Per permettere a un pubblico più vasto di partecipare al dibattito che questo lavoro di Guido Medri può stimolare, ne offriamo anche una versione “free”, dalla quale sono state espunte le citazioni di casi clinici che in qualche modo potessero rappresentare una violazione della privacy; l'articolo resta consequenziale e leggibile mantenendo nella sua globalità il senso voluto dall’autore.
Sommario
Si distingue la negazione dal diniego. Si portano varie situazioni cliniche nel corso delle quali opera il diniego al fine di interrompere il percorso terapeutico. A partire da qui si fanno varie considerazione su questo singolare modalità difensiva: è conscia, diffusissima, si accompagna ad altri meccanismi di difesa, rappresenta una difficile sfida per qualsiasi tipo di interpretazione, porta ad una lettura ingannevole della realtà. A parere dell’autore la letteratura ne ha sottovalutato l’importanza.
Da molti anni a questa parte sono sempre più colpito ed interessato da una reazione o stato emotivo che mi sembra presentarsi sistematicamente con modalità a volte anche paradossali ogni volta che si tratta di prendere atto di un fatto che rimanda ad uno stato d’animo che comporta sofferenza o dubbi o comunque dolore. La psicoanalisi ha rilevato fin dal primo Freud questo meccanismo che descriverei come ritiro o fuga da una piena consapevolezza di quello che accade chiamandolo negazione o diniego. Mi domando tuttavia se si è dato abbastanza rilievo a questa difesa, che a me appare ubiquitaria, pervasiva e di difficilissima elaborazione.
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Considerazioni
La terapia si interrompe quando si passa da una relazione che il paziente, in uno stato di sofferenza, intende di aiuto, ad un’altra che chiama in causa dinamiche profonde che richiedono un lavoro di elaborazione. Insomma quando la terapia si connota in modo più preciso non più come supportiva, ma come analitica.
La difesa in atto è il diniego. Utilizzo questo termine, introdotto da Freud piuttosto tardi nel corso delle sue elaborazione (1924), limitandomi al movimento che esprime, ossia al rifiuto di riconoscere la realtà di una percezione traumatizzante ; metto per il momento da parte il tema della castrazione nel feticismo (Freud S. 1927) o la scissione dell’Io nella psicosi (Freud S. 1938). Mi rifaccio invece alla bellissima esemplificazione del bambino che risponde allo zio, preoccupato delle sue reazioni alla morte del padre, che lui sa benissimo che il papà è morto. La cosa però che non capisce è il motivo per cui non mangia con loro. In sintesi si ammette la realtà del fatto, spesso addirittura suffragato dal dato percettivo, ma lo si svuota delle sue conseguenze sul piano emotivo per cui è come se, per la soggettività della persona, non fosse accaduto. Nello stesso periodo, un paio di anni prima, Freud introduce un altro nuovo termine, quello della negazione, per indicare il rifiuto di accettare contenuti inconsci nel momento in cui si nominano e quindi si sottraggono alla rimozione. Vengono per l’appunto nominati, ma si presentano alla coscienza preceduti da una negazione (“non è mia madre…”). I due termini significano quindi entrambi un non prendere atto, qualcosa come un rifiuto; il diniego di un fatto esterno, la negazione di uno interno al soggetto. La distinzione è chiara e, a mio parere, va decisamente mantenuta. Anna Freud ne parla diffusamente quando distingue fra”misure difensive dirette contro la vita istintiva da quelle contro il mondo esterno che infligge la frustrazione”. L’autrice introduce un nuovo termine, la negazione in fantasia (che può evolvere nella negazione mediante parole o atti), ma la definizione che ne dà è decisamente sovrapponibile a quella del diniego. Afferma infatti: “L’Io del bambino si rifiuta di riconoscere una parte di realtà spiacevole, rifugge da essa, la nega e la sostituisce con dei fatti immaginari totalmente opposti”. E, più oltre, scrive: “Analogamente a quanto avviene nel conflitto nevrotico dove la percezione di uno stimolo istintuale proibito viene respinta per mezzo della rimozione, l’Io infantile ricorre alla negazione per evitare qualcosa di pericoloso che proviene dall’esterno”. In altri passaggi infatti usa direttamente l’espressione “negazione della realtà”. Scorrendo la letteratura invece i due movimenti di solito non vengono differenziati. Si fa infatti riferimento alla negazione e solo alla negazione quando si vogliono ignorare aspetti minacciosi o contradditori sia del mondo interno che del mondo esterno.
Il diniego, per come si presenta nei casi presentati, si pone per l’analista come una sfida impossibile, in quanto si sottrae all’elaborazione. Il paziente porta, a suffragio dell’interruzione, un argomento extra analitico, il dato di realtà, e l’analista viene privato dello strumento che possiede, non gli è dato di ricorrere all’interpretazione. È chiaro che se si deve lavorare per dare da mangiare alla famiglia l’esigenza di un lavoro su di sé viene dopo; che quando si ha quarant’anni e si sta perseguendo un successo professionale di alto livello e in fondo ci si barcamena è inutile, se non controproducente, andare a rivangare i primi anni di vita ecc. [...] Lo stesso Freud raccomandava che non si possono proporre al paziente pericoli futuri se al momento essi non vengono percepiti. Suonerebbe come un ricatto, una minaccia o, comunque come una profezia malevola (Analisi terminabile ed interminabile, 1937). Lo stesso, mutatis mutandis, per gli altri pazienti. In secondo luogo, e questa è la vera ragione, il paziente ricorre ad una manovra elusiva che lo sottrae alla messa in discussione. Non è lui che vuole l’interruzione, è la pressione dei dati di fatto che lo forzano a quella decisione. Anzi, quasi sempre giunge ad affermare che gli dispiace, se potesse continuerebbe. Un paziente, in un momento cruciale del discorso analitico, “si arrendeva al fatto che la distanza dello studio rappresentava per lui, in grave difficoltà alla guida, un ostacolo insuperabile”. Sarebbe andato in terapia da un ipnotista che gli abitava vicino, ma mi chiedeva di fare con me la terapia farmacologica, visto che quella si poteva fare con visite diradate nel tempo. A dimostrazione della stima e della fiducia che provava nei miei confronti! Non è sempre così, in questo caso mi sono sentito davvero preso in giro, ma ciò che conta è l’evitamento di una assunzione di responsabilità. Come si può essere messi in discussione e quindi parlarne, vedere se quello che accade può avere un legame con i propri conflitti, se il paziente non c’entra e siamo di fronte ad una causa di forza maggiore?
