozione – noi siamo gente così. Altre persone, i nostri pazienti, come racconta il dottor Medri, rivestono sistematicamente la negazione con il contenuto di dati inoppugnabili della vita reale, in questo modo bloccando l’analisi. Ora. Quando avevo 7 anni, non avevo un analista (avevo la mia mamma), ma la negazione come strumento principe della rimozione era comunque in atto. Mi è servito un analista per architettare un diniego. Insomma: non occorre un analista per negare (in senso psicoanalitico). Occorre invece un analista per mettere in scena un diniego. Quindi direi che al binario realtà esterna/realtà interna preferirei quello fuori transfert/nel transfert. Inoltre – ecco qua, arriva la filosofia, ma non solo, anche le neuroscienze - la cosiddetta realtà risulta in massima parte da una nostra costruzione interna. Ormai, si sa. Ripeto immediatamente, per tenere il dito puntato su un certo problema, che quando dico nel transfert, intendo qualcosa di preciso nel transfert. Lo sto ripetendo per la seconda volta.
Un’altra obiezione all’uso della diade realtà esterna/realtà interna è la stessa teoria freudiana dell’interpretazione dei sogni (che mi piace pazzamente). È vero che il resto diurno è un pezzo di realtà (Freud nel sogno della monografia botanica vede un libro di botanica per davvero in una vetrina), ma l’essenziale è, che quel pezzo di realtà funziona da immagine mentale per costruire un gruppo di simboli prodotti dal lavoro onirico. Il diniego rispetto alla negazione mi sembra costruito nello stesso modo in cui il lavoro onirico costruisce il sogno a partire dal resto diurno. Qui, di realtà, ce n’è poca. E credo che ce ne sia poca anche nel diniego. Ancora una volta, mi sembra che tra diniego e negazione l’elemento differenziale non sia la realtà, ma qualcosa nel transfert. Che cosa?
Siccome è la terza volta che lo ripeto in modo oscuro, è ora di chiarire, per quel che si può: nel diniego l’elemento differenziale si trova in uno scontro tra il mondo intenzionale dell’analista in azione, e le difese del paziente moderno. Non è che la faccenda sia molto più comprensibile, lo ammetto. Per spiegarmi devo prendere il ragionamento un po’ alla larga. Tutto il resto del mio commento ha lo scopo di spiegare cosa intendo per mondo intenzionale dell’analista in azione e paziente moderno (qualcuno qui subodorerà che c’entra il mio coniglio). Faccenda, mi spiace, un po’ intricata, che credo però stia al cuore delle attenzioni del dottor Medri. D’altra parte, il suo è un articolo labirintico, e le istruzioni per uscirne non possono essere semplici.
Andiamo ai testi.
Steven Weinberg è uno scienziato, un fisico americano, che ha vinto il Nobel per la fisica nel 1979. Leggendo il suo libro, si sente un entusiasmo irrefrenabile per l’indagine nel campo della natura e una notevole insofferenza per il pensiero statico dell’Accademia. Weinberg analizza la storia della scienza giudicando gli autori, anche antichi, a partire dallo standard attuale delle scienze sperimentali, in particolar modo dell’astrofisica.
Scrive in uno dei passi più scoppiettanti:
I Agree with Lindberg [nota mia: David C. Lindberg, storico della scienza, autore del libro The beginning of western science] that it would be unfair to conclude that Aristore was stupid. My pourpose here in judgging the past by the standards of the present is to come to an understanding of how difficult was for even very intelligent person like Aristote to learn how to learn about nature. Nothing about the practice of modern science is obvious to someone who has never seen it done (p. 30).
