Pratica Psicoterapeutica

Il Mestiere dell'Analista
Rivista semestrale di clinica psicoanalitica e psicoterapia

NUMERO 13
2 - 2015 mese di Dicembre
CLINICA
SKYPE O NON SKYPE?
di Sara Maccario

Skype o non Skype? Questo è il problema!

Se Shakespeare vivesse oggigiorno forse potrebbe adottare inconsapevolmente una formula difensiva, per il suo Amleto, avente come contenuti le oscillazioni dubitative riguardanti l’uso di Skype, esistenziale dilemma funzionale ad impedire o alleviare l’incontro con la dolorosa impotenza determinata da vissuti caratterizzati dal non sentire-esistere: insomma una specie di oscillazione intellettuale al servizio di porzioni isteriche della psiche.

Esposta siffatta provocatoria premessa ringrazio i colleghi per aver portato tale argomentazione all’interno di un dibattito-confronto; ma prima di addentrarmi nelle mie riflessioni sull’argomento mi concedo una breve specifica inerente alla significazione “linguaggio-analitico”, tematica contenuta all’interno di un articolo pubblicato nella Rivista.

Ritengo il linguaggio analitico universale e avulso da epoche storiche, culture o innovazioni tecnologiche in quanto, a mio avviso, radicato e rivolto ad osservare quegli stati emotivi primari, aggressività, paura, ecc scaturiti dai primari circuiti relazionali oggettuali, spazi relazionali all’interno dei quali la struttura psichica andrà a muovere i primi passi relazionali interni ed esterni; al contrario i mezzi usati dalle sopracitate emozioni al fine di potersi rappresentare nel mondo attraverso le epoche storiche o culture, li potremmo pensare come oggetti transizionali in grado di far comunicare la realtà interna con quella esterna. Tali strumentazioni, ravvisabili nei linguaggi, nei comportamenti, negli atteggiamenti, nei pensieri, negli oggetti, ecc. saranno indubbiamente legati alle epoche, alle culture, ma essi e le loro modalità d’uso saranno rappresentazioni scaturite da quegli innumerevoli colori ed intrecci emozionali abitanti le profonde strutture psichiche, osservate, accolte, accudite, smatassate e perché no, riabilitate dall’universale linguaggio analitico.

Differenziare l’inconscio è tecnicamente corretto, così come enunciare i pensieri di chi ci ha preceduto proseguendo, attraverso le epoche storiche e con mezzi differenti, la divulgazione delle conoscenze, delle teorie divenendo una prosecuzione che si arricchirà di preziose divergenze e alleanze, ma il linguaggio analitico, per come lo intendo io, non andrà ad interessarsi dei contenuti di tali riflessioni, idee o dei mezzi usati per divulgarli, esso dirigerà lo sguardo dietro le quinte di ciascun commento scovando le forme relazionali delle differenti strutture di personalità determinate dall’insieme di straordinari incastri emozionali: primari scalpelli affettivi.

Partendo da tale considerazione non ritengo l’uso di Skype un possibile strumento atto a instaurare una psicoterapia/psicoanalisi; come il telefono o le lettere indubbiamente sarà uno strumento importante ai fini di comunicazioni relazionali legate a situazioni particolari quali spostamenti lavorativi e/o situazioni caratterizzate da importanti impedimenti fisici momentanei o duraturi, ma mi viene difficile ravvisare in esso un possibile setting terapeutico avente valenza clinico-analitica. Lo ritengo mancante di elementi caratterizzanti la coppia terapeutica e il clima relazionale ad essa legato, elementi che a mio avviso possono abitare esclusivamente l’interno di una stanza di terapia.

Un clima emotivo entro il quale la coppia analitica va creando e rintracciando, per quanto possibile, quel clima relazionale primario sperimentato e universalmente caratterizzato da incontri reali e non virtuali accaduti nelle primarie epoche relazionali.