Diniego, proiezione, rivolgimento dei ruoli, identificazione con l’aggressore
Il diniego non opera da solo. Negli esempi che ho portato si accompagna alla proiezione. Il paziente che si allontana lascia il suo problema nella stanza dell’analisi, chiuso dentro di essa, il suo problema e l’analisi sono diventate la stessa cosa, tendono a coincidere. L’analista percepisce con estrema chiarezza di essere diventato il rappresentante scomodo di ciò che si vuole evitare e gli appare evidente il sollievo del paziente che lo dribbla quale testimone di una verità scomoda, mentre se ne va via. Insomma abbiamo a che fare con una manovra di evitamento doppia, della responsabilità soggettiva da un lato e, d’altro verso, di colui che è lì a testimoniare ciò che è avvenuto e che c’è, ma che ora si preferisce non vedere. Questo è un altro dei motivi per cui non è bene opporsi alla decisione del paziente, ma lasciarlo fare, per non esasperare il clima ormai persecutorio che il paziente vive in seduta. Potrebbe darsi infatti che egli torni, magari dopo qualche tempo, e occorre quindi mantenere un minimo di alleanza di lavoro. A ben vedere la proiezione è la naturale e necessaria compagna del diniego. Si attribuisce all’analista una parte del Se e poi la si allontana, andandosene via. Tutto poi è sotto controllo: l’analista è altrove ed è chiuso, rinserrato nella stanza analitica. Il nemico è neutralizzato, si è al sicuro. Si verifica anche un rovesciamento di ruolo: prima il paziente era portatore di un malessere oscuro, era alle prese con difficoltà a lui incomprensibili e l’analista era colui che poteva circoscrivere e delimitare il motivo dell’angoscia, era inteso come il depositario di un sapere scientifico che poteva mettere ordine. Ora la situazione è capovolta: è il paziente che sostiene le sagge regole del buon senso, mentre l’analista vorrebbe portarlo verso esperienze imprevedibili e rischiose (“chi lascia la via vecchia per la nuova…”). Insomma adesso è il contrario. Nei casi descritti inoltre opera inoltre un altro meccanismo di difesa, altrettanto primitivo, quello della identificazione con l’aggressore (Freud A. 1936), o, più genericamente, con l’oggetto frustrante. Il paziente si comporta verso se stesso come un genitore troppo preso dai suoi affanni o dalle sue incombenze per dare ascolto al discorso del bambino. Non che non voglia, il fatto è che proprio non può, ci sono cose più importanti da fare e bisogna dar loro la precedenza.
Meccanismi di difesa e diniego
Il diniego è una difesa diversa dalle altre per vari motivi. Le difese intendono escludere dalla coscienza un contenuto inconscio e sono esse stesse inconsce (la negazione è una di esse). In questo caso invece il pericolo viene da fuori, non fa parte della persona; ciò di cui non si vuole prendere atto non è una rappresentazione o un affetto, ma un dato esterno al soggetto. Ci si difende dalla realtà, non dall’inconscio. In secondo luogo non viene messa in opera dalla parte inconscia dell’Io, ma è mossa da una intenzione del tutto cosciente. Alla prima affermazione si può obiettare che in fondo però ciò che non si vuol vedere fa pur parte del mondo interno. Questo è vero, ma la difesa opera comunque rispetto al fatto oggettivo. Il paziente dice di non volersi occupare di qualcosa che ora gli si mostra come evidente, manifesto. Certo, questo qualcosa riguarda un aspetto della sua interiorità, ma mentre prima lo si poteva solo intuire o ipotizzarne l’esistenza (“lo so che c’è qualcosa che non va in me”), ora, nel momento in cui si avvertono più chiaramente le difficoltà emotive che ne conseguono, esse vengono, per così dire, messe in un pacchetto, il quale viene poi esteriorizzato, senza che si entri nel merito dei contenuti e infine sottoposto ad un giudizio. È proprio la definizione del problema e la sua esternalizzazione che lo qualifica come un dato osservabile, un dato di fatto, ciò che, paradossalmente, invece di portare ad una più convinta consapevolezza, permette la messa in opera di una ulteriore e evidentemente più efficace linea difensiva. Prima il paziente voleva la terapia perché affetto da un male oscuro, senza spiegazione; ora sa di che si tratta, può esaminarlo come se fosse un problema in qualche modo oggettivo ed è questo che gli permette di sminuirne l’importanza, di escluderlo dalla sua attenzione. Proprio perché sa che esiste! Sto cercando di descrivere un meccanismo che ha a che fare con la percezione della realtà; un meccanismo che lo sguardo psicoanalitico, abituato da sempre a cogliere le vicissitudini della vita interiore, tende a non porre al centro della sua attenzione. Diamo per scontato che la conflittualità nevrotica pregiudichi la lettura della realtà porti ad una lettura parziale della realtà, ma non si mette in evidenza come e quanto, attraverso un movimento retroattivo, tale lettura sia essa stessa al servizio delle difese, le ricompatti. La negazione anticipa ed è il motivo del diniego, mentre il diniego la riconferma. Per l’appunto, è proprio questa la tesi che sostengo: la negazione è il motivo del diniego, lo anticipa, mentre il diniego che ne segue sostiene la negazione. Va rilevato che funziona, come già dicevo, tanto che viene la tentazione di allargare il discorso e di ridiscutere ad esempio del ruolo da attribuire all’attenzione nell’operare dei meccanismi di difesa (come già faceva Freud con i suoi primi pazienti quando li ingaggiava nel prendere in più attenta considerazione i tanti nessi che tendevano a trascurare).
