L’articolo di Medri è denso, illuminante, a tratti confuso e superficiale, quasi un abbozzo di un ragionamento complesso; appare contraddittorio ma forse è dialettico, in filigrana, come hegeliano è il contenuto del testo di Freud La negazione. Si occupa di grammatica e sintassi del negare –diniego, negazione, occultamento, minimizzazione, menzogna, razionalizzazione, scotomizzazione, proiezione, dissonanza cognitiva, ecc.−, che è materia di cui politici e bigotti, fanatici e demagoghi sono specializzati, cui attingono grandi scrittori e poeti (maestra, ad esempio, Jane Austen in Orgoglio e pregiudizio) per giocare con «l’ambiguità estetica» (E. Kris) dei multipli significati. Ed è quotidianamente usata in qualche modo da ognuno di noi.
Oltre al merito di sollevare il problema clinico, non ancora sufficientemente chiarito, della differenza fra negazione (Verneinung) e diniego (Verleugnung) –disconoscimento, rinnegamento, che dir si voglia−, l’articolo rende acutamente evidenti, sfiorandoli, molti temi interessantissimi, tra cui: 1) il bisogno claustrofilico degli analisti contrapposto alla tendenza claustrofobica degli attuali pazienti; 2) la fine della psicoanalisi; 3) il fine dell’analisi; 4) la crosta del passaggio dalla fase “terapeutica” a quella “analitica” nei trattamenti psicoterapeutici e la fine di un’analisi; 5) lo scacco al trattamento analitico di cui è capace la batteria difensiva “diniego-proiezione-identificazione con l’aggressore”; 6) la corruzione del Super-io; 7) il rapporto fra la dissociazione e le altre difese; 8) il diniego sociopolitico della psicosi; 9) la funzione nel diniego nella dimensione etica e nella problematica dell’obbedienza (vedi gli esperimenti di Stanley Milgram); 10) eccetera.
Gli spunti sono moltissimi e condivido quasi tutte le riflessioni (davvero non proprio tutte: difficile concordare sulla sua posizione in merito alla legge 180). Queste note non sono dunque un commento ma una semplice rilettura incentrata su una domanda, peraltro già implicita nel testo di Medri, che mi sembra centrale sui casi clinici raccontati.
E dunque inizierei dicendo che il diniego è un modo per disconoscere di avere visto qualcosa che è stata percepita. Tenere qualche cosa di spiacevole fuori dalla coscienza, negarla, è la funzione di qualsiasi difesa, sia come meccanismo inconscio sia come scelta preconscia o conscia (evadere dalla realtà quotidiana con fantasie a occhi aperti o con qualche svago). Freud ha riflettuto sul tema del negare fin dagli studi sull’isteria, ma è in un brevissimo articolo dal titolo programmatico, La negazione, che chiarisce la sua idea in merito: al fallimento della rimozione subentra un nuovo sbarramento nei confronti del derivato, ciò che ne risulta è una sorta di accettazione intellettuale del derivato pulsionale, pur persistendo l’essenziale nella rimozione, dice Freud. Con la negazione il soggetto prende coscienza del rimosso, negandolo (“Non è mia madre…”). Freud prende lo spunto dal modo in cui, in varie circostanze, i pazienti presentano le loro associazioni: “Ora lei penserà che io voglia dire qualcosa di offensivo, ma in realtà non ho quest’intenzione”. Se non tiriamo in ballo la rimozione, la negazione si avvicina a quella forma che i linguisti chiamano preterizione. È proprio la negazione della verità (il rimosso) ciò che permette alla verità (il derivato) di esprimersi tramite una negazione; la verità si esprime tramite il suo esplicito rifiuto. Si potrebbe azzardare che la preterizione − in cui diciamo di tacere su qualcosa di cui invece parliamo (“Non ti dico il casino!”) − sia una delle forme coscienti della negazione nel senso freudiano, ma il tema della negazione in Freud è molto più complesso di come sembra (l’importanza e la ricchezza del testo freudiano sulla negazione sono messe in luce dal lavoro di Fachinelli – che fu il primo traduttore de La negazione – intitolato “L’ipotesi della distruzione in Sigmund Freud”). E se la negazione (Verneinung) ha a che fare con la rimozione, dunque con l’ipotesi di una scissione orizzontale della personalità, il diniego opera in un contesto di scissione verticale, cioè di dissociazione – Freud ne era consapevole. Nella formulazione freudiana, il diniego (Verleugnung), già presente in Psicopatologia della vita quotidiana (in realtà, l’idea era già