La mia formazione clinico-analitica, tuttora fortemente sentita sintonica al mio sentire emotivo, mi ha professionalmente avvicinata a riflettere sull’importanza contenuta nel reale setting terapeutico, una cornice relazionale rivolta all’accoglienza, al rispetto e al riconoscimento di quanto la sofferenza psichica necessiti di un primario bisogno di essere riconosciuta e contenuta attraverso relazioni che sappiano riassumere, rappresentare e riproporre spazi relazionali originari venuti a mancare, resi confusi o sfilacciati nelle forme e nei contenuti, luoghi relazionali che non sono stati capaci di creare coerenti limiti tra un fuori e un dentro, tra un percepito ed un immaginato, relazioni in difficoltà a tollerare momenti di empasse e/o attesa senza necessariamente ricorrere a modalità sostitutive e/o artificiose. Se, dunque, un paziente, improvvisamente, sperimenta la capacità e possibilità di poter tollerare uno spostamento lavorativo implicante anche un importante cambiamento di città, con tutto ciò che questo può implicare, mi chiedo come non “possa” affrontare una momentanea interruzione della terapia, senza che questa diventi, necessariamente, una totale scomparsa del proprio terapeuta e di Sé.

Sono dell’avviso che una momentanea interruzione terapeutica potrebbe rappresentare una possibilità di ascolto che il paziente potrebbe effettuare su di sé rispetto al cambiamento in atto, una situazione di separazione che potrebbe apportare differenti bisogni da presentare certamente al proprio terapeuta, ma usando mezzi di comunicazione sintonici e soprattutto scelti dal paziente considerando tempistiche radicate in un “qui ed ora” legato ai cambiamenti; una possibilità di “lasciarsi sentire” rispetto a come e cosa usare come comunicazione senza aver preventivamente concordato preventive prosecuzioni.

Percepire un bisogno o, al contrario, non sentirlo è tra le esperienze maggiormente presenti all’interno del lavoro con la sofferenza psichica, un’esperienza dalle innumerevoli sfaccettature sia su di un piano di intensità che di qualità, un’esperienza che, se lasciata insatura, potrebbe, a mio avviso, determinare la comparsa di importanti nuove sensazioni, insight, pensieri e vissuti, forse, mai percepiti: tollerare le separazioni, i cambiamenti, le perdite sapendo affrontare la presenza di un’assenza pensabile a livello relazionale dovrebbe essere il pane quotidiano di ogni psicoanalista.

Lasciare spazio insaturo non significa, infatti, scomparire, ma laddove fattibile, creare condizioni relazionali volte alla possibilità che la coppia terapeutica affronti tale cambiamento vivendolo nel quotidiano, senza anticipatamente costituire preventivi controlli o sigilli di continuità, di dubbia provenienza.

Un paziente che richiede un preventivo accordo nei confronti di una prosecuzione terapeutica mi fa pensare ad un bambino che, pur avendo un gran desiderio di recarsi all’asilo e stare con gli amichetti, metterà in atto, inconsapevolmente, una serie di sintomatologie o atteggiamenti controllanti, ahimè spesso letti come difficoltà a separarsi dalla propria madre, che in realtà dovrebbero essere osservati e interpretati come faticosi tentativi del bambino di smarcarsi da una pioggia di identificazioni proiettive effettuate inconsapevolmente da oggetti primari in difficoltà a separarsi: le difficoltà non appartengono al bambino, lui se ne fa carico diventando il problema andando così ad illuminare il conflitto, e l’analista “deve” saper cogliere il ribaltamento.

L’immediata e similare ricostituzione virtuale terapeutica attraverso uno strumento altro, a mio avviso, è già di per sé altro dalla psicoterapia in corso, non foss’altro per le modificazioni relazionali importanti, come quelle sottolineate dai colleghi, che si affacceranno all’interno della nuova relazione: considerarla una prosecuzione sarebbe a mio modo di vedere, confusivo. È pur vero che saranno elementi che potranno essere affrontati come nuovi e importanti, ma il setting virtuale non sarà in grado di trasmettere mormorii, sospiri, impercettibili pause, odori, tonalità, alle volte, straordinariamente illuminanti, insomma uno schermo rimane, a mio modo di sentire, differente da uno sguardo scambiato di persona o da un corpo che percepisce la presenza di un altro corpo nella sua interezza fisica e psichica.

