Pratica Psicoterapeutica

Il Mestiere dell'Analista
Rivista semestrale di clinica psicoanalitica e psicoterapia

NUMERO 13
2 - 2015 mese di Dicembre
IL CONTESTO SOCIOCULTURALE
PSICOANALISI: L'UNIVERSALE LINGUAGGIO DELLA STRUTTURA PSICHICA
di Sara Maccario


Relazione portata al XX Congresso del Centro Psicoanalitico di Madrid tenutosi a GRANADA il 23 e 24 ottobre 2015

Prospettive diverse nella psicoanalisi contemporanea: Ricchezza e tensione nell’eterogeneità


L’alfabeto usato dalla struttura psichica è caratterizzato da simboli e segni che differiscono da quelli in uso alla ragione, è un linguaggio alleato al mondo delle emozioni e della sofferenza che deriva dalla mancanza o carenza di esse.

Il sistema psichico è il luogo all’interno del quale si smatassano i sogni, provvisti di linguaggi che viaggiano indisturbati all’interno di uno spazio-tempo non governato dalla logica, da vocali o consonanti; è il mondo delle sensazioni, delle percezioni scandite da tempistiche surreali, affreschi di primari percorsi relazionali fuoriusciti dal controllo dei sofisticati orologi. Lo psicoanalista si affaccia su questo luogo osservando gli antichi affreschi relazionali, alcuni osservabili, altri nascosti al di sotto di intricati, difensivi e dolorosi travestimenti emotivi; egli accoglie, osserva e sta-con disagi e sofferenze contenuti in comportamenti e pensieri che il paziente avverte come disfunzionali, e incomprensibili. È uno spazio affettivo che può risultare conflittuale e costituito da frammenti di vissuti affettivi relazionali distorti e aggrovigliati, responsabili della costituzione di un Sé confuso e alle volte frammentato, un luogo che lo psicoanalista ha incontrato e imparato a conoscere affacciandosi sul proprio mondo psichico sommerso incontrando l’universalità di tale linguaggio.

L’alfabeto della ragione, al contrario, abita la casa del controllo, delle scoperte scientifiche, dell’osservazione cognitiva di ipotesi che dovranno essere confermate o confutate attraverso logici sistemi supportati e comprovati dall’uomo, sistemi collegati anche ad importanti trasformazioni fisico-neurologiche.

Ragione e psiche: due popoli che abitano un unico contenitore, popoli che si spartiranno luoghi visibili e luoghi meno visibili creando una miscela di sensazioni e ipotesi che diventeranno i pensieri e i linguaggi usati da coloro che daranno voce a queste due popolazioni mentali.

I modelli di pensiero legati a modalità strategiche osserveranno il disagio psichico attraverso lenti costituite da regole predeterminate quali l’aprioristica decisione del numero delle sedute di una terapia o la messa in atto di comportamenti strategici al fine di controllare e arginare atteggiamenti, comportamenti o pensieri disfunzionali; il linguaggio analitico osserva e fa vivere il malessere sintomatico provando a ri-significare relazioni passate e presenti contenute all’interno di un Sé ferito, desideroso di un vitale futuro.

Due modalità di pensare e procedere che, alle volte, si trasformano in conflittualità professionali apparentemente volte a stabilire quali i sistemi preferibili e maggiormente funzionali: nessuna preferenza, a mio avviso, ma indubbie sostanziali differenze che andrebbero semplicemente verbalizzate, riconosciute e, perché no, maggiormente significate alla società.

Il linguaggio analitico osserva il sintomo come fosse una “topica-terra” di mezzo tra conscio e inconscio, una preconscia forma d’essere comunicativa caratterizzata da un “vedo-non vedo”, una rappresentazione di emozioni ferite divenute sintomatiche per essere osservate, relazioni ferite che, raggiungendo la superficie psichica, sperano di essere decodificate recuperando, almeno in parte, l’affettivo esistere primario: fondamentali messaggeri di primarie esperienze relazionali distorte che, difendendosi, hanno cercato di far sopravvivere veritiere porzioni affettive del proprio Sé. Precoci invasioni relazionali incoerenti e ambivalenti che hanno attivato movimenti difensivi trasformati in sintomi che potremmo pensarli come affidabili alleati capaci di avvicinare lo psicoanalista accompagnandolo così tra quegli antichi luoghi dove lo attenderanno geroglifici relazionali di un Sé bisognoso d’essere tradotto.