presente in Bernheim: mi riferisco al concetto di allucinazione negativa), riguarda il disconoscimento di una percezione traumatizzante, in origine l’assenza del pene nella bambina. Una difesa non rara né pericolosa nel bambino – dice Freud −, che nell’adulto, però, potrebbe anticipare uno sviluppo psicotico. Infatti, nel testo sulla perdita della realtà nella nevrosi e nella psicosi, il termine diniego è usato nel significato di rinnegare la percezione di un aspetto della realtà (innamorata del cognato, Elisabeth von R. mentre era accanto alla sorella morta pensò: “Adesso è libero e ti può sposare”, e liquidò immediatamente il pensiero – cioè il desiderio – favorendo lo sviluppo della regressione isterica. Se avesse avuto una reazione psicotica, precisa Freud, avrebbe rinnegato la morte della sorella). È nel lavoro sul feticismo che Freud (1927) rivede le restrizioni poste al concetto di diniego come difesa primitiva. E riconosce che il disconoscimento si esprime molto spesso nella quotidianità. Di conseguenza, Freud introduce l’idea di due impostazioni psichiche − l’una fedele al rimosso e l’altra fedele alla realtà − che sussistono l’una accanto all’altra. Se nella scissione (dissociazione) è più forte la fedeltà al desiderio inconscio, l’esito è psicosi: la vita psichica predomina sulla realtà del mondo esterno. Se è più forte la fedeltà alla realtà esterna, è data la condizione della nevrosi. Una forza relativa di pari intensità fra le due parti dissociate caratterizza invece la perversione. È noto che Anna Freud aprì ancora di più le possibilità di significato del diniego, oscillando tra il considerarlo quale precursore delle difese, nei casi in cui l’attenzione è volontariamente deviata da qualcosa di spiacevole o minaccioso a qualcos’altro, oppure come una difesa vera e propria messa in funzione dalla parte inconscia dell’Io. Poiché non è chiaro in letteratura se il diniego sia una funzione dell’Io inconscio oppure della cosciente attività di percezione, bisogna riconoscere che anche questo termine (come moltissimi altri) finisce con assumere molteplici significati. Di fatto, nell’ambito clinico incontriamo una serie complessa di dinieghi in cui l’attenzione del paziente (e, spesso, anche del terapeuta) è soggiogata da un diverso tipo di forza che contrasta con la possibilità di consapevolezza: per esempio, alcuni disconoscimenti sono suscettibili di correzione tramite il ritorno dell’attenzione del paziente, mentre altri sono resistenti a qualsiasi intervento interpretativo da parte del terapeuta. E più in generale, sappiamo che il paziente omette molte cose in analisi (talvolta lo veniamo a sapere casualmente da informazioni provenienti da fonti esterne). In pratica, tutte le difese portano al diniego di qualcosa, e, in senso lato, il diniego è utile a tutti quanti per rendere meno penosi alcuni aspetti della vita. I bambini mantengono intatto l’esame di realtà e, con la fantasia e l’azione, sono normalmente in grado di negare tutto ciò che non gradiscono della realtà, e gli adulti non sono di meno. Il diniego per mezzo della fantasia non comporta un rinnegamento della realtà esterna, ma permette un gioco distensivo che non presuppone la confusione tra fantasia e realtà. Aspetti del diniego fanno parte di difese primitive, come nei pazienti ipomaniacali e psicotici.
È comunque difficile trovare una sistemazione teorica dei concetti di negazione e diniego. In senso stretto, il diniego è teoricamente distinto dalla negazione, come sappiamo. Abbiamo visto, per esempio, che la negazione ha a che fare con la verità, mentre il diniego con l’esistenza dei fatti, delle cose, degli affetti (Freud aveva parlato del dinego maniacale già nel 1894). Si può ad esempio denegare l’esistenza stessa di un oggetto e l’individualità di qualcuno al fine di renderlo mero strumento di conferme narcisistiche. La negazione, intesa come equivalente e nello stesso tempo superamento della rimozione, è ben altra cosa: un desiderio o un pensiero sono espressi in modo negativo. La negazione è associata alla nevrosi, il diniego alla psicosi. Racamier ha fatto l’esempio del giovane psicotico che per occultare il bisogno di separarsi da sua madre dichiara − verbalmente o mimando con lei il coito, come accadeva a un mio paziente in psichiatria − il suo desiderio incestuoso.