Inoltre ritengo che modalità terapeutiche sostitutive saranno un’esperienza relazionale che si colorerà di un duplice significato distorto e ambivalente nei confronti dell’’evento legato al cambiamento intervenuto nella vita del paziente. Da una parte si renderà reale il cambiamento attivando modalità terapeutiche sostitutive e legate ad esso, dall’altra proprio la sostituzione terapeutica, in qualche modo, andrà a disconfermare il cambiamento, impedendo la reale esperienza del cambiamento, della separazione e della assenza di un setting fisico e di una coppia relazionale fisica. Materiale che la coppia terapeutica potrà affrontare all’interno del nuovo mezzo usato insieme ad altro materiale inerente alle scelte effettuate dal paziente, alle fatiche e ai conflitti legati al cambiamento, alle rabbie e ai fastidi legati all’uso del nuovo strumento, alle empasse da esso derivate e differenti dall’altro setting, ma senza che uno spazio reale di assenza sia venuto a crearsi, uno spazio entro cui sperimentare la reale assenza e dunque la reale situazione di separazione.

La terapia attraverso l’uso di Skype è un cambiamento, tanto quanto la possibilità di lasciare spazio insaturo senza proporre modalità terapeutiche sostitutive, ma intravedo una differenza rispetto a tali cambiamenti; mentre lo spazio insaturo andrà a sancire una reale situazione di perdita che il paziente sperimenterà attraverso lo svincolo da regole predefinite, Skype, al contrario, determinerà una situazione di perdita riferita alla terapia precedente, non lasciando sperimentare al paziente uno spazio insaturo caratterizzato dalla situazione di cambiamento-perdita e dunque di assenza dell’oggetto esterno.

Si potrà dunque parlare del cambiamento, ma a livello profondo lo si andrà a negare impedendo o non veicolando esperienze ipoteticamente alleate a movimenti di separazione ed elaborazione di un lutto reale. La possibilità di poter affrontare situazioni di “perdita” e dunque di cambiamento apportate dall’esterno possono essere momenti esperienziali di estrema importanza per lo psichismo di un paziente che si troverà a sperimentare situazioni di perdita reale, osservate e significate, all’interno di uno spazio relazionale che, momentaneamente interrotto nel proprio setting abituale, potrà essere ugualmente usato e interpellato, appunto, attraverso modalità relazionali generate all’interno di un qui ed ora scelto e deciso dal paziente: un lavoro tanto più fattibile quanto più terapeuta e paziente saranno nella possibilità di affrontare e tollerare esperienze di perdita e attesa.

Mi chiedo inoltre come mai il telefono non abbia mai creato accesi dibattiti rispetto a modalità terapeutiche sostitutive, certamente non sono mancate discussioni e confronti di casi all’interno dei quali comparivano cenni all’uso di tale strumento, ma l’enfasi era molto differente dall’enfasi che si va ponendo rispetto all’uso di Skype. Ma soprattutto la o le telefonate venivano percepite e considerate come modalità limitata nel tempo che, qualora usata (malattie protratte, importanti impedimenti fisici sopraggiunti, ecc.) venivano osservate come un “momento-movimento-acting out” particolare, da significare e usare come elemento, per lo più straordinario, calato all’interno di uno spazio terapeutico interrotto, ma che rimaneva spazio unico e insostituibile proprio per la significazione e il valore insito all’interno di un setting concreto rappresentato da una stanza terapeutica. Una stanza di terapia che il paziente raggiungerà muovendosi fisicamente sapendo che il terapeuta sarà in attesa fino al suono del campanello, un luogo che sarà raggiunto percorrendo un tragitto più o meno lungo disseminato di probabili ed improvvisi intralci, una strada percorsa, ma che per incidentali coincidenze, alle volte, non potrà essere raggiunta o verrà raggiunta quando ormai l’orario della seduta sarà terminato, un luogo raggiunto scegliendo di percorrere tragitti simili o differenti e che faranno, di volta in volta, incontrare persone nuove o già incontrate, un luogo caratterizzato da una porta che si andrà ad aprire e si chiuderà, uno spazio caratterizzato da un lettino su cui ci si stenderà, uno spazio colorato da colori, suoni, rumori conosciuti o nuovi, profumi, strette di mano o dimenticanze di tali rituali, luminosità ritrovate o modificate nell’intensità, ma soprattutto un setting all’interno del quale la presenza di una persona reale saluterà, guarderà o non guarderà il paziente: questi alcuni elementi per me insostituibili e caratterizzanti una relazione psicoterapeutica/psicoanalitica.

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