Pratica Psicoterapeutica

Il Mestiere dell'Analista
Rivista semestrale di clinica psicoanalitica e psicoterapia

NUMERO 13
2 - 2015 mese di Dicembre
CLINICA
“SKYPETERAPIA”, PSICOTERAPIA E PSICOANALISI
di Luca Mazzotta

Il dibattito relativo alla possibilità di praticare la psicoterapia – o addirittura una terapia psicoanalitica – grazie ad un mezzo di comunicazione quale una videochiamata (questo in fondo è Skype) è per me molto stimolante, non fosse altro che per il fatto che ripropone, tra le righe – e ancora una volta – la questione della distinzione tra cosa sia psicoanalitico e cosa sia non-psicoanalitico.

Tale questione è stata talmente dibattuta – senza mi sembra mai giungere ad un qualche convincente punto di approdo (per fortuna!) – che non credo sia utile in questa sede aggiungere quelle che sono ora le mie idee al riguardo.

Allora andrò per punti, cercando di restare ancorato ad un livello “pratico” della questione,  utilizzando gli scritti presenti sulla rivista al momento della stesura di queste mie riflessioni (di Carnevali, Civita, Maccario e Maschietto) e basandomi anche su alcune mie esperienze fatte con dei pazienti in videochiamata (Skype).

 

Tutto parte dallo scritto di Civita (Psicoterapia tramite Skype): le sedute tramite videochiamata gli appaiono molto faticose e percepisce la sensazione di “non avere vie di fuga”; gli permettono però di scoprire una particolare “vicinanza visiva che seppur virtuale dischiude un importante spazio di riflessione psicoanalitico”.

La mia esperienza mi suggerirebbe che la sensazione di eccessivo disagio nel contatto visivo possa dipendere quasi esclusivamente dalla particolare situazione relazionale: ho pazienti che ricevo in studio vis-à-vis con i quali provo le stesse sensazioni di Civita ed altri con i quali non le provo in videochiamata; è anche vero però io – in genere – mi trovo un po’ più a disagio telefonicamente. Quindi non è Skype in generale, ma al limite quel paziente o una specifica preferenza per un medium piuttosto che un altro.

Scrive poi Civita che quella “vicinanza visiva seppur virtuale diviene in pieno una vicinanza affettiva”: quando ho letto questa frase ho pensato che quel “virtuale” rappresentasse una protezione (difesa del paziente) grazie alla quale è stato possibile permettere proprio quell’apertura che, forse, nello studio non sarebbe stata possibile. In fondo la difesa è un compromesso: il paziente ha bisogno di quel canale, che in un primo momento lo aiuta e che poi probabilmente lo limita (non ha alcuna possibilità di essere realmente vicino, di toccare, di scaldarsi). Come il paziente diffidente, che con la sua diffidenza, lungi dal non comunicarci alcunché, ci comunica una modalità difensiva molto preziosa per lui, che paradossalmente permette l’instaurarsi di un certo tipo di relazione.

Ricordo un adolescente che veniva in seduta e si sentiva talmente bloccato da potersi permettere solo agiti che rendevano poco utili le sedute. Poi tornava a casa e – via mail – riusciva ad elaborare ed esprimere vissuti, anche relazionali, nei miei confronti. È un po’ come la faccenda del lettino e dell’urlo del paziente di Maschietto dello scorso numero della rivista: il lettino era una protezione per sé e per il terapeuta, in qualche modo una difesa, se vogliamo una regressione, ovviamente da elaborare.

 

Carnevali (L’uso di Skype in psicoterapia (e non soltanto)), a differenza di Civita, concede via Skype ad una paziente una seduta “allungata” di un’ora. Non ne conosciamo davvero il motivo ma dubito che riguardi esclusivamente il medium, la videochiamata. Dice che non ci si può vedere più di una volta a settimana ma viene chiesto un lavoro in profondità... Situazione nota del tipo “voglio tutto e subito e senza faticare troppo”. Andrebbe contestualizzata con quel tipo di paziente, che porta Carnevali ad allungare qualcosa. Quante volte capita che non ci si possa vedere con una frequenza che dia maggiori garanzie di lavorare in profondità? Tante. A volte è il paziente che non può, a volte è il terapeuta che in quel momento non ha maggiori disponibilità di orari. Non si può, è un limite, si rifiuta oppure ci si adegua e si fa quel che si può, magari aspettando tempi migliori. Qui la sensazione che Carnevali ci lascia intuire è che siamo nel campo dell’induzione di ruolo, del controtransfert, e possiamo dunque lasciare da parte la questione del mezzo di comunicazione: a questa richiesta risponde aumentando la durata della seduta. Carnevali parla di “resistenza di molti di coloro che operano nel campo delle scienze umane nei confronti di tutto ciò che è tecnologico, operando un'arbitraria omologazione della tecnologia a una disumanizzazione”. Forse ha ragione. Gli psicoanalisti “conservatori”, “i puristi” ovviamente ritengono Skype un mezzo che non consente, o addirittura impedisce, un dialogo psicoanalitico tra paziente e terapeuta (uso volutamente i tre termini insieme, psicoanalisi-paziente-terapaeuta). Gli psicoanalisti “riformatori”, chiamiamoli così, ritengono che sia utile e necessario adeguarsi alle novità tecnologiche.