È un punto di vista estremo, remoto. Facendo apprezzare il baratro d’un vortice temporale di 2400 anni, Weinberg legge Aristotele con il suo occhio attuale per misurare la distanza del Moderno (lui stesso) e dell’Antico (Aristotele) rispetto alla Verità che, lei, se ne sta lì ad aspettare tutti e due da sempre. Una triangolazione vertiginosa. Un’idea abissale della Verità, nube misteriosa che ci aspetta all’orizzonte, e che – non si sa perché - si lascia penetrare più facilmente dalla lingua matematica che da altro. È un libro che consiglio di leggere perché, a me, ha fatto toccare con mano quanta distanza esista ormai tra la psicoanalisi e le scienze sperimentali, distanza che trovo allarmante, poco saggia, e che mi dà l’idea di una deriva da correggere. Ma questo è un altro argomento, che non posso certo affrontare qui.
Bencivenga sintetizza in modo preciso la posizione di Weinberg:
Il mondo è quel che è e aspettava solo di essere scoperto, così come aspettava solo di essere scoperta la disciplina (la scienza moderna appunto) che ne rivelasse la struttura.
Io ho letto il libro di Weinberg mesi fa, molto prima di leggere il testo del dottor Medri, ma le due cose si sono fuse insieme. Perché?
Posso immaginare Weinberg come una persona che è riuscita ad andare talmente lontano da poter vedere l’intera storia della scienza come un singolo oggetto complesso, eppure coglibile nella sua intera forma, grazie ad un livello di comprensione insolitamente lucido, distante, radicale, esatto, della sua disciplina attuale, la fisica, di cui egli è autorità indiscussa. Sottolineo due elementi: la comprensione esatta, e la distanza dalla quale lo scienziato Weinberg osserva il suo oggetto. E così fa il dottor Medri con la psicoanalisi e i suoi pazienti. Ecco perché si sono saldati. Se ne stanno in posizione remota.
La reazione di Bencivenga al libro di Weinberg è assai istruttiva.
Una persona collocata al vertice di suprema autorevolezza della scienza più autorevole che liquida tutto quello che non rientra nei suoi canoni come non scientifico, mette in deciso contrasto il sapere a lui disponibile con le credenze e le ipotesi (sballate) altrui e nega con fermezza che giudizi come il suo possano essere culturalmente motivati forse non è irriverente, forse è arrogante. E viene da domandarsi perché mai una persona così dovrebbe studiare il passato...
Detto per inciso, il libro di Weinberg non è arrogante. Èradicalmente anti accademico. D’altra parte la reazione di Bencivenga è un esempio divertente di diniego. A Bencivenga, Weinberg fa paura.
Mettiamo Weinberg al posto del dottor Medri, e Bencivenga al posto dei genitori del figlio sedicenne, i pazienti accademici di alto livello. Ciò che appare evidente, è la distanza di chi da un lato parla da una posizione lucida, remota, vede la verità (un termine esplosivo, rovente, difficile da maneggiare come un grosso gatto selvatico), e dall’altro lato, di chi viene investito della sua stessa ignoranza, e si difende chiedendo a gran voce giudizi culturalmente motivati, come scrive Bencivenga.
Uno dei due ha torto? Qui qualcuno sbaglia? Weinberg, il dottor Medri esagerano? Credo di no. E qui tocca a Platone, Freud e al mio coniglio.
Nonostante citi Aristotele, il testo del dott. Medri è platonico. Mi riferisco al mito della caverna, nel VII libro della Repubblica. Lasciamo stare l’interpretazione dello stesso Platone, circa il sommo bene e la ragione. Buttiamo a mare 2500 anni di commenti, facciamo arrabbiare i professori, facciamo allegramente come Weinberg. Proviamo a leggere Platone come un romanzo nuovo comprato alla stazione prima di un viaggio in treno. Non illustro qui il mito – basta leggerselo in pochi minuti in Internet ad esempio qui: https://it.wikipedia.org/wiki/Mito_della_caverna) – ma riporto una parte del testo che mi serve per continuare nel mio incerto ragionamento.
