Pratica Psicoterapeutica

Il Mestiere dell'Analista
Rivista semestrale di clinica psicoanalitica e psicoterapia

NUMERO 14
1 - 2016 mese di Giugno
CLINICA
DIFESA DAI RICORDI O RAPPRESENTAZIONE DI RICORDI? COMMENTO ALL'ARTICOLO DI GUIDO MEDRI
di Sara Maccario

Un generoso e prezioso intreccio, quello descritto di Guido, tra la teoria psicoanalitica e i profondi movimenti emotivi che sa suscitare.

Guido porta l’attenzione su come…

 

...Il diniego, per come si presenta nei casi presentati, si pone per l’analista come una sfida impossibile, in quanto si sottrae all’elaborazione. Il paziente porta, a suffragio dell’interruzione, un argomento extra analitico, il dato di realtà, e l’analista viene privato dello strumento che possiede, non gli è dato di ricorrere all’interpretazione.

Il paziente ricorre ad una manovra elusiva che lo sottrae alla messa in discussione. Non è lui che vuole l’interruzione, è la pressione dei dati di fatto che lo forzano a quella decisione. Anzi, quasi sempre giunge ad affermare che gli dispiace, se potesse continuerebbe.

 

Ebbene alcuni pazienti, arrivati a comprendere a livello conscio quanto alcuni tratti del loro malessere affondino le radici in situazioni esperienziali inconsce della loro esistenza, interrompono la terapia. Alle volte l’interruzione avviene in maniera brusca ed improvvisa creando nel terapeuta probabili sensazioni di impotenza, incredulità e arrovellamento interno. Ma cosa accade? Cosa fa sì che quell’evento esterno, ammettiamo, improvviso, assuma su di sè un valore che, apparentemente, pare annebbiare e allontanare un lavoro terapeutico caratterizzato da una relazione tra due persone?

Potremmo dire la relazione stessa, o per meglio dire, i contenuti emotivo-relazionali inconsci fuoriusciti all’interno di quella relazione terapeutica. Un’esperienza relazionale terapeutica conscia avente obbligatoriamente relazionali rimandi inconsci, funzionali a scomodare, sollecitare, infastidire, ammaliare il sistema difensivo di quel soggettivo psichismo.

Interruzioni terapeutiche la cui forma psichica si potrebbe disegnare sugli assi delle ascisse e delle ordinate intersecando le innumerevoli emozioni appartenenti al nostro paziente. Quante volte, durante il corso della propria esistenza, il nostro paziente, si sarà trovato ad interrompere situazioni relazionali, oppure avrà interrotto alcune relazioni evitando di interromperne altre, o invece in quali occasioni avrà evitato situazioni di separazione proseguendo nella cosiddetta negazione o diniego della vita affettiva? Quanto funzionale sarà stato il costituirsi del diniego e/o della primaria negazione per il suo psichismo? Alle volte sarà stato l’unico o il preferenziale reiterato movimento psichico capace di far sopravvivere, seppur nascoste, porzioni di un Sé ferito da esperienze abbandoniche o di perdita, poco o per nulla metabolizzate. Un Sé, dunque, avente scarsa possibilità simbolica, ma “capace” di mettere in scena tale impossibilità simbolica.

Una “messa in scena” che, a parer mio, non parla solo di difese, ma di comunicazioni.

Il paziente che interrompe la terapia, lasciando nella stanza analitica la propria assenza, impone, in qualche modo, anche a noi un’interruzione; un’assenza che ci farà sperimentare vissuti di perdita, uniti alle emozioni ad essi annesse. Un tutto condito dall’impotenza di non poter usare quel prezioso materiale insieme al paziente. Certamente si determinerà una situazione di perdita reale creata dallo psichismo del paziente che “contemporaneamente” si troverà a sperimentare un vissuto di assenza e i relativi stati d’animo ad essa connessi: tutto questo lo potremmo definire come la presente veridicità di una manifestazione intrapsichica del paziente. Una contemporaneità di assenza e presenza create da un agito che, da una parte interrompe lo svolgersi concreto della funzione terapeutica, dall’altra diventa una decodifica emotiva intrapsichica del paziente. Bene, ma rimane il fatto che la terapia si interrompe? Certamente.

Vero anche che un gruppetti di analisti, partendo dalle suggestive e corpose riflessioni di Guido, va palesando la propria presenza attraverso riflessioni scaturite da tale argomentazione terapeutica: l’assenza del paziente che attiva la presenza di pensieri. Una presenza di pensieri che abiterà, in maniera differente, sia l’intrapsichico dell’analista che del paziente, un paziente che, attraverso differenti consapevolezze, manterrà sullo sfondo del proprio psichico sensazioni e pensieri scaturiti dall’interruzione. In qualche modo, dunque, la terapia si interrompe concretamente, ma nell’interno relazionale del paziente gli aspetti emozionali, legati all’interruzione, rimarranno emotivamente presenti.

