All’inizio del suo scritto Giacobbi mi chiama generosamente in causa per le mie “acute” osservazioni su Al di là del principio di piacere di Freud, del 1920, e sul concetto stesso di pulsione di morte. Quel che penso della pulsione di morte posso illustrarlo rapidamente. La visione freudiana della pulsione di morte è oggi scientificamente insostenibile per due ben precise ragioni: dal punto di vista delle neuroscienze l’esistenza di neuroni corticali o sottocorticali che costituirebbero il correlato cerebrale della spinta pulsionale autodistruttiva e in seguito distruttiva non può apparire che nella forma di una favola o, se si preferisce, di un delirio, di una fantasia fervida ma cognitivamente risibile. In secondo luogo, dal punto di vista della biologia dei tempi di Darwin e ancor più dei nostri tempi, l’ipotesi di una spinta interna, biologica dunque, verso la morte propria o altrui si configura ancora una volta come una favola nera. La teoria freudiana della pulsione di morte è oggi, e anche da tempo, del tutto priva delle minime credenziali scientifiche.
Detto questo resta però aperto un problema decisamente rilevante: come spiegare non solo e non tanto i molteplici fenomeni psicopatologici legati all’autolesionismo, all’aggressività e dunque alla fin fine, alla morte, ma soprattutto come rendere ragione della cattiveria e della violenza irrazionale ed estrema che imperversano nel mondo in cui viviamo, ma che da sempre, da millenni e millenni hanno imperversato e insanguinato il nostro triste pianeta. I modelli psicoanalitici relazionali o intersoggettivistici hanno cercato di rispondere al quesito chiamando a giudizio le relazioni precoci tra la mamma e il bambino. In alcuni casi hanno sviluppato i loro argomenti i maniera assai convincente, penso in particolare a Kohut e Mitchell, d’accordo, tuttavia mi resta la forte impressione che la spiegazione relazionale dell’origine del male sia più consolatoria che veramente convincente. Consolatoria e anche un tantino denegante, nel senso di non voler vedere la realtà.
Voglio dire qualcosa anche sulla terapia dell’anziano o del vecchio. Più precisamente intendo esprimermi sulla tesi freudiana secondo la quale per l’inconscio, la morte, ossia la fine di tutto, non è contemplata, l’angoscia di morte altro non essendo che un derivato dell’angoscia di castrazione. Non ho avuto molti pazienti anziani, come invece Giacobbi, il cui scritto, detto per inciso, condivido da cima a fondo, però di recente ne ho seguito uno, sui sessant’anni, che mi ha condotto seriamente a riflettere sulla possibilità che Freud avesse clamorosamente torto nel pensare che l’inconscio non conosca la morte – del resto lo scritto di Giacobbi prende le mosse precisamente da questa ormai altamente opinabile tesi freudiana.
Questo paziente sessantenne aveva ancora in vita una vecchissima madre, ricoverata in una casa di riposo. La vecchia madre, un tempo avida di letture, era ormai quasi completamente cieca e sorda.
Poi un giorno il mio paziente riceve dalla casa di riposo la telefonata che lo informa con molta delicatezza, a dir il vero, della morte della madre. “Ha chiuso gli occhi ed è spirata”. E chi mai non desidererebbe una morte tanto dolce.
La reazione del mio paziente è stata alquanto complessa: all’inizio profondamente ambigua, in seguito, pian piano, attraverso un’autentica e laboriosa elaborazione del lutto, sempre più realistica.
L’ambiguità iniziale consisteva in questo: la morte della madre portava con sé il dato di fatto di una liberazione materiale e morale dal doversi fare carico economicamente e socialmente della sua vecchissima ma ancor lucida mamma: pagare la retta quanto mai salata della casa di riposo, andare a trovarla, con esiti per lo più penosi sotto il profilo psicologico, almeno una volta alla settimana. Una liberazione, dunque! Ma a rendere intensamente ambiguo lo stato delle cose si aggiunse il fatto che al sentimento di liberazione si sovrappose inaspettato un profondo cordoglio che si manifestava soprattutto con un senso di spaesamento, quasi di derealizzazione, al punto che il mio paziente doveva faticosamente recuperare il controllo di sé nel mondo, anche solo per attraversare la strada, o per scendere una scalinata solo un po’ ripida.
A far evolvere per il meglio questa situazione tanto ingarbugliata è stata una sequela di sogni che si succedettero a breve distanza. E che, pur del tutto diversi ovviamente, presentavano un preciso denominatore comune: in tutti i sogni il mio paziente era morto e sua madre viva.
In uno dei sogni, sicuramente il più eloquente, la madre ben viva e vegeta accompagna il figlio morto, ovvero il mio paziente, verso un cimitero o un crematorio. E nel sogno non vi è ombra di tristezza funebre: ambedue hanno l’animo lieto e il sorriso sulle labbra.