Quale strategia di fronte ad un bambino che piange disperato, quali i tempi di attesa di tale impotente frustrazione?

Possiamo dire nessuna strategia, nessuna tempistica predefinita, Winnicott, Bion e altri innumerevoli psicoanalisti volgono lo sguardo verso le capacità psichiche affettive di quel primario contenitore materno, capacità correlate alla possibilità di sostare all’interno di esperienze relazionali confuse e ambivalenti (capacità negativa) senza necessariamente adottare immediate strategie, ma provando ad accogliere e contenere quel malessere senza forma: un’esperienza di metabolizzazione affettiva che creerà future possibilità relazionali di poter fronteggiare situazioni confusive senza immediatamente controllarle e cognitivamente delimitarle.

Laddove tale contenimento non sarà stato possibile o sarà risultato deficitario il sistema psichico risentirà di porzioni emotivamente caotiche che rimarranno costantemente alla ricerca di un luogo o situazioni in grado di contenere e trasformare i cosiddetti elementi grezzi (beta) in elementi pensabili (alfa) al fine di trovare e stabilire una veridicità emotiva all’interno di ambivalenze relazionali.

La stanza di analisi è il luogo dove il linguaggio analitico si destreggia tra elementi alfa e beta, elementi che non dipendono da alcuna epoca storica o cultura, ma prendono forma da profondi stati d’animo legati a primarie e informi sensazioni sperimentate all’interno dell’universale incomincio relazionale della nascita che traccerà le coordinate relazionali di tutte le situazioni di dipendenza che seguiranno, determinando possibilità affettive a dipendere in maniera sufficientemente sana o conflittuale.

Eugenio Gaburri nel 1992 parla dell’estrema importanza per l’analista di esercitare la “capacità negativa”.

“Il non sapere, cita Gaburri, attiene non solo a ciò che il paziente prova e pensa, ma anche al ruolo che il terapeuta sta inconsciamente “personificando”. L’analista potrà così trovarsi coinvolto con il paziente in dinamiche relazionali cui potrà divenire consapevole solo in un secondo tempo e dopo aver saputo tollerare tempistiche e inconsapevolezze insieme al proprio paziente: nessuna strategia volta al controllo, ma l’esperienza di una relazione basata sulla possibilità di affrontare e tollerare, entro la relazione analitica, gli abissi emozionali del paziente trasversali ad ogni epoca.”

Proporre modalità strategiche per “debellare” distorsioni relazionali significherà non riconoscerle come comunicazioni preziose di un Sé volto a recuperare un emotivo sentire disperso all’interno di primarie strategiche difese; ogni strategia rischierà di rinforzare l’idea che sofferenza psichica e paure debbano e possano essere velocemente bandite e cancellate dalla propria esistenza in quanto corpi estranei determinati da chissà quale ereditarietà o causa esterna.

Il pensare analitico, al contrario, guarda il sintomo come rappresentante conflittuale appartenente ad una più ampia struttura psichica, frammento comunicativo responsabile di riportare alla luce archeologici reperti relazionali feriti e incastrati all’interno di un Sé aggrovigliatosi per sopravvivere; per questo l’universalità del linguaggio analitico mi appare come un setting mentale e reale entro il quale sperimentare la con-divisione di spaventi, angosce, improvvisi attacchi di rabbia, incertezze, non conoscenze, anestesie e appiattimenti emotivi, cecità e sordità affettive, potendo sperimentare la possibilità di “affrontare tutto questo, stando in tutto questo”.

Un setting relazionale terapeutico che usando l’esterno e il visibile farà spazio al disvelamento di un interno psichico che, nel rispetto di soggettive tempistiche individuali, avrà bisogno d’essere in parte scongelato e sgrovigliato in affettivo sentire; non riuscire a fare, sentirsi indegni, non sentirsi, sono alcune tra le innumerevoli posizioni psichiche da significare e interpretare all’interno della nevrosi di transfert, la quale osserverà la dolorosa incapacità di non riuscire a fare come un impedimento psichico, ma rivolto alla ricerca di un fare maggiormente soggettivo, anticamente falsato nella primaria essenza.

Michele Bezoari identifica nel processo analitico una predisposizione al contenimento ed all’attivazione di un “processo trasformativo” schematicamente articolato in due livelli. Ad un primo livello viene favorita l’emergenza nel campo analitico di configurazioni relazionali inconsce modellate prevalentemente dagli apporti dell’analizzando a cui l’analista partecipa in misura contenuta, ma necessaria ed irriducibilmente personale.