Orbene, diss’io [Socrate], ove essi fossero sciolti dai loro ceppi e guariti dalla loro stoltezza, rifletti che cosa naturalmente dovrebbe accader loro. Quando qualcuno fosse costretto d’improvviso a levarsi e volgere in giro il collo e camminare e guardare la luce, e nel fare tutte queste cose soffrisse, e per lo sfolgorio fosse incapace di contemplare direttamente quegli oggetti, dei quali prima vedeva solo le ombre; che cosa credi tu [Glaucone] che egli risponderebbe a chi gli dicesse che prima non vedeva se non cose vane, mentre ora, essendo più vicino alla realtà e avendo lo sguardo rivolto a ciò che più partecipa dell’essere, vede meglio; e, additandogli ciascuno degli oggetti che gli passano davanti, gli domandasse che cosa è, e lo costringesse a rispondere? Non credi tu che egli rimarrebbe perplesso, e riterrebbe che le cose allora vedute fossero più vere di quelle che gli si mostrano ora?.....E chi si provasse a sciogliere quegli uomini e a condurli in alto, se mai potessero averlo nelle mani, non pensi tu che lo ucciderebbero senz’altro?
– Ma certo, rispose [Glaucone].
Ecco tutti i pazienti descritti dal dottor Medri. Suo figlio è matto! urla il collega psichiatra ai genitori che, come tutti i genitori di psicotici, negano fino alla morte la follia del figlio (ma è del resto del tutto logico). E chi si provasse a sciogliere quegli uomini e a condurli in alto, se mai potessero averlo nelle mani, non pensi tu che lo ucciderebbero senz’altro?
Tutti i pazienti fanno così, e per tutta la durata dell’analisi, seduta per seduta, momento dopo momento, sempre, per anni. Non solo loro, ma anche noi, gli analisti. E il tranviere di Praga, e lo stregone malese.
E il diniego?
Il dottor Medri sente che c’è qualcosa di nuovo, un nuovo tipo di abitante della caverna. Uno che non solo nega, ma nega – come dire – al quadrato. Me ne sono accorto anche io. Mi sono dato questa spiegazione.
Primo punto: il magma delle tendenze attuali nella società.
L’uomo contemporaneo è educato a vivere in un reality. È educato a pensare che tutto è normale, basta aspettare e insistere. Piano piano, qualsiasi cosa diventa cosa quotidiana e normale. E come è possibile? Da non sociologo temo di dire cose imprecise, ma il mio fiuto punta qui: oggi il Mercato equivale a un ambiente naturale. L’equiparazione tra leggi del mercato e leggi della natura è ormai avvenuta nei fatti. Il nostro ambiente naturale, il nostro habitat, è il mercato e le sue leggi. Una nuova gabbia per conigli, moderna, sofisticata, perfetta, che si auto sostenta grazie a una tecnologia potente, mai vista. Nulla sfugge al Mercato. Il Simbolo è diventato Realtà.
Cade sotto la penna del dottor Medri, non a caso, il termine di pulsione di morte. E qui tocca a Freud. Semplifichiamo in modo estremo. La pulsione di morte è questo. All’ Homo sapiens è assolutamente indispensabile vivere in una scatola da scarpe. Un incalcolabile numero di esemplari di questa strana specie scambia la scatola da scarpe per il Mondo. Alcuni riescono, come le lumache, ad estroflettere da un buco della scatola un occhio peduncolato, e a vedersi da fuori. Sono i nostri pazienti potenziali. Per gli altri, non c’è niente da fare. La costruzione della scatola da scarpe è mossa verosimilmente da una spinta misteriosa interna, che chiamiamo pulsione di morte. Essa ha un effetto inesorabile e fa crepare per davvero prima, e peggio. Tende ad abbassare il muso dell’aereo in modo costante (seppure a volte inavvertibile), e tende a far atterrare il velivolo molto prima di quanto avrebbe potuto, e con un atterraggio molto più rude, duro di quello che avrebbe potuto fare. La scatola da scarpe del Marcato è la nuova caverna, sofisticata, inaggirabile, senza vie d’uscita. Essa si salda in modo mirabile – in termini informatici si direbbe che è compatibile – con la pulsione di morte.