 

Io credo che gli “psicoanalisti” (indipendentemente dalla scuola o dal tesserino che hanno in tasca, se ne hanno uno) – cioè coloro che pensano in modo psicoanalitico nella loro pratica psicoterapeutica – siano interessati a capire cosa accade tra i due poli: pensano in modo psicoanalitico e quindi prima di tutto si debbano chiedere se vi sia nella disputa una resistenza di fondo, verso la conservazione o verso il cambiamento. In altri termini: non è detto che la resistenza sia nei confronti della tecnologia ma può darsi che dietro la “questione tecnologia” (sia che venga avversata o che sia sposorizzata) si celino altre resistenze.

 

Scrive Sara Maccario (Psicoanalisi: l'universale linguaggio della struttura psichica) che “il linguaggio analitico è una faccenda slegata dalle innovazioni tecnologiche e dalle culture”. Non credo di riuscire a condividere fino in fondo questa affermazione, nel senso che il linguaggio analitico è un fatto culturale, così come la tecnologia è un fatto culturale. L’inconscio, quello non rimosso, è per definizione inconoscibile. Sono i processi, gli strumenti di scena del teatro delle rappresentazioni a noi visibili (Sandler). Non lo vediamo, in qualche modo supponiamo ci debbano essere, e facciamo questa operazione per mezzo di una metacognizione, che resta comunque per definizione una cognizione, un evento evolutivamente determinato. Nella metacognizione non è l’operazione che cambia, ma l’oggetto dell’operazione. L’idea che abbiamo dell’inconscio (non dinamico) non è qualcosa di immutabile ma è evolutivamente determinato dall’ambiente, e l’ambiente dell’essere umano è anche la cultura in cui vive. Bion descrive l’inconscio in un modo, Freud in un altro, ma entrambi per farlo usano mezzi di conoscenza e di descrizione culturalmente condivisi e determinati. Freud usava descrizioni ed operazioni pseudo-idrauliche, Bion pseudo-matematiche. Ma forse sto andando su territori poco “pratici”, a dispetto dei miei propositi iniziali: in pratica il linguaggio analitico è legato alla cultura (e la tecnologia, come la comunicazione e il linguaggio, fa parte della cultura).

 

In definitiva Mazzotta scrive, scrive... ma cosa pensa? Si può fare terapia con delle videochiamate? E sarebbe una terapia psicoanalitica?

La mia risposta non può essere, mi si perdoni, semplice. La risposta è – psicoanaliticamente – una domanda: “perché no”? Anni fa la psicoanalisi era raggiungere l’insight. Poi si è visto che non era così necessario. La psicoanalisi era utilizzare (solo) le interpretazioni. Oggi sappiamo che si fa della buona psicoanalisi anche senza interpretare, anzi ragionando per assurdo la “vera” psicoanalisi non dovrebbe avere bisogno di ricorrere alle interpretazioni. La psicoanalisi era a 5 sedute a settimana (ma perché 5 e non 4 o 6? È un fatto culturale, astronomico... poco psicoanalitico in senso stretto), oggi in Inghilterra è a 5, in Francia a 3, in Italia a 3 o 4. È un fatto pratico-cultural-geografico. Un tempo non era psicoanalisi quella in cui si ricorreva anche ad un supporto farmacologico, oggi sappiamo che spesso possiamo fare psicoanalisi proprio grazie ad un supporto farmacologico. Un tempo non era psicoanalisi quella “inficiata” da una risposta controtransferale, oggi sappiamo che facciamo psicoanalisi proprio grazie alla comprensione della nostra risposta controtransferale. Un tempo, e per molti ancora oggi, la psicoanalisi era solo quella della tecnica “standard”... una tecnica – e mi viene da ridere – elaborata sulla base delle esigenze cliniche derivanti dalla prima topica freudiana! Io direi che la tecnica standard è fondamentalmente comportamentista, poiché prescrive un comportamento – e molto preciso tra le altre – all’analista. Prima la neutralità era il “silenzio”... ma per quei pazienti i cui genitori non avevano mai rivolto loro la parola, il silenzio dell’analista era davvero neutrale?