Insomma, sul piano dinamico il diniego fa il paio con la negazione, entrambi rispondono direttamente all’esigenza primaria di mantenere inconscio ciò che non si vuole vedere di sé, si potenziano l’un l’altra e tendono a confondersi. Quando il bambino di Freud non vuole vedere la mamma castrata, non fa altro che negare in se stesso il fantasma della castrazione. Il movimento difensivo scatta però di fronte all’evidenza di un fatto e anche se ciò che si vuole evitare sono le conseguenze nel mondo interno che ne derivano. [...]
A proposito invece della seconda affermazione, ciò di cui si può discutere e che anzi appare davvero enigmatico riguarda il livello di consapevolezza. Il soggetto ha chiaro di muoversi secondo una scelta ben ponderata, ma in verità la sua è una risposta del tutto automatica. Lui pensa di essere così saggio da arrendersi ai fatti (non ho tempo, sono troppo vecchio ecc.), mentre in effetti li seleziona per sottrarsi alla vista di ciò che lo disturba. La difesa è egosintonica, talmente in linea con gli interessi dell’Io che sembra che la sua messa in discussione porterebbe a mettere in crisi l’intera logica affettiva in base alla quale l’Io si è venuto a costituire. Non siamo di fronte ed un conflitto intrasistemico, non si avverte alcuna tensione; anzi ciò che si percepisce è una sensazione di sollievo come se fosse tutto ormai deciso. La modalità con cui avviene l’interruzione appare comunque significativa e può aggiungere dei dati preziosi. Il paziente decide improvvisamente, così, su due piedi, destando sorpresa nell’analista; ma se è così sicuro della sua scelta ciò vuol dire che lo sapeva da prima, che è in linea con scelte già fatte in passato, già ampiamente sperimentate. La coazione a ripetere si presenta nella sua forma più grezza, più agita, priva di connotazioni simboliche. Il paziente fa così, anzi è così. È la sua arma segreta tenuta in serbo fino ad allora, una sorta di assicurazione sulla vita: quando sorge un problema, o meglio, quel problema, mette la testa sotto la sabbia. Ciò che più appare come attuale, realistico, pragmatico in verità affonda le sue radici negli stati più profondi e impenetrabili dell’inconscio. Si dichiara di volere il cambiamento, a patto però di non tradire, per nessun motivo al mondo, le proprie origini. L’interruzione quindi esita in una dissociazione, ma non ne è la causa; rivela invece uno stato dissociativo preesistente, che proprio perché era tenuto sotto traccia e non si era reso evidente prima, ora irrompe sulla scena del tutto privo di mediazioni. Riprenderò il tema più avanti.
La conseguenza del diniego è la dissociazione
La transizione in atto ormai da alcuni decenni, dal punto di vista intrapsichico a quello relazionale ha comportato profondi cambiamenti nella concettualizzazione del conflitto. In particolare appare del tutto naturale che il sé si trovi ingaggiato in relazioni multiple che sottolineano di volta in volta un suo aspetto particolare, congruente con l’esperienza che sta vivendo e si ritrovi come sfaccettato, composto di tante parti. In condizioni fisiologiche la capacità di sintesi dell’Io raduna le varie esperienze in una visione di insieme che qualifica il Sé nella sua compattezza. Può accadere tuttavia che le situazioni relazionali siano fra loro incompatibili o entrino in conflitto e che l’Io allora operi in senso difensivo tenendole separate. La rimozione è il movimento difensivo che l’individuo promuove in se stesso per negare l’accesso alla coscienza a rappresentazioni pericolose, legate alla pulsione. Pensieri, ricordi affetti, non devono emergere alla consapevolezza cosciente, vanno tenuti giù, nell’inconscio. In altre parole qualcosa che viene da dentro, viene rimandato all’indietro, ricollocato in basso. Il punto di vista relazionale vede invece sempre il Sé in relazione con l’oggetto e se lo scambio viene ritenuto pericoloso, viene naturale immaginare che si passi ad altro, così che quella esperienza si possa come accantonare, mettere da parte, fra parentesi. Ovviamente si intende tenere inconscio l’affetto (amore, desiderio, rabbia odio), ma poiché esso lega il Sé alla rappresentazione oggettuale, ciò che appare più efficace dal punto di vista difensivo e meno dispendioso sul piano energetico è mettere tra parentesi la relazione Sé–oggetto nel suo insieme. Ne deriva insomma un movimento non in profondità, ma orizzontale. Si tende inoltre, abbastanza curiosamente, ad evitare il termine scissione, probabilmente perché risale al punto di vista intrapsichico, oppure perché troppo impegnativo, in quanto rimanda ad una patologia più grave, dalla perversione alla psicosi.