Emergeranno così “neoformazioni” contenute all’interno di una relazione analitica che cercherà di trasformare il malessere del paziente in una nuova entità “patologica”: la nevrosi di transfert.

Al secondo livello viene situata la risoluzione della nevrosi di transfert, la quale, grazie alle funzioni di contenimento, interpretazione, “working-through”, agevolerà il paziente verso l’accesso di nuove e più libere forme di vita psichica.

Una decodifica relazionale, dunque, capace di leggere le sintomatologie come faticosi messaggeri psichici alleati di una veridicità affettiva del Sé, una decodifica universale che attraverso movimenti transferali e controtransferali creerà una costante circolarità responsabile di re-illuminare stati di impotenza affettiva primaria, grovigli relazionali che hanno modificato l’autenticità del proprio Sé: una luminosità psichica funzionale a riavviare un coerente sentire volto verso movimenti di separatezza.

Il linguaggio analitico è una “faccenda” slegata dalle innovazioni tecnologiche e dalle culture, è un alfabeto che affonda le radici in stati d’animo primari e universali quali rabbia, paura, invidia, scaturiti dall’universale evento della nascita e dalle successive modalità relazionali che si andranno ad instaurare; a modificarsi attraverso secoli e culture saranno le infinite modalità rappresentative di tali stati d’animo all’interno di comportamenti e pensieri.

Le guerre esterne si sono trasformate durante i secoli, ma il profondo e angosciante bisogno che continuerà a crearle resterà identico, invisibile e imprendibile dalla consapevolezza, un’angosciante bisogno legato a ferite relazionali inconsce rappresentate attraverso infinite sfaccettature rabbiose, paurose, prevaricanti, invidiose nascoste nelle pieghe di vocaboli patriottici, religiosi e culturali.

Bisogno di possesso e controllo legati al timore-bisogno di reiterate modalità punitive e di perdita; questi sono alcuni tra gli innumerevoli stati d’animo che accompagnano l’intera esistenza umana e i sottostanti conflitti reali o psichici. I territori esterni da conquistare altro non sono che rappresentazioni di imprendibili e invisibili territori conflittuali psichici, spaventevoli ed esternamente proiettati, saccheggi e morti che rimanderanno a distruzioni, ruberie e vittime psichiche invisibili agli occhi dei molti.

Prendendo a prestito una metafora potremmo pensare che le guerre di oggi vengano combattute all’interno di tablet, via Skype, luoghi virtuali ospitanti costanti battaglie popolate da morti psichiche e pericolosi annebbiamenti affettivi, battaglie determinate da frammenti di cecità psichica e colpevolezze primarie o edipiche che dovrebbero risiedere all’interno di luoghi terapeutici reali e non virtuali.

Un’emotiva cecità psichica che appare divenire esponenziale e funzionale a mantenere un bisognoso controllo su porzioni conflittuali affettive invisibili e mal-trattate anche da coloro che avrebbero, invece, il mandato professionale di districare e ben-trattare le suddette porzioni conflittuali psichiche usando linguaggi non strategici e veloci, ma in grado di prendersi cura e riportare visibilità ad oscurità affettive ferite durante le primarie battaglie relazionali.

Schermi-specchio costantemente da controllare, video sui quali si rincorrono infinite immagini e linguaggi immediati, un reiterato e continuo infrangersi di porzioni di un Sé imbavagliato, imprigionato e disperso all’interno di vite e situazioni “altre” che diventano funzionali a mantenere un costante contatto/controllo su parti di se usando il fuori da se: un virtuale mondo inconsapevolmente usato come banco di prova anche al fine di sperimentare, inconsapevolmente, l’evitamento, la negazione, l’annullamento o la spasmodica ricerca di situazioni esperienziali di perdita.

Ritengo che il pensiero psicoanalitico mai sarà antico, né moderno, né superato, la sua funzione è descrivere le originarie sfaccettature psichiche degli esseri umani, sfaccettature che alloggiano in aree poste in ombra, nascoste da difese più o meno agguerrite, ma desiderose di poter essere ritrovate e osservate da qualcuno che, risalendo la corrente relazionale, riesca ad incamminarsi verso l’effettiva sorgente relazionale primaria riconoscendo, accudendo e traducendo l’emotività ferita.

