Chi lavora in istituzione, e in particolare in ambito psichiatrico o della neuropsichiatria infantile, non può fare a meno di confrontarsi con i criteri diagnostici del DSM (Diagnostic and Statistical Manual of mental disorder), giunto nel 2014 alla quinta revisione (DSM-5®). Un lavoro integrato all’interno di un’équipe presuppone il fatto che gli operatori condividano alcuni criteri di fondo, e si esprimano vicendevolmente attraverso un linguaggio comune, del quale sia chiaro il significato. Ciò non vuol dire che la terapia analitica di uno psicologo psicoterapeuta che lavora in un servizio psichiatrico debba seguire indicazioni date da altri, essendo necessario salvaguardare l’autonomia di lavoro dello psicoterapeuta, perché possa crearsi e svilupparsi un’alleanza terapeutica con il paziente. In altri termini, uno psicoterapeuta deve poter lavorare fondandosi sui princìpi basilari della sua teoria di riferimento, ma al tempo stesso non può prescindere dal contesto in cui opera, e dall’opportunità di collocarsi in modo sintonico e sinergico all’interno dell’équipe di cui fa parte. Eventuali contrasti o dissonanze con lo psichiatra di riferimento (e non possiamo dimenticare che è lui ad avere la responsabilità del caso e a dover rendere conto dell’efficacia della terapia) riverberano inevitabilmente sul lavoro terapeutico, proponendo (anzi imponendo) all’utenza l’immagine di un’istituzione dissociata nei membri che ne fanno parte, che hanno la pretesa di comporre una scissione dell’io del paziente non occupandosi di non essere a loro volta scissi nell’operare “terapeuticamente”.
Per quanto uno psicoterapeuta di orientamento psicoanalitico possa ritenere che i criteri diagnostici vadano rivisti e applicati attraverso la prospettiva psicoanalitica (esiste anche il PDM – Psychodinamic Diagnostic Manual, prodotto in USA, come il DSM, ma il cui uso è molto meno diffuso) il DSM è diventato uno strumento di troppo largo uso in ambito psichiatrico perché ci si possa permettere il lusso di ignorarlo.
Se un processo di conoscenza appare dunque necessario, qualche riflessione sull’evoluzione di questo manuale può essere utile allo psicoterapeuta psicoanalitico per tenere il passo col pensiero psichiatrico più diffuso, e affinare i propri strumenti al fine di mantenere vivo lo spirito collaborativo con i componenti dell’équipe in cui opera. Ciò contribuisce anche a sfatare l’immagine dello psicoanalista chiuso nel suo studio che lavora sui meccanismi inconsci prescindendo dagli aspetti familiari, sociali, istituzionali e farmacologici, che sono invece, a mio avviso, fondamentali per la conoscenza e il trattamento del paziente.
Nel progredire delle varie revisioni (l’enorme diffusione si è avuta a partire dal DSM III) si è avuto un progressivo suddividersi dei termini dei criteri in voci sempre più distinte, con una scomposizione in sotto-voci che andavano a delineare aspetti sempre più specifici dei disturbi. Questa modalità si è mossa in sintonia con il percorso storico della medicina, che si è frammentata in specializzazioni sempre più dettagliate che rendono sempre più lontana nel tempo la figura del “medico di famiglia” pensato come medico “della persona” nella sua totalità. Abbiamo visto svilupparsi medicine “alternative”, accomunate, per la stragrande maggioranza, da una prospettiva olistica, che cerca di ricondurre alla persona nella sua totalità l’approccio conoscitivo e terapeutico, parallelamente a una frammentazione sempre più marcata della medicina “ufficiale”, sempre più specialistica, e tesa a individuare in cause precise e puntuali l’origine della “malattia”.
Il DSM - 5® presenta, da questo punto di vista, una marcata inversione di tendenza. Un fatto che balza subito all’occhio è la scomparsa degli “Assi”. Con questo termine venivano catalogati quattro livelli di patologia considerati come dei veri e propri gruppi di appartenenza che ne definivano la gravità: dal 4º, corrispondente a uno stato psicotico conclamato, a scendere fino al 1º, consistente in quelle patologie cosiddette “minori” alle quali la psichiatria dovrebbe dare solo un inquadramento iniziale rimandandone la cura a figure mediche “di base”.