Nel pensiero attuale sulla pratica clinica, ormai, le due difese sono spesso confuse (tant’è che, in un primo tempo, Medri aveva intitolato l’articolo in discussione “La negazione”, mentre ora appare col titolo “Il diniego”).
Le situazioni cliniche raccontate da Medri sono quanto mai interessanti. A un certo punto precisa che, in ogni caso «la terapia s’interrompe quando si passa da una relazione che il paziente, in uno stato di sofferenza, intende di aiuto, ad un’altra che chiama in causa dinamiche profonde che richiedono un lavoro di elaborazione. Insomma quando la terapia si connota in modo più preciso non più come supportiva, ma come analitica.»
Le sue riflessioni sulle interruzioni prendono in considerazione sia il buonsenso che il pensiero analitico. Le ragioni per cui i nostri pazienti interrompono un trattamento analitico sono molte e specifiche nei diversi casi. Medri decide di prendere in considerazione una casistica particolare: le interruzioni motivate dall’uso del diniego da parte del paziente.
A ben vedere, forse solo due casi (quello in cui i genitori non chiamano lo psichiatra per una consulenza perché non vogliono riconoscere la psicosi del figlio, e quello del paziente che, dopo un anno di terapia, scopre che il padre da lui tanto amato si era comportato in maniera ben diversa da come lui aveva sempre creduto) soddisferebbero il principio teorico del diniego: per occultare la percezione della psicosi del figlio i genitori usano il diniego in modo psicotico; per evitare la propria ostilità, il paziente nega a sé stesso di avere avuto un padre freddo e sadico. Possiamo dire, dal materiale a nostra disposizione, che i pazienti degli altri casi disconoscano la realtà esterna? Non direi. Si difendono con la negazione, come la intese Freud? Ancora no. Medri scrive che «in tutti i casi clinici presentati, la resistenza che ha portato all’interruzione ha a che fare con il rifiuto della dipendenza dall’analista, mentre abbiamo evidenziato come fosse presente un’alterazione dell’Io». Comunque sia, sembra che tutti abbiano interrotto l’analisi quando si stavano avvicinando a un tema per loro troppo angosciante. Per alleggerire, potremmo sorridere pensando che tre pazienti abbiano seguito un consiglio di quel tal “Salvatore dell’Io” su come sbarazzarsi dello psicoanalista: Emigrare! Avvicinatosi dopo due anni al problema centrale con la madre (che non vedeva da quasi vent’anni) il dirigente interrompe improvvisamente la terapia e pochi mesi dopo fa sapere all’analista che si è trasferito a Francoforte. C’è il giovane figlio dell’aviatore morto in un incidente aereo durante una gara, che interrompe l’analisi mentre sta lavorando sulla difficoltà di vincere a tennis (competizione transferale?) e accetta l’occasione di recarsi in California a proseguire gli studi universitari. Infine, c’è la paziente perfezionista che lavora in una multinazionale a direzione cinese e decide di trasferirsi a Shangai interrompendo la terapia nel giro di un mese. Poi c’è il caso della terapeuta che interrompe il trattamento dopo una sessantina di sedute (monosettimanali), proprio quando è procinto di svelare un problema importante di cui non era riuscita a parlare.
In un certo senso, con questi flash clinici sembra che Medri proponga materiale per una riflessione sulle ragioni per cui alcuni pazienti, quando si avvicinano a un nodo centrale della nevrosi, a una verità, resistono al trattamento fino a interromperlo.