Agli autori contemporanei comunque (Bromberg P.M, 1998; Colombo D., 2008) la dissociazione appare ormai per lo meno della stessa importanza della rimozione. Non vale più neppure la differenza su piano gerarchico fra le due, per cui la rimozione è la classica difesa delle nevrosi e la dissociazione quella delle sindromi borderline e delle psicosi. Kernberg ad esempio la annovera come una difesa abituale nelle cosiddette personalità di alto livello. Ormai la frequentiamo puntualmente pressoché in ogni terapia e nelle più varie patologie; se ne descrive la fenomenologia, si evidenzia come abbia lo scopo di evitare il conflitto, ma impoverisca il Sé, ci si chiede come possa essere trattata in terapia. Davvero viene da chiedersi come mai non ci fosse così nota ed abituale negli anni scorsi. Credo che questo sia un ottimo esempio di come il quadro teorico retrostante condizioni l’evidenza clinica. Mi sembra però che non si dia adeguato rilievo al diniego, quale punto di partenza della dissociazione.
Negli esempi citati, il soggetto decide di non prendere in considerazione una parte di sé, a favore di un'altra cui si chiede di occupare l’intero campo dell’esperienza. La conseguenza è che vengono recisi i nessi associativi dell’insieme delle rappresentazioni che costituiscono il Sé e la parte rifiutata giunge ad assumere lo statuto di un non-me sul piano affettivo. È vero che si sa che esiste, ma tale consapevolezza non è al servizio del suo recupero, ma bensì del controllo e della sua neutralizzazione. È dissociata. La dissociazione inoltre non riguarda solo il Sé (seguendo Freud diremmo scissione dell’Io), ma anche l’oggetto viene scisso. L’analista non viene più inteso nella sua doppia funzione, di interprete da un lato e dall’altro anche di appoggio e aiuto e viene spogliato della sua connotazione terapeutica per diventare unicamente (forse esagero, diciamo soprattutto) colui che riporta al soggetto ciò che lui rifiuta di se stesso, la sua parte proiettata. Insomma la dissociazione per diventare operativa necessita del diniego. Il diniego ne è il motore, il suo principio economico (così come le difese sono la conseguenza della rimozione).
Potremmo generalizzare ed affermare che il diniego è la causa della dissociazione? Fairbairn sostiene che il bambino non può rinunciare alla speranza di relazione e pur di negare la rappresentazione in negativo del genitore giunge ad attribuire la colpa a se stesso; detto altrimenti, coglie gli aspetti positivi e sottovaluta quelli traumatici del contesto relazionale nel quale interagisce. Già agli albori della vita psichica, nelle prime tappe del percorso evolutivo potremmo allora individuare la modalità difensiva del diniego e le prime tracce della scissione dell’Io.
Il confronto fra rimozione e dissociazione mi sembra anche che possa generare una certa confusione. La rimozione, intesa dal primo Freud come la difesa tipica dell’isteria, è stata poi intesa nel corso della sua opera non tanto come una difesa in senso stretto, bensì come il principio informatore delle difese, di tutte quelle della patologia nevrotica. È un non voler sapere di se stessi che con il tempo instaura una barriera di protezione fra conscio ed inconscio e che si esplica in vari movimenti, inconsci essi stessi, che riparano dal pericolo e che assumono varie denominazioni, formazione reattiva, proiezione, isolamento ecc. che per l’appunto si chiamano difese. La stesso vale per il diniego, un atteggiamento di evitamento nei confronti di quell’aspetto della realtà esterna che fa da specchio ad una relazione oggettuale interiorizzata così che quest’ultima viene scissa. Avvicinerei per un confronto quindi rimozione e diniego e non rimozione e dissociazione; e porrei la dissociazione accanto agli altri meccanismi di difesa.
Riassumendo. Già Freud in analisi terminabile ed interminabile a proposito dell’analisi dell’uomo di lupi notava come la cura rischiasse di fallire “proprio per il suo successo, invero parziale”. Nello stesso scritto egli annota come, oltre alla forza costituzionale delle pulsioni, il fattore che più pregiudica l’effetto della analisi sia l’alterazione dell’Io. Mentre, sul finire introduce il tema dell’onnipresente rifiuto della femminilità nell’uomo così come nella donna, la roccia basilare nell’elaborazione della quale abbiamo come non mai “una sensazione così dolorosa ed opprimente della vanità dei nostri ripetuti sforzi”. In tutti i casi clinici presentati la resistenza che ha portato all’interruzione ha a che fare con il rifiuto della dipendenza dall’analista, mentre abbiamo evidenziato come fosse presente un’alterazione dell’Io. Dovremmo quindi avere già un quadro persuasivo di quanto avvenuto. L’introduzione del diniego accanto alle altre difese mi sembra tuttavia che lo arricchisca ulteriormente e rappresenti un elemento di novità.
Un altro punto di vista
Se si raccontassero le vignette cliniche succitate si susciterebbe certamente un momento di incomprensione. L’ho sperimentato nel corso di varie discussioni. La risposta è sempre la stessa: quello ha deciso di andarsene perché gli andava così, perché mai doveva continuare se si sentiva a posto, potrà pensare con la sua testa, è una bella pretesa la tua, che continui. Registro insomma uno scollamento fra il mio modo di pensare e quello che abita la maggior parte delle persone. Sicuramente situazioni cliniche di questo tipo promuovono un certo sconcerto nell’analista stesso e momenti di riflessione anche improntate al dubbio, se non all’autocritica. Occorre aggiungere che sono sempre più frequenti, accadevano anche prima, ma da qualche anno a questa parte si ripetono quasi regolarmente. Sono anzi del parere che da parte nostra il problema non venga preso nella giusta considerazione, quasi vi fosse un tacito invito al silenzio,, da tutti condiviso. Ovviamente non ho a disposizione alcun dato numerico, ma nella mia pratica clinica e soprattutto nelle numerose supervisioni che conduco, l’interruzione della terapia è ormai diventata un evento non solo da mettere in conto, ma addirittura probabile. Kächele, a conclusione di una ricerca sull’argomento, afferma che oltre il 50% delle analisi si interrompe.