Secondo punto: le funzioni psichiche. Qui è facile, sappiamo già di che si tratta conosciamo: la negazione.
Terzo punto, decisivo, umbratile, complesso: qualcosa nel transfert.
Da poco più di un secolo è apparso un nuovo tipo di homo Sapiens. La pratica psicoanalitica rende possibile un fatto mai visto prima. Nessuna persona entra in intimità di pensiero con un’altra come un analista con il suo paziente. Ciò si ripete, per un singolo analista, centinaia di volte nella sua vita. Se un analista è colto, attento, dotato di spirito scientifico, un po’ alla volta, inesorabilmente, come Weinberg, si spinge sempre più lontano. Non riesco ora a rendere meno implicita l’idea di questa lontananza. Ma di certo nel transfert si sente. Questo è il qualcosa nel transfert di cui cerco di rendere conto, e che scatena il diniego. È la somma dell’intenzione di analizzare che anima quel particolare analista lì, più il fatto che questa intenzione il paziente – forse, è la mia ipotesi – la sente provenire da un luogo remoto, a cui l’analista è approdato grazie alla sua stessa pratica, doti ed esperienza. Con il termine di intenzione di analizzare intendo l’insieme di desideri che tengono quell’analista lì, lì seduto a fare il suo mestiere. Uno di questi desideri, io credo, è identico a quello dello scienziato, il desiderio di discernere, di capire come funziona la macchina sia nei particolari che nel suo insieme, e ha come campo di lavoro – diciamola all’ingrosso - l’inconscio del paziente. Certamente anima Weinberg. Certamente anima il dottor Medri. E, assai più modestamente, anche me. Naturalmente, non è certo l’unico, idealizzato, sacro motore – sarebbe un guaio. Ma è un ingrediente essenziale. E spinge l’analista, inesorabilmente, sempre più lontano.
Ora pensate al paziente in cui domina l’idea dell’esistere in un universo dominato dalle leggi del mercato (è una scatola da scarpe quasi perfetta!) a cui la società dia un valore assoluto, e immaginate che incontri un uomo che fa provenire da un luogo distante, remoto il suo desiderio di analizzare acuto, distillato, perfezionato negli anni. Questo è davvero il contatto tra il diavolo e l’acqua santa!
Certo, si pone un problema tecnico nuovo e interessante. Qui nessuno sbaglia. Non si può accusare Weinberg di essere un uomo geniale ed appassionato, non lo si può accusare di essere quello che è. Né si può accusare Bencivenga di avere paura di Weinberg perché Bencivenga è Bencivenga e Weinberg è Weinberg e Weinberg si mangia Bencivenga in un boccone. Venendo a noi, il problema tecnico che si pone è come graduare, mettere all’opera la distanza abissale tra luogo in cui dimora l’analista e luogo in cui si trova il suo paziente moderno che, avendo il sentore di questa distanza, si difende tramite il diniego (come lo intende il dottor Medri).
Siamo arrivati al mio coniglio. Vive in una gabbia di mezzo metro per mezzo metro. È stretta, ma i miei antenati erano contadini e io tengo il coniglio, come loro, in una gabbia piccola, alla faccia degli animalisti. Lo nutro amorevolmente. Da tre anni non chiudo mai la porta della gabbia, porta grande, che gli permetterebbe di uscire in qualsiasi momento. Ebbene: non esce mai. Se ne sta lì, contento. Non ha per nulla un aspetto sofferente o depresso. Orecchie dritte, sguardo mite, rosicchia costosissime crocchette piene di vitamine, che ho assaggiato anche io. Sono ottime. Guardandolo nella gabbia aperta, lui lì, che non esce, mi è venuto spesso da pensare a certi miei pazienti e a quelli del dottor Medri. Ma mi è anche venuto da pensare che è sempre possibile immaginare un Altro Analista, dietro di me, che è andato con la mente più lontano di me, e vede me come io vedo il mio coniglio... e poi, dietro l’Altro Analista, un Altro Ancora, che è andato ancora più lontano e che...