Avrete certamente notato come sia caratteristico che nella storia delle scienze e della cultura scientifica e psicologica facciano una vera e propria irruzione parole e concetti capaci di ampliare e innovare profondamente sia la teoria che la stessa pratica clinica.
Ricordo ad esempio la riformulazione, ormai consensualmente condivisa e acquisita del concetto di narcisismo che Kout propone alla comunità psicoanalitica negli anni ’70 dello scorso secolo oppure l’uso e la formulazione dell’idea di Sé introdotta da Senise negli anni ’80, sia per suo modo di intendere l’adolescenza che di praticarne la terapia.
Oppure la diffusione e la fortuna della parola “interpersonale” di cui fu protagonista Mitchell negli anni ’90.
Adesso, come sappiamo, si parla molto di intersoggettivismo.
Ebbene, l’espressione “evolutivo”, approccio evolutivo, hanno avuto lo stesso impatto in questi ultimi dieci anni di clinica psicologica e psicoanalitica. A differenza però di concetti come” narcisismo” o “Sé” sono ampiamente discussi e variamente declinati, l’approccio evolutivo ha un suo assetto concettuale ed epistemologico molto chiaro e sostanzialmente condiviso, pur, anche qui, con inevitabili discussioni.
Di cosa si tratta? Si tratta innanzitutto di riconsiderare il fenomeno e l’esperienza della vita non come un processo lineare e continuo, bensì discreto e discontinuo e contraddistinto da una successione di passaggi evolutivi privi di meccanicità e di automatismo impersonale, il cui superamento determina l’accesso ad un passaggio evolutivo successivo. Tali passaggi sono momenti topici, quasi da imprinting, vere e proprie finestre che ad un certo punto si aprono e si attraversano. Possono quindi rappresentare degli appuntamenti mancati difficili poi da intercettare di nuovo ma che l’approccio evolutivo clinico, nella sua concreta e flessibile caratterizzazione consente comunque in molti casi di riaprire e superare. Contrariamente a quello che alcuni pensano l’approccio evolutivo, lo ripeto, non è né lineare né standardizzato ma è fortemente centrato sul singolo e concreto caso clinico; non si propone quindi come un paradigma rigido e omologante, ma è di natura intrinsecamente critica e conflittuale, cioè basato su un’idea dello sviluppo, lo ripeto ancora una volta, non lineare ma basata sul conflitto.
Una prima constatazione quindi da un punto di vista epistemologico e clinico è che non c’è antitesi o rivalità tra l’approccio evolutivo, ad esempio, e quello classicamente psicoanalitico, centrato su l’idea di processi e conflitti intrapsichici, come, a lor volta costitutivi e intrinseci come motori determinanti della vita dell’individuo e del rapporto tra gli individui.
Come del resto lo stesso approccio interpersonale rimane a sua volta fondamentale. Vanno tutti intesi come approcci teorici estranei a qualsiasi fondamentalismo ideologico- culturale, e quindi non antagonistici bensì complementari.
Ma torniamo specificamente all’approccio evolutivo e, in particolare, alla sua applicazione al problema delle depressioni giovanili.
Potremo allora parlare, ad esempio, oltre che di depressione endogena, esogena, ciclica, reattiva, anche di depressione evolutiva? Io penso di si. Prima però di affrontare la questione devo aggiungere qualcosa di più preciso rispetto al concetto di sviluppo evolutivo e di compiti evolutivi cioè di quei passaggi che scandiscono lo sviluppo, il processo evolutivo. Prima di parlare di clinica depressiva del giovane adulto, devo però aggiungere ancora qualcosa, come premessa, relativa a quella che è la fase del ciclo di vita che precede quella del giovane adulto, e cioè l’adolescenza e i passaggi e compiti che ne scandiscono a sua volta lo sviluppo. Siamo ormai sostanzialmente tutti d’accordo su quelli che sono i compiti evolutivi specifici dell’adolescenza, e li indico in modo necessariamente schematico (sintetico).
Un primo compito evolutivo dell’adolescente implica l’acquisizione di quella che abitualmente viene definita la mentalizzazione del corpo puberale e genitalizzato.
Un altro compito evolutivo fondamentale è la capacità dell’adolescente ad allontanarsi e differenziarsi dalle figure dei genitori. L’individuazione altro compito evolutivo fondamentale come implicitamente sottolinea la parola, ha molto che fare con questa capacità di allontanarsi, separarsi, differenziarsi.
Infine, un compito evolutivo vistoso e caratteristico dell’adolescenza è la socializzazione. Una socializzazione autentica, in senso proprio, e non imposta o gestita dai famigliari, come avveniva ai tempi della scuola materna o delle elementari, dove era spesso decisiva la diretta iniziativa dei genitori, madri soprattutto, nel promuovere processi di socializzazione in un certo senso “forzata”.
I compiti evolutivi che competono il giovane adulto cioè di quella categoria anagrafica se non lo avessi già detto prima che convenzionalmente si pone tra i venti e i trenta anni di età, tali compiti evolutivi dicevo, sono in una relazione di connessione ma anche di differenziazione rispetto (a quelli) ai compiti evolutivi dell’adolescente.
