Pratica Psicoterapeutica

Il Mestiere dell'Analista
Rivista semestrale di clinica psicoanalitica e psicoterapia

NUMERO 14
1 - 2016 mese di Giugno
CLINICA
IL DINIEGO E LA LEGGE 180. COMMENTO ALL’ARTICOLO DI GUIDO MEDRI
di Roberto Carnevali

Prendo spunto da ciò che dice Guido Medri sulla legge 180 in riferimento al diniego per approfondire il discorso cui accenno, in termini di speranza, nel mio scritto sul DSM che compare in questo numero. Dice Guido:

 

Con la chiusura degli O.P. il diniego torna a far valere la sua logica. Si elimina il luogo fisico abitato dalla follia, la si trasporta nell’ospedale civile e la si medicalizza; e l’attacco a ciò che la rappresentava come un fatto oggettivo (il manicomio) rinforza la negazione. La legge 180 aveva quale suo principale obiettivo quello di combattere i meccanismi di esclusione che colpivano la psicosi e di riportarla nel sociale e nel contesto familiare, ossia nell’ambito ove essa aveva preso piede. Il risultato è paradossale, è l’esatto contrario. I manicomi ora non ci sono più ed insieme ad essi… è scomparsa pure la malattia mentale. Non se ne parla più, le famiglie la nascondono, non fa notizia nei giornali o alla televisione, le cliniche specializzate chiudono. Insomma, non interessa ormai a nessuno. La psicosi è tornata nel suo luogo naturale, nel dimenticatoio.

 

Credo che sia ormai risaputo, perché non è la prima volta che ne parlo, che io sono un sostenitore della legge 180, e sono convinto che la chiusura dei manicomi abbia portato una rivoluzione copernicana nella psichiatria permettendo di portare nel tessuto sociale quei problemi che il manicomio teneva chiusi all'interno delle proprie mura. Storicamente, ho partecipato in prima persona al processo di cambiamento, avendo fatto un anno di tirocinio (aprile 1976 - marzo 1977) e poi due anni di lavoro (marzo 1977 - dicembre 1978) in un Ospedale Psichiatrico Provinciale, il Cerletti di Parabiago (MI), prima dell’entrata in vigore della legge 180; dal gennaio del 1979 a tutt’oggi lavoro in un Servizio Psichiatrico Territoriale (sempre lo stesso) che oggi fa capo all’Azienda Socio Sanitaria Territoriale Melegnano e della Martesana, con sede presso il CPS di Gorgonzola, sempre in provincia di Milano. Dei passaggi istituzionali da un ente all’altro faccio cenno nel mio articolo. Qui, costruttivamente e senza alcuna intenzione polemica, voglio proporre una visione alternativa a quella di Medri sul senso propositivo della legge 180, che, prima di tutto nelle intenzioni, ma anche nella realizzazione dove questa è stata possibile, ha espresso qualcosa di molto diverso dal diniego, affrontando la cosiddetta “malattia mentale” portandola nel territorio e ricollegandola a cause psico-sociali (non a caso la denominazione Centro Psico-Sociale per il luogo deputato alla terapia sul territorio è nata con la legge, alla fine del 1978, e nessuno ha mai voluto né inteso modificarla, perché corrisponde pienamente a ciò che la legge intendeva, e intende ancora, realizzare).

 

Credo che ciò che porta Guido e me a vedere le cose in modo diametralmente opposto sia il presupposto da cui ciascuno di noi parte, dovuto all’esperienza diversa che ciascuno di noi ha vissuto, visto che anche Guido, come me, ha potuto vivere in prima persona il passaggio dal vecchio manicomio alla Psichiatria nata con la 180.

Se da 37 anni lavoro nello stesso servizio è perché ho avuto la fortuna (e forse anche una discreta capacità di cogliere gli aspetti positivi delle situazioni) di partecipare al lavoro di un servizio che ha avuto fin da subito la possibilità di applicare la legge 180 nelle sue varie espressioni. Nel 1980, solo un anno dopo la sua costituzione, il servizio in cui lavoro aveva 5 CPS dislocati sul territorio, un SPDC e un Day Hospital (allora veniva denominato così quello che oggi si chiama Centro Diurno), e per i ricoveri residenziali (il CRT, oggi CRA, venne molti anni dopo) una convenzione con un Istituto di Cura presente sul territorio ci permetteva di effettuarli mantenendo la possibilità di seguirli per tutta la durata dell'intervento, fino al ritorno al domicilio e la ripresa in carico totale del paziente da parte nostra. L’organico del personale era al completo; soprattutto gli infermieri (che necessariamente sono il cardine che permette il funzionamento dell’intero servizio) erano in un numero sufficiente a coprire i turni ospedalieri e ad effettuare quelle prestazioni che davano al CPS una veste operativa “vera” e non solo formale, affiancando alle prestazioni più strettamente mediche interventi domiciliari realmente “psico-sociali”, essendo riuscita l’équipe nel suo complesso a ritagliarsi, nei primi mesi dalla sua costituzione, momenti formativi che avevano favorito in alcuni di loro una crescita a livello relazionale, che permetteva interventi veramente qualificati su questo piano anche da parte del personale infermieristico.