Fatico a pensare ad uno psicoanalista che all’interno della propria presa in carico ponga elementi focali, comportamentali o strategici, così come rimango dubbiosa nei confronti di psicoterapeuti che, usando modalità focali o comportamentali, si possano definire psicoanalisti chiamando in causa un adeguamento ai tempi moderni.

La richiesta di veloci tempistiche e modalità terapeutiche strategiche vissute come messianiche soluzioni al disagio psichico da parte di alcuni pazienti credo possano ben descrivere la grande confusione psichica nei confronti della sofferenza psichica vista come uno stato d’essere ingombrante, da azzittire e non come una preziosa comunicazione psichica del proprio essere: un riconoscimento relazionale che, ovviamente, necessita adeguata professionalità e coerenza da parte di noi addetti al mestiere.

La presenza di un contenitore affettivo primario capace di accogliere, decodificare e bonificare paure e rabbie determinerà l’evoluzione di strutture psichiche in grado di dipendere da un sentire, di essere e dunque di esistere affettivamente; la ragione ci farà capire come usare gli strumenti quotidiani per orientarci, ma sarà quel contenitore affettivo primario, anticamente respirato, che unito alle capacità cognitive traccerà la legittimazione emotiva a poter psichicamente dipendere in maniera sufficientemente sana all’interno dell’intera personale esistenza.

Un bambino nato e cresciuto tra le montagne e un bambino nato e cresciuto tra i grattacieli, incontrando una mamma “capace” di funzionare da contenitore affettivo, potrà, presumibilmente, costituire psichicamente una sufficiente fiducia di base che gli permetterà di poter dipendere da qualsiasi ambiente, situazione, pensiero e persona circostante senza necessariamente creare distanzianti difese relazionali.

Il bambino cresciuto tra le montagne saprà come orientarsi in maniera ottimale attraverso la natura, ma non potrà avere la stessa immediatezza del bambino cresciuto tra i grattacieli quando e se si imbatterà nell’uso di una metropolitana; stessa cosa avrà valore per il bambino cresciuto tra i grattacieli quando incontrerà le montagne.

Tali differenze non parleranno, però, di inconscio modificato dagli ambienti esterni, ma delineeranno differenti modalità di poter sperimentare l’uso di un quotidiano esterno, uso dettato da contenuti psichici relazionali accaduti in quel primario ambiente affettivo materno.

Qualsiasi conflittualità caratterizzerà i due bambini usati come esempio, non sarà legata alla differente provenienza ambientale esterna, ma ad essere centrale e/o primariamente considerata sarà l’universalità del linguaggio analitico che rivolgerà l’osservazione verso le primarie modalità relazionali interne e il loro possibile uso: una mamma psichicamente coerente e sufficientemente separata lo sarà sia vivendo tra le montagne che tra i grattacieli.

Rabbie, paure, impotenze non saranno, dunque, legati a grattacieli o montagne, i quali potranno assumere il ruolo di esterni teloni sui quali lo psichismo proietterà conflittualità relazionali racchiuse e incastrate all’interno del telone psichico.

Si modificheranno strumenti, comportamenti, atteggiamenti, pensieri, ma paura, aggressività, impotenza, frustrazioni rimarranno ripetibili e invariate nella loro essenza, illese da qualsiasi invenzione o modificazione ambientale; una relazionale brodaglia primordiale inconscia che saprà scegliere messaggeri esterni per comunicare, attraverso infinite modalità linguistiche e comportamentali, quegli antichi emotivi geroglifici responsabili del nostro essere ed esistere.

Un’antica brodaglia affettiva che farà la sua comparsa all’interno della “stanza" di analisi mostrando innumerevoli intensità di sofferenze, alle volte, profondamente incontrollabili, indefinibili, confuse e per questo “follemente” paurose e apparentemente inguardabili.

È un malessere relazionale non metabolizzato, distorsioni e inciampi emotivi primari che hanno reso faticosa o impossibile la possibilità psichica a poter dipendere in maniera sufficientemente sana dal primario oggetto d’amore, determinandosi generalizzate distorsioni relazionali.

Il linguaggio psicoanalitico ritengo sia il solo abilitato alla decodifica di graffiti affettivi relazionali sfuocati e senza nome, alle volte, ri-dando ad essi la loro originaria bellezza.

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