Primo compito evolutivo implica la trasformazione del modo di concepire e di vivere la relazione con l’oggetto d’amore, che nell’adolescente è caratteristicamente e intrinsecamente narcisistico cioè un oggetto di rispecchiamento e di identificazione. Il giovane adulto deve scoprire, anche nell’amore, il valore della diversità, e della differenza purchèoccasione emotivo di arricchimento e soprattutto di complementarietà reciproca.
È un passaggio difficile specie in questa nostra cultura cosiddetta del narcisismo. Va da sé che questo, come gli altri compiti evolutivi, non vanno intesi in modo standardizzato e fondamentalista: ad esempio, per intenderci, è evidente che quote importanti di narcisismo devono pur permanere nell’amore adulto cioè genitale. Ecco, il giovane adulto deve accedere ad una cultura della genitalità, non solo sul piano della vita sessuale e amorosa, ma in un senso più ampio laddove la genitalità si basa sul riconoscimento dell’altro e del diverso e sulla loro capacità di scambiarsi doni di pace e non di guerra.
Un secondo compito evolutivo riguarda il completamento del processo di separazione dai genitori, anche in senso spaziale e abitativo. Obiettivo questo che come ben sappiamo tutti, è stato reso più difficile rispetto al passato da fattori di ordine socio-economico che non possiamo ignorare, a meno di porci in una posizione di giudizio moralistico del giovane adulto, come alcuni hanno fatto definendoli “bamboccioni” e “mammoni” troppo poco sensibili ai bisogni dell’autonomia e della indipendenza.
Nel processo evolutivo di separazione dai genitori si deve includere anche una fondamentale trasformazione intrapsichica che riguarda il rapporto del giovane adulto con i propri genitori “interni”. Da questo punto di vista il genitore interno non deve più avere quelle tracce di onnipotenza infantile che sono ancora molto forti nell’adolescente. Il giovane adulto deve scoprire e conoscere i propri genitori reali cioè nella realtà dei loro limiti ed è con queste figure che deve costruire un nuovo patto socio-affettivo più maturo più realistico e più basato sullo scambio “genitale”.
Il terzo compito evolutivo è forse quello più sottile e più nevralgico. lo si può chiamare della soggettivazione o meglio, io direi, della soggettazione. Cosa intendo con questa espressione? Alla individuazione realizzata dall’adolescente, il giovane adulto dovrebbe aggiungere una presa di coscienza relativa a se stesso non più solo come individuo separato, ma anche come soggetto, cioè come protagonista e responsabile delle proprie azioni e delle proprie scelte . Qui le due figure, adolescente e giovane adulto, divergono profondamente: l’adolescente per emanciparsi deve ribellarsi e responsabilizzare gli altri dei propri problemi (genitori, professori, compagni poco narcisistici, ecc). Cioè è colpa degli altri. Al di là di colpe altrui effettive,il giovane adulto deve invece sapersi assumere la responsabilità delle proprie scelte e delle proprie azioni, inclusi errori e inadempienze. Deve cioè conoscersi nella sua realtà, qualità e difetti.
Come frutto del raggiungimento di tutti questi compiti evolutivi, il giovane adulto dovrebbe a questo punto conseguire il compito finale, quello che potremmo definire della genitalità sociale che implica la capacità di transitare da un fantasticare irrealistico, tipico dell’adolescente, alla capacità di progettare in modo realistico progetti non onnipotenti rispondenti alle sue attitudini e ai suoi talenti come direbbe Kout. E tutto ciò dovrebbe comportare l’acquisizione della piena autonomia anche economica e di una realizzazione adeguatamente gratificante del suo Sé.
Tutto questo in teoria, naturalmente, perché in realtà, come più volte ho sottolineato, il conseguimento dei compiti evolutivi comporta non solo difficoltà, interne ed esterne ma anche conflitti, specie interni. Tali conflitti determinano il fallimento dell’obbiettivo evolutivo o il suo congelamento.
Quale l’effetto di questa situazione, se non una forma di depressione che possiamo considerare una forma specifica di depressione, legata ad una forma specifica di condizione di sofferenza, che può mescolarsi ad altre tonalità depressive ma che credo sia molto utile e strategico riconoscere nella sua componente autonoma. In questa ottica, al di là dell’eventuale supporto farmacologico e dell’intervento psicoterapeutico nelle sue varie declinazioni possibili, si dovrà aggiungere, ecco la nostra proposta, un intervento sistematico e appropriato sul compito evolutivo in empasse e/o sul conflitto in esso coinvolto.
Alcuni esempi un po’ buttati lì.
Se una ragazza cade in depressione non tanto per una storia amorosa finita male quanto perché le istanze e le aspettative messe nel rapporto reclamavano una sorta di rispecchiamento narcisistico assoluto, rispetto al quale ogni diversità ogni mancanza di corresponsione giudicati dalla ragazza e da lei vissuta venivacno come una sorta di tradimento una disillusione intollerabile e il conseguente tracollo depressivo del proprio Sé.