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In definitiva il paziente afferma che la cura gli ha giovato e che gli basta così; dove vogliamo arrivare, perche tirare la corda con il rischio che si spezzi? Se il paziente si ritira, avrà le sue brave ragioni. Il compito che gli si prospetta non corrisponde ai suoi bisogni o forse anche va al di là delle sue risorse; ha trovato un suo assetto difensivo e il metterlo in discussione potrebbe comportare l’emergere di vissuti davvero troppo minacciosi, potrebbe sconvolgere il contesto relazionale che si è venuto a creare, potrebbe essere un pericolo per l’Io. In fondo nel momento in cui se ne va diventa semplicemente uno dei tanti, uno dei milioni di nevrotici che vivono la loro vita e hanno trovato un buon compromesso per i loro conflitti e comunque non sentono affatto il bisogno di una psicoterapia e, tanto meno, di una analisi. “Primum vivere, deinde philosophari”, suggeriva Aristotele. Direi che il tema riguarda l’annosa e mai risolta diatriba che contrappone la psicoanalisi alla psicoterapia. La psicoterapia ha come obiettivo il miglioramento della sintomatologia del paziente, la psicoanalisi ha come obiettivo primario la comprensione delle forze in giuoco in vista di un cambiamento e non ammette deflessioni rispetto a questo compito. Eventuali “miglioramenti” sono ben accetti, ma possono essere poco significativi o addirittura interpretati come una battuta di arresto in quanto funzionali alle difese. Ancora più in generale, la contrapposizione sta fra il pensiero “normale” (si vive di compromessi, in funzione dell’adattamento) e il pensiero psicoanalitico, che mette consapevolezza e responsabilità ai vertici dei traguardi della vita. E allora abbiamo il diritto di imporre valori che perseguiamo in fondo solo per legittimare la nostra funzione e tutto l’apparato culturale, se non ideologico, che lo sostiene? Si fa strada addirittura la considerazione che il pensiero analitico sconfini in una sorta di delirio, esiti nella paranoia. Potremmo anche supporre tematiche controtransferali irrisolte. Avevamo aspettative irrealistiche, perseguivamo obiettivi che corrispondevano ai nostri desideri e li imponevamo il paziente (e questi lo ha avvertito ed ha fatto bene ad opporsi ad una operazione di tipo suggestivo o manipolatorio), necessitavamo del paziente per motivi economici, eravamo spinti da una sorta di furor curandi, alla fine ci siamo sentiti offesi in quanto scaricati da un paziente ingrato dopo aver fatto così tanto per lui. Oppure siamo stati fatto oggetto di una identificazione proiettiva che ci voleva interpreti di una funzione analitica di cui il paziente si era sbarazzato e non l’abbiamo capito per tempo ecc.
È stupefacente il salto di prospettiva. Prima ho descritto l’interruzione come dovuta ad una forza demoniaca, quella della coazione a ripetere, quella forza che Freud ha letto in riferimento alla pulsione di morte. Ora la leggo in termini utilitaristici, del tipo “meglio un uovo oggi che una gallina domani”. Abbiamo risposte per conciliare posizioni tanto contrapposte, senza rifugiarci nella soluzione di comodo che entrambe le tesi sono valide, dipende dalla prospettiva in cui ci poniamo? Io credo che si deve limitare la discussione volta per volta al singolo caso e ancorarci all’approccio clinico al fine di operare quei distinguo necessari per arrivare ad una mediazione e motivare il giudizio. In fondo però, se proprio devo dire la mia, sono del parere che “normalità “ e analisi quando si è all’opera in un percorso analitico seguono logiche diverse che possono porsi in opposizione, un po’ come il diavolo e l’acqua santa. Si diceva come l’analista non possa non avere buoni motivi per sentirsi perplesso. Al limite il paziente ci sta dando una lezione, non si può perseguire in astratto un fantomatico obiettivo analitico, ma ogni percorso va adattato alla domanda del viandante; e sarà lui a decidere il punto di arrivo. Eppure non è così, per quanto sorprendente possa apparire, l’analista non ha dubbi. Si era in una più che soddisfacente dimensione di lavoro che destava da ambo le parti un sicuro interesse; non mancavano momenti di incomprensione e di difficoltà, ma facevano parte del percorso, erano il motivo stesso della ricerca analitica. Intanto gli aspetti conflittuali venivano a delinearsi in modo più preciso e dettagliato così da richiedere un più urgente sforzo di elaborazione. Insomma non ci si trovava per nulla in una situazione di impasse. Il paziente può vantare tutte la sue brave ragioni, ma la sua è ne più ne meno che una resistenza, una delle tante, anche se questa è insormontabile. Niente di grave, fa un passo indietro, così come, d’altro canto, ha sempre fatto in tutta la sua vita. Certo, ma prima non aveva altre possibilità, mentre ora è in analisi. Il pensiero normale, quello che si articola in seguito alla barriera fra conscio e inconscio, ora disarticola le connessioni che si stavano creando fra le due aree: il pensiero”normale” è diventato patologico. A partire da un uso perverso del concetto di realtà che intende negare valore alla realtà psichica. Dal canto suo l’analista ha semplicemente fatto il suo mestiere, così come, per l’appunto, gli era stato chiesto. A meno di incorrere egli stesso nel diniego, non poteva fare altro che prendere in considerazione i nodi conflittuali che si stavano evidenziando. Si conceda dunque senz’altro al paziente la più assoluta libertà di fare quello che vuole, ma resta il che egli evita di entrare nel merito della verità rispetto a se stesso. Penso comunque di avere toccato un punto di grande interesse e di ampia portata, tutto da discutere.