È ben noto il racconto sufi del viandante che, entrato per caso nella Terra degli Sciocchi, incontra un fuggifuggi generale. Gli dicono che c’è un mostro nei campi di frumento, e quando si accorge che il mostro non è altro che un’anguria, si offre per sconfiggere il mostro: raggiunge l’anguria, ne taglia una fetta e inizia a mangiare. Ma la gente, che si è tenuta a debita distanza, ora ha spostato il terrore dall’anguria a lui e lo caccia dal paese a forconate. Poco tempo dopo, un altro viandante finisce nella Terra degli Sciocchi e viene a sapere del mostro. Vede che si tratta di un’anguria e, assieme agli altri, si allontana dal mostro alla chetichella. Passa un po’ di tempo con quelli del posto, prima condividendo l’idea del mostro e poi, a poco a poco, riuscì a far capire che l’anguria non è un mostro ma un frutto commestibile e coltivabile.
Non è più il tempo in cui gli analisti interpretavano di brutto i contenuti dei pazienti senza tener conto dell’angoscia. Il paziente si avvicina all’anguria e ne ha paura: il terapeuta, oggi, si sofferma a lavorare sulla paura. Ma il problema che solleva Medri riguarda il caso del paziente che nega la paura, e invece di dire “scappo!” parla del “sol dell’avvenire” che lo aspetta felicemente altrove, oppure di (non realistiche) difficoltà di tempo o economiche, e saluta con l’analista anche l’analisi.
A questo punto posso immaginare l’impazienza del lettore che indulgente mi ha seguito fino a questo punto e arrivo dunque alla domanda centrale, che è banale ed è poi quella che ho voluto mettere nel titolo: perché mai il diniego ha portato il paziente a interrompere il trattamento? Qualora non ci interessassimo solo delle difese ma dell’intero quadro conflittuale e relazionale di cui sono parte, questa domanda potrebbe sollevare diverse questioni e riflessioni. Diversi problemi, diverse riflessioni: sul tipo di fantasie transfert irrisolte; sulla ripetizione in analisi di una separazione prematura dai genitori; sulle paure del paziente verso il terapeuta; sulle ragioni di una fuga nella salute; su come coniugare l’analisi delle difese con quella del conflitto e delle formazioni di compromesso; su come cambia la natura del compromesso con lo sviluppo del processo psicoterapeutico; su quali obiettivi abbia in mente una persona che si rivolge a uno psicoanalista: è motivato a un’analisi (il cui presupposto sia l’apertura indiscriminata nel tempo, la lunga durata) oppure no (Medri – e qui non condivido − direbbe: vuole una psicoterapia o una psicoanalisi?); sull’accontentarsi, da parte del terapeuta, della “soluzione incompleta” di un lavoro analitico; sul grado di tolleranza dell’angoscia d’interminabilità da parte di certi pazienti; su come risolvere, nel rapporto col paziente, il gioco del millepiedi di Rosenthal; su come gestire la messa in atto del paziente che decide una conclusione forzosa per fuggire dalla psicoterapia; sulla realtà delle scelte di vita del paziente; eccetera.
Medri riconosce i rischi di voler rimanere fedele a tutti i costi al claustrum della torre d’avorio del lavoro psicoanalitico. È consapevole del pericolo che corre: tirarsi dietro l’accusa secondo cui l’analista potrebbe vedere il diniego nell’occhio del paziente ma non la minimizzazione delle opportunità reali per il paziente nel proprio. Che fare? Sul piano tecnico, il fatto, a noi ben noto, che molti pazienti attuali sono inclini a cercare soluzioni pragmatiche alla loro sofferenza psicologica (con la ricerca di strumenti operativi e con la “messa in atto”) piuttosto che imbarcarsi in un viaggio esplorativo di se stessi, potrebbe invitare a utilizzare la vecchia prescrizione per cui il paziente non deve prendere decisioni importanti durante l’analisi. Il problema è semplicemente che non è oggi una prescrizione realistica, se pensiamo soprattutto alle psicoterapie mono o bisettimanali. Di nuovo, come proponeva Vladimir Il’ič Ul’janov: Che fare?
Eh, sì, caro Guido (so che mi stai leggendo), anch’io mi chiedo dove stia andando la psicoanalisi in questo mondo – ma dove sta andando questo nostro mondo? E intanto, cullato dalle note della canzone You Can’t Always Get What You Want cantata da Wilhelm Wundt, trovo un certo conforto, e nel coro celestiale odo la voce di Pollyanna sussurrar: “Va tutto bene, fai un lavoro bellissimo!”