L’articolo di Guido Medri colpisce sotto vari aspetti. Rappresenta uno sforzo generoso di ricategorizzare alcuni nostri concetti clinici, in particolare cerca di dare uno statuto concettuale migliore ed un riconoscimento clinico adeguato al concetto di “diniego”, che sostanzialmente differenzia dalla negazione perché, a differenza di questa, è una difesa consapevole ed è diretto, anziché verso l’interno dell’individuo, verso l’esterno, verso la realtà, sia essa sociale o altro. Da tale difesa deriverebbero per lo più le frequenti interruzioni del trattamento psicoanalitico. Ma l’articolo di Guido è anche una riflessione sul rapporto tra psicoanalisi e contesto socio-culturale e sul mestiere dell’analista, che in tale contesto risulta ancor più “impossibile”. Mi propongo di sviluppare un po’ questa seconda linea guida dell’articolo.
Cominciamo dall’inizio, da Freud: c’era, in lui e nei primi psicoanalisti una chiara consapevolezza che la psicoanalisi, il pensare psicoanalitico, si poneva inevitabilmente in rotta di collisione con il senso comune e con la cultura ufficiale. La psicoanalisi comporta infatti una ferita narcisistica per la nostra specie non inferiore a quella della rivoluzione copernicana e a quella darwiniana. Siamo soli in un universo privo di centro, siamo animali evoluti, infine non siamo padroni in casa nostra, cioè di noi stessi; siamo animali intrinsecamente malati, perché figli della Natura ma al tempo stesso ad essa ribelli. E’ questo lo scandalo della concezione psicoanalitica, non tanto la sua, scandalosa appunto, idea di una sessualità infantile e il suo sostanziale pansessualismo, che sono stati alla fine accettati, ingurgitati e metabolizzati dagli sviluppi della cultura e del costume. In questo senso gli psicoanalisti del primo Novecento erano alle prese con un dilemma che attanaglia vieppiù noi analisti contemporanei, portatori come siamo di un pensiero critico ed eversivo e, al tempo stesso, alle prese con la contraddittorietà di una domanda di aiuto terapeutico, che ci viene da una società che, più di ieri, è omologata e basata sul diniego.
Cosa offriamo noi, come psicoanalisti, ai nostri pazienti? Non è forse vero che, in fondo, al di là dell’aiuto psicoterapeutico, li chiamiamo ad uno sforzo di conoscenza e di verità su di sé? Non possiamo quindi stupirci se molti pazienti, ad un certo punto, arretrano e se ne vanno. È sempre successo, ma credo anche che oggi succeda molto più di prima. Abitiamo una società post-moderna e narcisistica, ed in particolare una società come quella italiana che ha prodotto il berlusconismo e che oggi si caratterizza per un senso comune basato su di un astratto buonismo, sul culto dell’immagine, sui buoni sentimenti, sul rifiuto delle differenze (di genere e di generazioni) ma contemporaneamente basata sulle differenze di censo, assai più pronunciate che qualche decennio fa. In una società simile in teoria e apparentemente tutti possono diventare tutto. Curiosamente tale illusione ha riguardato soprattutto un ambito che ci è congeniale, quello della sessualità (si pensi al tema della omogenitorialità e dintorni). Anche questo ci spiazza e induce molti di noi ad allinearsi alle mode culturali che cercano di disconnettere la sessualità dalla roccia basilare, come la chiama Freud, della corporeità; e che affermano sempre di più la totale storicità culturale dell’uomo, avulso da qualsiasi fondamento naturale e biologico. Di contro al freudismo viene così sempre più proclamata e praticata una psicoanalisi che a sua volta non riconosce più il valore delle differenze e, per quanto concerne la clinica, che si pone semplicemente al servizio del benessere del soggetto e di sostegno ai suoi bisogni, che non saranno più analizzati, ma assunti sic et simpliciter come obbiettivo terapeutico. In questa nuova ottica dominante c’è ben poco spazio per l’analisi come percorso che vada anche al di là di obbiettivi terapeutici, alla ricerca della verità su di sé e alla conquista di un rapporto con la realtà ispirato al pensare critico e senza il ricorso ai nuovi miti ideologici e alla protezione alienante del diniego.