Il paziente che interrompe la terapia è come dicesse: “Metto in scena quanto ho sperimentato concretamente o in fantasia, facendo interpretare a te, analista, il ruolo che, a suo tempo, ho dovuto forzatamente sperimentare: l’abbandonato, quello negato, non desiderato, sminuito, il confuso ecc”. Diniego? L’interruzione terapeutica mi appare piuttosto un riprodurre, nel qui ed ora, quanto accaduto in un là e allora caratterizzato da una difficoltà a simbolizzare, difficoltà che venendo agita non equivale a negare, quanto a comunicare la suddetta difficoltà psichica. Il paziente “crea” la situazione di perdita con i consequenziali stati emotivi ad essa legati come spinto da un informe bisogno di sentire le emozioni fuoriuscite dal suo agito, non di capirle. E’ indubbio che ogni interruzione terapeutica sarà legata ad una struttura psichica che modificherà il gradiente di consapevolezza legato a tale agito. I processi di interruzione terapeutica si potrebbero osservare come drammatizzazioni di vissuti impressi all’interno di un intrapsichico bisognoso di ripetere nella speranza di ricordare/sentire le emozioni legate a profonde ferite di perdita.

Interrompere la terapia non per difendersi dal ricordare, ma per rappresentare i ricordi.

Alle volte il paziente torna dopo aver agito l’esperienza di perdita, altre volte continuerà nell’agire esperienze di perdita senza mai fare alcun ritorno nella stanza, altre volte si riuscirà a depositare sul traguardo disegnato dall’imminente interruzione brevi riflessioni che il paziente porterà con sé. In qualsiasi caso la mancanza della terapia andrà a rappresentare situazioni di mancanze, insoddisfatti bisogni sperimentati o fantasie inconsce del paziente. Da una parte il paziente si renderà responsabile dell’interruzione, dall’altra sperimenterà la consequenziale situazione di mancanza: attività e passività psichica presenti all’interno di un’azione.

In fin dei conti la relazione terapeutica non è forse quel luogo relazionale entro il quale saranno smatassati i filmati antichi relazionali costituiti da frammenti esperienziali di legami interrotti, confusi, incostanti e distorti affettivamente? Un’antica aggressività alle volte consapevole, altre completamente inconsapevole; emozioni che popoleranno la stanza dell’analista e la relazione terapeutica delineando così legami di dipendenza stropicciati, mortificati e deficitari nella costanza dei legami stessi. Un’esportazione di precipitati psichici relazionali caratterizzati da dosi di impotenza emotiva che il lavoro analitico andrà a sollecitare, riproducendo nel legame di dipendenza analitica le forme di antiche dipendenze. Il modo attraverso il quale la relazione analitica verrà “usata” dal paziente andrà a delineare le fattezze dello psichismo del paziente: l’uso che il paziente farà del setting descriverà la forma del proprio setting intrapsichico affettivo-relazionale.

Il paziente, andandosene, ripropone elementi di identificazione con l’“aggressore”, un oggetto antico che probabilmente sarà stato deficitario e incostante nel soddisfacimento dei bisogni emotivi del paziente; un aggressore allo specchio con una “vittima” interpretata dall’analista, una vittima lasciata sola e colonizzata dall’assenza dell’altro, un’assenza non necessariamente legata a concrete mancanze dell’altro fuori da sé.

Un vissuto di perdita che per alcuni pazienti “deve” transitare attraverso reali ed esterne distanze, interruzioni, agiti, legami interrotti che diventeranno così modalità comunicative tangibili e prioritarie, forse, a future possibilità comunicative maggiormente intrapsichiche e non agite. L’interruzione terapeutica andrà ad esprimere psichicamente un’emotività relazionale sufficientemente ferita e dunque in qualche modo interrotta: perché non accoglierla come veritiera rappresentazione di accadimenti affettivo-relazionali poco decodificati? Non si tratta di non poter vedere qualcosa, ma di un profondo bisogno di riprodurre accadimenti che hanno fortemente ferito un’identità psichica in via di evoluzione. Nessuna destrutturazione nei confronti di difese e resistenze, fonte della nostra sopravvivenza psichica, forse solo riflessioni su di una psicoanalisi che, usando la straordinarietà del suo passato, integri osservazioni di psichismi che hanno e stanno proseguendo nel presente.