CONSIDERAZIONI GENERALI
Vale la pena seguire alcune fra le tante modalità attraverso le quali il diniego si esplica, dalle più opportune o “sane”, alle più invalidanti fino a sostenere, per l’appunto, meccanismi dissociativi.
Ovviamente il sistema difensivo è indispensabile alla salute psichica. Se venisse a mancare la rimozione, la coscienza sarebbe invasa di contenuti inconsci e cadremmo nella psicosi. Allo stesso modo, venisse a mancare il diniego, la violenza della realtà farebbe a pezzi il nostro narcisismo, frantumerebbe il nido illusionale che ci salva dalla depressione o, ancora di più, dall’annientamento.
Anna Freud nota come la negazione in fantasia del bambino sia sostenuta ed alimentata dagli stessi adulti, assolutamente impegnati a far sì che egli non si confronti con l’immagine intollerabile della sua impotenza. Vi sono infatti aspetti della realtà semplicemente impensabili. Ognuno di noi ad esempio è un’entità così microscopica rispetto all’incommensurabile enormità dell’universo che, se ci riflettessimo, visto che siamo così insignificanti di fronte al mondo, ci verrebbe la tentazione di semplicemente scomparire. Sappiamo tutti che moriremo, ma se ci credessimo davvero, ci verrebbe a mancare ogni aspettativa per il futuro e ogni piacere nel vivere il presente. Il diniego ci occorre nel sopportare le frustrazioni, per stare nelle relazioni e anche e forse soprattutto, nel sopportare noi stessi (in questo caso dovremmo a volte usare il termine negazione) . Insomma è indispensabile ai fini dell’adattamento. Plaudiamo senza riserve al vecchio detto: “fare di necessità virtù”. Viene da chiedersi a questo punto però se possiamo ancora usare questo termine, coniato per descrivere un preciso meccanismo difensivo dagli esiti nettamente patologici; visto che stiamo descrivendo un atteggiamento mentale generalizzato e onnipresente, peraltro utilissimo per sopravvivere senza incorrere in un continuo corpo a corpo con la realtà. Flessibilità, propensione al compromesso, adattabilità, indifferenza se occorre, ottimismo, non lasciarsi abbattere, buon carattere, saggezza anche ecc., il diniego è uno dei costituenti di questi tratti caratteriali certamente positivi. Non vi è dubbio che per numerose patologie la capacità di utilizzare il diniego rappresenta una fra le finalità dell’analisi. Si tratta in parallelo della stessa domanda che ci poniamo a proposito della dissociazione, un procedimento in fondo di compartimentalizzazione necessario per focalizzare l’attenzione sulle situazioni nelle quali, volta per volta, ci si viene a trovare e quindi muoverci in maniera adeguata, se non per sopravvivere. Appare quindi piuttosto improprio ricorrere ad un termine che non può che risuonarci come ciò che contraddistingue le patologie per la loro gravità. Detto altrimenti, non possiamo trasporre ciò che vediamo nella clinica alle motivazioni di chi, nel quotidiano, cerca di vivere al meglio la sua vita. Quello che conta comunque è che sia il diniego che la dissociazione indicano vertici patologici cui possiamo fare riferimento per ampliare l’area di indagine e le nostre possibilità di comprensione. A me sembra infatti che non si sia dato loro l’importanza che meritano nel porsi come il principio economico (il diniego) e la modalità (la dissociazione) di tanti comportamenti. Anche se gli stessi non si possono certo classificare tout court come comportamenti nevrotici.
Ad esempio, quello che ho illustrato prima, ossia come accade che il paziente si ritiri proprio quando prende visione del conflitto, si può situare nel contesto culturale attuale. L’attuale atteggiamento dell’opinione pubblica rispetto alla psicoanalisi sembra che risponda ad una logica simile, altrettanto sorprendente quanto contradditoria. Prima non si sapeva cosa fosse e quindi veniva considerata con sospetto, ma anche con curiosità, destava interesse. Ora nessuno più potrebbe dubitare dell’inconscio, lo si rappresenta addirittura in televisione. Una disciplina scientifica, la psicoanalisi ne parla e lo descrive da decenni, migliaia di psicoanalisti lo ha individuato come oggetto di cura e campo di ricerca. Il risultato è che l’inconscio, definito correttamente una zona enigmatica che fa parte dell’interiorità del soggetto, a questo punto si evidenzia come un fatto accertato e tende a diventare un dato oggettivo. Come tale, contrariamente al suo statuto, si situa al di fuori, fa parte della realtà. Ed ecco allora che interviene il diniego, a soccorrere la rimozione. L’effetto di eco che si avverte quando viene evocato, suona come un campanello di allarme e poichè si è visualizzato il nemico, ora lo si può combattere e si può farlo ad armi pari, tramite argomentazioni di carattere razionale. Insomma l’inconscio, una volta obiettivato come tale (qualcosa come un marchio, una sigla), è più facile da sconfiggere, così come accade in seduta. I modi sono infiniti come ben sappiamo, dalla banalizzazione, all’uso indiscriminato che ne fa perdere i contorni, alla smentita scientifica ecc. Il bersaglio naturalmente sarà per prima cosa, la psicoanalisi come teoria e come pratica. Ne consegue che la psicoanalisi, una volta svuotata di valore, si può mettere nel cantuccio dei fatti che esistono per non essere presi in considerazione. La crisi della nostra disciplina va fatta risalire ad un insieme di motivi, peraltro ampiamente descritti in letteratura. Suggerisco che, fra le resistenze che essa suscita, oggi un posto di rilievo vada attribuito al diniego.