Alla luce di questo (e potrei citare altri aspetti; ho riportato brevemente quelli principali) si può capire come non mi riconosca nel discorso che Guido esprime in questi termini:

 

Si elimina il luogo fisico abitato dalla follia, la si trasporta nell’ospedale civile e la si medicalizza; e l’attacco a ciò che la rappresentava come un fatto oggettivo (il manicomio) rinforza la negazione.

 

Nella mia esperienza la territorializzazione e l’ingresso del “sociale” affiancato allo “psico” sono stati massicciamente presente e determinanti, e la medicalizzazione è stata circoscritta all’SPDC (Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura, il reparto ospedaliero), che nella maggior parte del tempo, in questi 37 anni, è stato in una posizione dialogica con le altre strutture, senza mai assumere una centralità assoluta, e per molti anni avendo una posizione addirittura subalterna rispetto al CPS.

Con questo non voglio dire (e non l’ho mai pensato) che la mia esperienza possa rappresentare un paradigma al quale fare riferimento in assoluto. Penso però che un discorso di relativizzazione debba venire anche da chi, come immagino sia accaduto a Guido nella sua esperienza, si sia trovato ad avere a che fare con una realtà in cui l’applicazione della 180 è avvenuta in modo così frammentato, o con una prevalenza degli aspetti “medicalizzanti”, da far ritenere che il difetto fosse in chi ha concepito la legge e non in chi l’ha mal realizzata, magari per l’impossibilità di poterlo fare.

 

E in questo senso ritengo che la posizione di psicologo, rispetto a quella di medico, che è quella di Guido, abbia dei presupposti che possono essere un vantaggio o uno svantaggio a seconda del contesto in cui ci si trova.  Le mansioni alle quali un medico è tenuto gli danno un maggior potere ma lo mettono anche nella condizione di dover assolvere a compiti istituzionali inderogabili; uno psicologo ha meno vincoli, e dunque minor potere, ma anche una maggiore possibilità di movimento, se chi detiene il potere gli consente di conquistarsi degli spazi operativi; per quel che mi riguarda, ho cominciato nel 1983 a condurre gruppi terapeutici ad orientamento gruppoanalitico, e nel servizio (anche per il fatto che sono rimasto il solo ad essere stato presente e partecipe alla sua nascita, nel 1979) ho una mia chiara fisionomia che mi consente un’operatività con un buon grado di autonomia, esprimendo la mia matrice psicoanalitica e gruppoanalitica in sintonia con il lavoro d’équipe. Sottolineo l’aspetto della sintonia col lavoro d’équipe perché ritengo che sia fondamentale. Credo che la psicoanalisi possa trovare un suo spazio istituzionale e non essere sottoposta a “diniego”, in parallelo con la malattia mentale, se si “conquista” uno spazio all’interno dell’istituzione stessa attraverso il confronto con tutte le figure che compongono l’équipe. E anche in questo senso la posizione dello psicologo, rispetto a quella del medico, è vantaggiosa se c’è un terreno sufficientemente fertile (e nel mio caso per fortuna è così) perché il confronto all’interno dell’équipe possa avvenire.

 

Penso che Guido abbia vissuto esperienze istituzionali nelle quali la medicalizzazione dell’istituzione ha prevalso, e probabilmente la sua posizione di medico, legata a vincoli istituzionali più stretti, lo ha messo nella condizione di riportare un’immagine degli effetti della 180 che lega al diniego. È possibile che la realtà in cui ha vissuto Guido sia più diffusa di quella nella quale mi muovo ogni giorno da quarant’anni. Ritengo peraltro importante portare una mia testimonianza relativa a una realtà in cui, con alti e bassi, si è cercato, e spesso con un buon grado di efficacia, di applicare una legge che ritengo fondata su princìpi totalmente condivisibili, e sulla quale ritengo opportuno non operare generalizzazioni in senso negativo.

Accolgo i rilievi di Guido sul rapporto tra il diniego e la 180 come un rischio possibile, e magari anche presente in molte realtà, di utilizzare il criterio della territorialità e del “sociale” in termini difensivi, operando, attraverso il diniego, una scotomizzazione di aspetti terapeutici dei quali l’istituzione deve farsi carico, delegando, in nome della pluralità dei servizi, ad altri ciò che invece richiede costantemente un’assunzione di responsabilità. E un richiamo a possibilità difensive di cui prendere consapevolezza è sempre importante e pienamente condivisibile.

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