In ragione di raccogliere le riflessioni di Guido mi sono domandata quanto l’analista, stante l’impossibilità di proseguire concretamente la terapia, potrebbe pensare all’interruzione terapeutica non solo come una difesa da qualcosa che si vuole allontanare, ma come passaggio obbligato per arrivare ad avvicinare qualcosa che nell’intrapsichico alloggia, ancora, senza una forma. Devo allontanarmi per potermi, forse, ri-avvicinare in maniera maggiormente differenziata, un movimento che, alle volte, può passare attraverso l’agito. Magari non potrà mai più essere osservato analiticamente nel concreto, ma il paziente lo avrà “potuto” agire grazie alla relazione analitica intessuta: se ci saranno le condizioni psichiche per proseguire oltre l’agito, dirigendosi verso una simbolizzazione, il paziente potrà fare ritorno nella stanza di analisi, in caso contrario il paziente proseguirà la sua vita, prevalentemente, riproducendo le proprie angosce.

L’analista può diventare quell’Io ausiliario esterno da “spiare” sulla linea di perdita tracciata dal paziente, un’osservazione che la maggior parte delle volte sarà inconsapevole, ma registrata nei profondi meandri psichici. In qualche modo, la reazione che l’analista manifesterà di fronte all’interruzione terapeutica apporterà al bagaglio emotivo del paziente frammenti emotivi che il paziente riporrà nel proprio zaino durante il trasloco dalla stanza di analisi, portandoli con se.

L’emozionante articolo di Guido, nel sottolineare come il diniego possa essere una situazione sufficientemente ripetitiva nella stanza di analisi, al contempo sembra sottolineare quanto l’analista, differentemente da qualsiasi altro terapeuta, si trovi costantemente di fronte alla fondamentale e straordinaria differenza tra “guarire/risolvere” e accogliere, osservare, stare, essere e sentire insieme al proprio paziente e alle forme di sofferenza che alloggiano la sua mente. Non dunque qualcuno chiamato a curare per guarire, ma qualcuno che all’interno di una relazione d’aiuto che, ad esempio, può venire interrotta possa mantenere, ugualmente, nel proprio psichismo quell’emotiva faticosa situazione di perdita caratterizzata da dosi di aggressività/paura.

Cosa significhiamo quando ci riferiamo all’analizzabilità di un paziente? Ogni paziente e ogni analista daranno forma ad una relazione terapeutica unica, caratterizzata dalla presenza di due strutture di personalità. Freud sostiene che nessuno può essere mai del tutto padrone a casa propria e, dunque, mi piace pensare che la psicoanalisi appartenga ad un modo di essere, sentire, osservare e riflettere alla relazione terapeutica come a qualcosa di simile ad un’area transizionale entro la quale saranno rappresentati innumerevoli antichi vissuti appartenenti alla coppia terapeutica caratterizzata da ruoli, conoscenze ed emotività differenti.

Chi è analizzabile, quanto, in che modo? Fondamentale è la valutazione strutturale che ogni analista osserverà nel proprio paziente, un’osservazione che porrà in essere le modalità terapeutiche attuabili e i consequenziali livelli di profondità psichica. Decidere se e quanto un soggetto possa essere “analizzabile” lo annovero tra quei processi definiti “false credenze”; ogni soggetto, incluso ogni analista, sperimenterà un personale percorso terapeutico/analitico osservando e usando le sfaccettature della propria struttura psichica che traccerà limiti, confini, avanzamenti e approfondimenti sicuramente non decisi a livello conscio. Il luogo di arrivo sarà stato già deciso da un passato relazionale: capita che un buon incontro tra analista e paziente apporti, nel tempo, osservazioni e avvicinamenti psichici nemmeno immaginati.

La “cura” psicoanalitica non tende a guarire, ma osservare ciò che avviene all’interno di quella attuale straordinaria relazione, irripetibile in ogni elemento nevrotico, psicotico; una richiesta di aiuto all’interno di un presente che si dovrebbe porre al servizio di un passato relazionale affettivamente stropicciato e alle volte profondamente distorto e deprivato. Penso l’incontro analitico come una relazione che si crea e sviluppa tra due persone, un processo costituito da un flusso di innumerevoli sensazioni e accadimenti concreti, uno tra essi potrà essere rappresentato dall’interruzione terapeutica effettuata dal paziente: un elemento che non andrà ad annullare nulla del lavoro effettuato, non toglierà valore a quanto sperimentato nel setting terapeutico. L’interruzione del processo terapeutico sarà la riproduzione concreta di un vissuto o di una fantasia inconscia costituenti la forma identitaria del Sé del paziente: una specie di frammento onirico diurno messo in atto non per difesa, ma come “indizio” relazionale ai fini di un maggior avvicinamento a quel tesoro identitario strutturale.

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