 

Oggi ci chiediamo se si può fare terapia, per di più usando strumenti della psicoanalisi, con delle videochiamate. Per Maschietto (Lo sviluppo degli affetti nei transfert: la specificità psicoanalitica) il transfert, in quanto fenomeno affettivo, reale e non virtuale, non può che svilupparsi all’interno della stanza, luogo reale, fisico, tangibile. Ma poi sappiamo che il transfert è già all’opera quando il paziente decide di contattarci per la prima volta, di solito al telefono, senza averci mai visto e forse senza neppure sapere dove sia il nostro studio! Io credo che il transfert, quello della stanza, è quel particolare tipo di transfert di quel paziente, influenzato successivamente dalla stanza e dall’analista. Il transfert nella stanza d’analisi è un caso particolare di transfert, col quale sappiamo in qualche modo lavorare. E se noi siamo a nostro agio lì, tanto meglio, altrimenti non riusciremmo a lavorare per ore, giorni, mesi e anni. Ma dobbiamo sapere che è quella stanza che fornisce una certa forma a quel transfert, non che rende possibile il transfert tout court: rende possibile quel particolare modo di esprimersi del transfert, che in qualche modo è anche da noi – e dalla nostra stanza – influenzato. Che poi è quello con cui abbiamo imparato a lavorare. Ma chi ci dice che non sapremmo fare anche altro e magari meglio altrove e altrimenti? Non lo sappiamo! Allora “saper tollerare di non comprendere subito” è utile e profondamente psicoanalitico, perché apre delle possibilità invece che chiuderle. Non so se si può fare qualche tipo di psicoanalisi anche usando delle videochiamate. Davvero non lo so, ma sono interessato a capire, a sperimentare, usando la riflessione psicoanalitica. Cautamente, attraverso il confronto coi colleghi ad esempio. Che come Ulisse cercano sempre nuovi mari, perché la meta di Ulisse non è certo Itaca, lo sappiamo bene, ma il viaggiare. E stando attenti alle sirene, che siano Skype... o la stessa idea che ognuno di noi si è fatto della psicoanalisi!

Sandler parlava di una teoria personale dell’analista conscia, pubblica, cui corrispondeva una teoria dinamicamente inconscia (preconscia), privata. La posizione di Maschietto sarebbe probabilmente la mia posizione pubblica, ufficiale, conscia. Ed infatti è una relazione portata ad un importante Congresso, che potrei anche per molti aspetti sottoscrivere. Questa posizione e questa discussione della Rivista stimola però in me una dialettica interna che mi spinge a scovare, esplorare la mia posizione “privata”, “preconscia”.

 

Con Skype non si può fare psicoanalisi? È una resistenza alla terapia psicoanalitica? E cosa sarebbe la psicoanalisi se non quel processo che proprio grazie alle resistenze - ed al contemporaneo accordo tra paziente e terapeuta - permette di analizzare le difese in atto?

 

Ma “in pratica” che si fa? Io ad esempio, quando mi viene richiesto di fare delle sedute in videochiamata – non accade così spesso ma accade – cerco di capire perché, che alternative ci sono.

Perché sceglie me in videochiamata e non un altro terapeuta lì sul posto. Perché pensa che accetterò? Oppure perché in quel momento della terapia il paziente mostra di non voler/poter/saper tollerare un’interruzione, ecc. ecc. L’interruzione è frutto di una sua scelta o no? Una classica analisi della resistenza insomma.

E poi di solito, se penso di raccogliere la proposta perché ritengo possa essere utile farlo, dico semplicemente come effettivamente stanno le cose: “Sa, non sappiamo ancora bene quanto la psicoterapia riesca ad essere efficace con questa modalità, mentre abbiamo dei dati molto più consistenti per un approccio diverso, in studio, classico. Questa nuova modalità è ancora in una fase davvero, per così dire, sperimentale. Skype esiste da poco più di dieci anni e si è diffuso da molti meno. Tuttavia se per lei va bene correre questo rischio, io credo che in questo caso possiamo tentare e vedere insieme cosa succede”.

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