Il parallelo fra ciò che è accaduto in seduta e la risposta sul piano culturale può continuare. Anche in questo ambito infatti il diniego appare imbattibile: se cercassimo di argomentare le nostre ragioni, dovremmo poi infatti confrontarci con coloro che ci rifarebbero il verso accusandoci di non prendere nella giusta considerazione le nostre tante promesse mancate, i nostri ripetuti fallimenti terapeutici, l’assurda lunghezza dei nostri trattamenti, le nostre infinite incertezze teorico cliniche, gli indubbi vantaggi della psicofarmacologia e dei tanti approcci che vanno invece al sodo e curano il sintomo e via di seguito. Saremmo noi insomma, quelli che ricorrono al diniego. Obiezioni inscalfibili e pure corrette, anche se comunque siamo di fronte ad una resistenza. Occorre ribadirlo, perché temo che, a lungo andare, le stiamo assumendo come se fossero condivisibili. Siamo immersi nel contesto culturale e sociale, ne siamo direttamente coinvolti, e potrebbe essere che ci lasciamo troppo influenzare. Non so spiegarmi altrimenti la continua messa in discussione, da parte di tanti psicoanalisti, soprattutto nord americani, del lascito freudiano. Sembra proprio che ormai di Freud si possa fare a meno, ha sbagliato tutto, gli resta giusto il merito del pioniere. In particolare mi sembra incredibile come si possa, con così grande sicurezza e disinvoltura, disarticolare dalla psicoanalisi il polo pulsionale. Certo, non è gradevole ammettere l’ acuto e persistente malessere che l’uomo incontra nel processo di civilizzazione. O partire dalla premessa che la mente dipende dalle selvagge richieste che le vengono poste dal corpo che la contiene. Una psicoanalisi del genere puzza di zolfo, diamoci da fare per edulcorarla e presentarla come il giusto rimedio alla storture prodotte da una cattiva educazione. Intanto ci si stupisce di quello che accade nel mondo, degli uomini cui si taglia le gola davanti alla macchina da presa, delle stragi, delle barbarie terribili di cui siamo spettatori ogni giorno.
Anche l’esito del colloquio con i genitori che si rifiutano di pensare che il figlio possa avere una malattia mentale si può intendere come paradigmatico di quello che sta accadendo sul piano socio culturale a proposito della psicosi. Anni fa la schizofrenia era il tema di una moltitudine di congressi e risvegliava un grande interesse, non solo in campo specialistico. Se ne discuteva nel salotto degli intellettuali, era motivo di accesi dibattiti a livello politico, era uno dei temi al centro dell’interesse del pubblico. La malattia mentale stava in un luogo creato per nasconderla, ma che pur sempre, ineludibilmente, la rappresentava. Con la chiusura degli O.P. il diniego torna a far valere la sua logica. Si elimina il luogo fisico abitato dalla follia, la si trasporta nell’ospedale civile e la si medicalizza; e l’attacco a ciò che la rappresentava come un fatto oggettivo (il manicomio) rinforza la negazione. La legge 180 aveva quale suo principale obiettivo quello di combattere i meccanismi di esclusione che colpivano la psicosi e di riportarla nel sociale e nel contesto familiare, ossia nell’ambito ove essa aveva preso piede. Il risultato è paradossale, è l’esatto contrario. I manicomi ora non ci sono più ed insieme ad essi… è scomparsa pure la malattia mentale. Non se ne parla più, le famiglie la nascondono, non fa notizia nei giornali o alla televisione, le cliniche specializzate chiudono. Insomma, non interessa ormai a nessuno. La psicosi è tornata nel suo luogo naturale, nel dimenticatoio.
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Se riflettiamo su come viene a formarsi l’opinione pubblica un esempio che salta agli occhi è il diniego di milioni di italiani rispetto ai comportamenti di Berlusconi. Tutto il mondo era a conoscenza dei suoi infiniti guai con la giustizia e rideva delle “feste eleganti” di Arcore, ma a tanti nostri concittadini tutto questo appariva e tuttora appare ininfluente per quanto riguarda il giudizio su di lui; essendo il problema, se mai, da riferire alla cattiveria dei giudici. Se chiediamo della persecuzione a carico del popolo ebraico non possiamo argomentare che il popolo tedesco non sapesse; semplicemente non voleva vedere. Situazioni del genere sono davvero tante. Una che viene subito alla mente è lo scandalo della pedofilia così diffusa in ambito ecclesiastico e cosi pervicacemente elusa e sottovalutata sia a Roma che presso milioni di fedeli. Ci voleva il nuovo Papa per sapere del comportamento perverso di tanti preti, dell’omertà da parte dei vescovi e per prendere atto che certi comportamenti e certe ipocrisie sono intollerabili.