La scomparsa di questo criterio appare non solo come un’inversione di tendenza, ma come una vera e propria rivoluzione copernicana. I disturbi non vengono più inscritti in una fascia di gravità a seconda del tipo di patologia, ma vengono affiancati l’uno all’altro e descritti in una possibile gradualità di gravità che sfuma in modo consistente i confini netti a cui le versioni precedenti del DSM ci avevano abituato. E, andando più per il sottile, si può osservare che anche nella descrizione delle varie patologie lo stile espositivo è molto meno drastico e molto più sfumato, con diffusi riferimenti alla complessità. Il DSM si è umanizzato.
Un aspetto sul quale ritengo importante rivolgere l’attenzione è l’umana tendenza a resistere al cambiamento, che può portare a ridurne la portata, continuando, in nome della “praticità”, ad applicare per abitudine vecchi criteri sui quali si era costituita un’intesa. Può capitare allora che ancora oggi, a due anni dall’introduzione del DSM - 5®, qualcuno faccia riferimento agli “Assi”, aggiungendo magari “per intenderci”, ricollegandosi ai vecchi criteri diagnostici come se potessero servire ancora per rendere più rapido il discorso e più facile la comprensione reciproca, perlomeno tra gli “addetti ai lavori”. E questo ritengo che non dovrebbe accadere. Stare al passo con i tempi significa, a mio avviso, accogliere ciò che cambia storicamente anche nel linguaggio e nelle forme espressive. Come dice Nanni Moretti in Palombella rossa “Chi parla male pensa male!”, a sottolineare come il formulare un pensiero con un linguaggio inappropriato snatura il pensiero stesso (e proprio noi psicoanalisti dovremmo avere una particolare propensione a questa lettura, pensando con Freud ai significati sottesi alla nostra espressività nella Patologia della vita quotidiana).
Un’ultima considerazione riguarda un altro cambiamento storico inerente al mondo della medicina, e che sembra andare in sintonia con un suo processo di “umanizzazione”. Chi ha partecipato (parlo della Lombardia, ma credo che in una certa misura il discorso possa valere anche per molte altre regioni), dalla fine degli anni ’70 a oggi, alle trasformazioni dovute alle varie riforme sanitarie, ha visto gli enti deputati alla gestione della salute pubblica cambiare più volte di denominazione. L’ente che nacque per primo (fine anni ’70) fu il CSZ (Consorzio Sanitario di Zona) che si affiancava alle Provincie raggruppando più comuni nella gestione di singoli servizi. Poi venne l’USSL (Unità Socio Sanitaria Locale) che prese su di sé molte competenze della Provincia di riferimento. Poi subentrò l’ASL (Azienda Sanitaria Locale) che assunse praticamente l’intera gestione della sanità, svuotando la Provincia della quasi totalità delle competenze; in questa fase, gli Ospedali divennero Azienda Ospedaliera, e alcuni servizi, tra cui la Psichiatria e la Neuropsichiatria infantile, passarono di competenza a quest’ultimo ente; si noti che in questo passaggio accadono due cose significative: una “S” sparisce, e dunque l’Azienda è solo “Sanitaria” e non più “Socio”, e la Psichiatria viene collocata in ambito rigorosamente ospedaliero, a sottolineare che gli aspetti socio-assistenziali sono di maggior pertinenza dell’ASL, e che l’intervento psichiatrico è fondamentalmente un intervento “medico”.
Con l’ultima riforma sanitaria, dell’inizio del 2016, le cose sono ulteriormente cambiate, e a mio avviso il cambiamento è, questa volta, in controtendenza e in sintonia con ciò che ho rilevato nel DSM. L’ASL e l’Azienda Ospedaliera sono confluite in un unico nuovo ente, denominato ASST (Azienda Socio Sanitaria Territoriale), e in un solo colpo abbiamo il recupero di due termini che nel glorioso passato in cui venne introdotta la legge Basaglia (Legge 180 del 1978) andavano per la maggiore: è ricomparso il “Socio” prima di “Sanitaria” ed è ricomparso il “territorio”, luogo nel quale gli psichiatri e gli psicologi “di frontiera” cercavano di portare, agli inizi dell’applicazione della legge 180, i fondamenti di una psichiatria nuova, che aveva abbattuto i muri del vecchio manicomio e aveva ricollocato le persone affette da disturbi psichici nel loro contesto di appartenenza, per l’appunto “sul territorio”.
Mi sono lasciato troppo trasportare dall’entusiasmo? Speriamo di no!