Che fare in questo caso se non, più che consolare la ragazza o rianimare in lei la aspettativa fiduciosa nell’incontro con un altro davvero narcisisticamente adeguato. Si tratta invece di aiutarla attraverso una lenta azione riflessiva che la coinvolga attivamente che la renda capace di riconoscere l’altro, gli altri, nelle loro diversità e realtà, limiti inclusi. Si tratta quindi di aiutarla a scoprire che la diversità non è in antitesi all’amore ma lo può rendere più ricco purchè le diversità siano complementari e non confliggenti cioè, ancora una volta, accedere ad un modello esistenziale genitale in cui si gode in due, così come nel rapporto sessuale la diversità degli organi è la precondizione per la loro capacità di darsi reciprocamente piacere.
Un altro esempio relativo ad una situazione clinica che in questi anni sta diventando quasi epidemica del conflitto sotteso al blocco evolutivo può essere un conflitto trauna rappresnetazione ancora infantilmente onnipotente del proprio Sé e “ambizioni” (mi rifaccio ancora ad un termine usato da Kout realisticamente rispondenti a capacità e attitudini). Di qui un senso continuo di fallimento e di disillusione. Oppure l’incapacità a trovare una propria strada, proprio perché tutte sono possibili e proprio perché la scelta di una strada può essere vissuta come una scelta limitativa, vincolante, troppo parziale. Anche in questo caso che fare? Non si tratta certo di aggiungersi alla schiera innumerevole dei consiglieri famigliari ed extra famigliari. Si tratta invece di aiutare il ragazzo a conoscere bene se stesso, le proprie attitudini, i propri limiti ma anche ad aiutarlo ad acquisire, al di là anche del suo problema specifico un senso di realtà che si fonda davvero su di un principio di realtà, proprio in senso freudiano. Questo conoscere l’altro e conoscere Sé implica anche in qualche modo la capacità del paziente di riferire discorsi e riflessioni in corso a momenti ed interazioni presenti nella relazione con il terapeuta. È un lavoro quindi sul transfert ma non sul transfert inteso in senso archeologico, o non necessariamente; bensì su un transfert vissuto nell’hic et nunc dell’interazione relazionale psicoterapeutica. Si tratta di centrare il proprio lavoro con il paziente non solo sul suo Sé, le sue rappresentazioni e i suoi miti, ma anche sull’Io e cioè su di una istanza psichica che nella fascia di età caratteristica del giovane adulto, venti/trenta anni, luogo di risorse fondamentali per il raggiungimento degli obiettivi evolutivi: capacità di osservazione e di auto osservazione, senso della realtà, senso della possibilità e della concreta raggiungibilità, capacità riflessiva e autoriflessiva, capacità di individuare obiettivi (progetti o incontri).
Un’ultima annotazione tecnica. Credo che questo tipo di lavoro non possa rimanere dentro spazi temporali restrittivi. Più che la consultazione è richiesta una psicoterapia sufficientemente duratura e intensiva. Certo, non si tratta certamente di una psicoterapia intesa in senso tradizionalmente psicoanalitico e quindi con una forte impronta storico genetica. Per una psicoterapia di questo tipo, almeno monosettimanale, vedo più appropriato, rispetto al lettino il vis a vis, (non sempre però e non necessariamente). I volti dei due dialoganti in interazione devono potersi vedere, studiare, riconoscersi, distinguersi. Ma la vivacità interattiva del vis a vis non deve, a mio avviso, incoraggiare uno stile relazionale che privilegi eccessivamentel’aspetto emozionale e non deve neanche indurre ad uno stile conversazionale, come dico spesso ai miei allievi, “da bar” cioè fatto di battute e controbattute, scambio irriflessivo e impaziente. Al contrario deve essere un sedere uno di fronte all’altro riflessivo che favorisce un rallentamento dello scambio verbale e un approfondimento delle prime sensazioni avvertite in sè dal paziente. Non è la “prima risposta” quello che conta in questo tipo di dialogo ma insegnare al paziente a diffidare sempre della “prima risposta” a metterla in discussione, a cercare in questo modo l’”altra” risposta, magari più vera anche perché più difficile da scoprire, da ammettere e da pronunciare.
Concludo riaffermando il carattere empirico e relativista della proposta dell’approccio evolutivo. È un approccio che considero particolarmente appropriato e consigliabile nei casi in cui la sofferenza, depressiva sia riferibile in modo significativo all’aspetto evolutivo della vita del paziente e lì registri scacco, fallimento, depressione. È evidente, anche se nessun approccio clinico è separabile in modo netto dagli altri che ci possono essere situazioni dove l’approccio psichiatrico tradizionale è ineludibile o il lento e un po’ estenuante processo di elaborazione psicoanalitica è pure inevitabile. Ma ci sono casi e situazioni in cui l’approccio evolutivo riesce davvero a centrare il problema e quindi a intervenire in termini risolutivi anche sul tono dell’umore e sullo stato di sofferenza del paziente.