Potremmo riproporre lo stesso punto di vista per quanto riguarda la questione dell’omosessualità, per come se ne discute in questi giorni. Gli omosessuali, fino a qualche decennio fa esistevano e non esistevano, confinati come erano in una sorta di terra di nessuno, una bizzarra anomalia che faceva parte soprattutto delle abitudini della Grecia classica. Adesso non possiamo più non prendere in considerazione che l’attrazione può essere omofolica e dovremmo confrontarci davvero con quello che più temiamo, ossia che possa esistere in noi una diversa inclinazione sessuale, opposta rispetto alla nostra identità di genere. Le proposte sul piano legislativo che gli omosessuali possano sposarsi e avere figli provocano scandalo, ma la logica che sostiene questi provvedimenti mira esattamente all’obiettivo opposto. Si tratta infatti di spogliare l’omosessualità dell’effetto scandalo che produce. L’atteggiamento “politically correct” normalizza l’anomalia. Il risultato tendenziale è che gli omosessuali stanno a rappresentare non una deviazione, ma una variante dello sviluppo psicosessuale e stanno benissimo in nostra compagnia. Se l’omosessualità fa parte a pieno titolo della nostra vita (comporta la piena riconoscibilità, richiede gli stessi diritti), non rappresenta più un pericolo per la predeterminazione e la naturalità dello sviluppo, si spoglia dei suoi tratti perversi che sollecitano la nostra ambivalenza e che prima ci era difficile astenerci dal prendere in considerazione. Dal diniego alla negazione.
Se poi scendiamo sul piano della vita di tutti i giorni gli esempi si moltiplicano all’infinito, con risvolti anche divertenti, Prendiamo il caso del coniuge che è l’unico a non sapere che il partner lo tradisce, oppure che crede alle sue smentite anche di fronte alla più chiara delle evidenze. O quello del fumatore con una bronchite cronica e un principio di enfisema che si ostina a non credere che il fumo fa male, negando il dato scientifico anche se egli stesso è un medico (sto parlando del sottoscritto, come chi mi conosce avrà già capito).
Abbiamo a che fare con un atteggiamento difensivo che influenza profondamente le nostre capacità di giudizio. Si può generalizzarlo come quello che viene messo in opera per vedere solo ciò che, molto semplicemente, ci è più comodo vedere. Vale il vecchio detto: “Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire”. Naturalmente, più apriamo l’area di indagine più il concetto perde in specificità; ma rimane, come già dicevo, un indicatore prezioso. Viene utilizzato ad esempio per spiegare il comportamento contradditorio degli investitori in azioni, quando cadono nel classico e sempre ripetuto errore di non uscire dal mercato quando i prezzi sono troppo alti e sottovalutano le avvisaglie dell’avvicinarsi di una crisi.
Accadono, per converso, numerose situazioni che forzano la persona ad utilizzare il diniego. Descrivo una vicenda che mi ha coinvolto personalmente e che a suo tempo mi ha dato del filo da torcere. Anni fa il reparto di psicopatologia nell’ospedale civile in cui lavoravo, per una serie di circostanze che non sto ad illustrare, si trasformava in un reparto di psichiatria per psicotici in fase di acuzie. Si lavorava in condizioni impossibili, addirittura molto peggio di come faceva lo psichiatra tradizionale: niente colloqui, ricorso a dosi massicce di psicofarmaci, contenzioni al letto e via dicendo. Questo accadeva il mattino. Durante il pomeriggio lavoravo invece privatamente come psicoterapeuta. Due situazioni antitetiche, che mi creavano grossi problemi, soprattutto sul versante deontologico. La soluzione era ovvia, si dovevano fare le due cose, negandole di volta in volta entrambe: la mattina si faceva lo psichiatra “dimenticando” quello che si faceva il pomeriggio e viceversa. In altre parole occorreva funzionare secondo la logica del diniego e sostenere la dissociazione. A me l’operazione non riusciva e mi sentivo dissociato (in certi momenti mi trovavo a riflettere su chi io fossi veramente), poiché subivo la dissociazione, come qualcosa che mi veniva imposto dalle circostanze, invece di metterla in opera io stesso. Credo che problemi di questo tipo abbiano coinvolto e coinvolgano moltitudini di persone sotto il giogo di una dittatura, costrette a scindere comportamenti da convinzioni. Le risposte possibili sul piano individuale dipendono ovviamente dal sistema di valori cui si fa riferimento. Per quel che mi riguarda, come potevo ingaggiarmi in una situazione di aiuto con il mio paziente privato, se prima ero stato tanto insensibile e violento; e diventare una sorta di secondino il mattino, proprio io che ponevo nell’incontro il valore stesso della mia professione? Mi accusavo di mancanza di coerenza, non mi vedevo adeguato rispetto alla connotazione ideale che avevo sempre dato al mio impegno lavorativo. In altri termini ero in conflitto con il mio Super-io. Non mi è per nulla facile anche adesso, così come lo era allora, affermare che ero nel giusto, non potevo che sentirmi in quel modo. Va notato che altri colleghi che si trovavano nella stessa situazione non sembravano affatto in conflitto. I miei precetti morali erano troppo rigidi e severi o il loro sistema superegoico era carente, se non corrotto?
Credo che questa domanda percorra tutto il mio scritto: il diniego ed il suo rapporto con il super-io. Ci si muove secondo un mero criterio di convenienza, al fine di trovare una soluzione di comodo. E va bene così, non tutti sono nati per fare gli eroi, quel che conta è cavarsela alla bella è meglio. Tuttavia il diniego comporta una lettura della realtà tendenziosa, ingannevole; commentando le situazioni cliniche ho descritto come il paziente trovi la strada per liberarsi della responsabilità delle sue scelte. Siamo dunque a un passo dalla ipocrisia, dalla menzogna. Non si può peraltro dimenticare come Freud lo descriva per la prima volta in relazione alla perversione, ossia all’esito di un percorso evolutivo caratterizzato, per l’appunto, dall’aggiramento della proibizione superegoica.