Vi ringrazio per l’invito a intervenire a questo incontro in ricordo di Gaetano Benedetti (1920-2013). Temo però di non meritarlo dato che l’ho frequentato molto meno di voi, per cui avrebbe più senso che ascoltassi le vostre testimonianze, ben più ricche e interessanti poiché avete avuto una stretta collaborazione per molti anni. Mi limito a esporre i miei ricordi, basati su qualche incontro e soprattutto su alcune lunghe chiacchierate che feci con lui tanti anni fa durante un viaggio a Rio de Janeiro dove il 10-14 ottobre 1989 si tenne l’VIII International Forum of Psychoanalysis, cui parteciparono anche vari colleghi della Scuola di Psicoterapia Psicoanalitica (SPP) di Milano. Ricordo che in quella occasione, in incontri informali e cene, ebbi occasione di confrontarmi sulla sua posizione teorica, che aveva sempre attirato la mia curiosità poiché non mi era facile inquadrarla nel panorama psicoanalitico.
Uno dei motivi per cui mi interessava l’orientamento teorico di Benedetti era dovuto al fatto che io sono sempre stato legato al gruppo di Psicoterapia e Scienze Umane, e Benedetti – come Cremerius, Morgenthaler, Parin e altri colleghi di quella generazione – era stato una figura di riferimento fin dalle origini, tenendo relazioni ai Corsi di aggiornamento organizzati da Pier Francesco Galli all’interno di quello che allora si chiamava “Gruppo Milanese per lo Sviluppo della Psicoterapia”. La prima relazione del primo Corso di aggiornamento, organizzato da Galli a Milano nel 1962, era proprio di Gaetano Benedetti e si intitolava “Psichiatria e psicoterapia”, una relazione che inquadrava bene la problematica del rapporto tra queste due pratiche terapeutiche (abbiamo voluto ripubblicare questo suo scritto come primo articolo del numero speciale 3/2006 dedicato al quarantesimo anniversario della rivista Psicoterapia e Scienze Umane, su cui peraltro scrisse numerosi articoli). Benedetti aveva anche diretto assieme a Galli la collana Feltrinelli “Biblioteca di Psichiatria e di Psicologia Clinica”, fondata nel 1959, e per i colleghi della mia generazione molti degli 87 volumi di questa prestigiosa collana hanno rappresentato una guida fondamentale per la formazione. Inoltre, in occasione della scomparsa di Benedetti, nel n. 1/2014 abbiamo voluto ripubblicare due sue relazioni tenute al secondo Corso di aggiornamento, del 1963, intitolate, rispettivamente, “Dialettica della situazione psicoterapeutica” e “Psicodinamica e psicoterapia della schizofrenia paranoide”, e le riflessioni contenute in queste due relazioni conservano, a più di cinquant’anni di distanza, aspetti di notevole attualità.
È noto a tutti che Benedetti era uno psicoanalista eterodosso. Ad esempio nel lavoro con i pazienti non era certo “passivo” o “neutrale”, cioè era ben lontano dal cliché dello psicoanalista che si limita a osservare le dinamiche intrapsichiche del paziente e a profferire qualche interpretazione. Benedetti entrava nella vita dei suoi pazienti, non esitava a volte a guidarli, a suggerire immagini che potessero progressivamente modificare la loro vita interiore. Questo aspetto “supportivo” della sua tecnica terapeutica – uso il termine “supportivo” qui per brevità, rendendomi ben conto che è una semplificazione – mi colpì subito, così come notai quanto “costruiva” assieme al paziente – proprio come in un “disegno progressivo” scritto assieme (Peciccia, 2013, 2014) – le immagini della sua mente, e per certi versi anche la sua storia e il senso della malattia.
Questo aspetto della costruzione – o co-costruzione – dei significati e della storia di vita del paziente aveva attirato la mia attenzione perché in quegli anni in psicoanalisi era molto vivo il dibattito sul movimento ermeneutico, i cui principali protagonisti negli Stati Uniti erano Schafer (1976, 1992) e Spence (1982, 1987), sulla scia di alcuni filosofi europei, essenzialmente Ricoeur (1965) e Habermas (1968). Spence aveva da poco scritto un noto libro, tradotto in italiano due anni prima, dal titolo Verità narrativa e verità storica (1982), dove aveva appunto presentato la dicotomia “costruzione versus ricostruzione”: la prima caratterizza l’ermeneutica, in cui non vi è la pretesa di scoprire o ricostruire in modo veridico la storia del paziente ma si costruisce solo una “verità narrativa”, una sorta di romanzo psicoanalitico scritto assieme al paziente, mentre la seconda era propria dell’impostazione freudiana, che mirava a ricostruire la “verità storica” del paziente così che le nostre interpretazioni «concordano con la realtà che è in lui» (Freud, 1915-17, p. 601). Tra l’altro Spence, che io conoscevo, era presente a quel Forum di Rio de Janeiro dove aveva parlato a un panel assieme a me proprio sulla questione della “verità dell’interpretazione”.
Non voglio dilungarmi in riferimenti teorici, anche perché sono abbastanza noti e comunque esiste un’abbondante letteratura (per una sintesi di quel dibattito rimando a Migone, 1989). Mi limito a dire che a Rio de Janeiro io non persi l’occasione di chiedere a Benedetti come si poneva nei confronti dell’ermeneutica, dato che sembrava evidente, dal suo approccio, che non “ricostruiva”, in senso freudiano, la realtà del passato del paziente, ma di fatto “costruiva” assieme a lui, a volte quasi ex novo, i significati della sua vita, lo aiutava a crescere, accompagnandolo in un percorso esistenziale.
Ricordo come fosse adesso la risposta che Benedetti mi diede di fronte alla mia domanda – per la verità incalzante – sulla questione dell’ermeneutica: rispose in modo tranquillo, sicuro di sé, affermando che lui senza alcun dubbio si schierava dalla parte degli ermeneuti. Cioè non credeva assolutamente possibile ricostruire una storia “vera” del paziente, ma quello che noi potevamo fare era solo una nuova costruzione, assieme a lui, di una storia che desse senso alla sua vita.
Non si limitò a dirmi questo. Per farmi capire meglio il suo pensiero mi disse anche quali erano le sue vere ascendenze teoriche e culturali. Lui non era affatto un “freudiano”, o meglio, non era solo un freudiano. I suoi veri maestri – mi disse – erano stati tre: Gustav Bally, Medard Boss e Manfred Bleuler, quindi esponenti di culture diversificate quali, rispettivamente, la psicoanalisi classica (Bally), la fenomenologia (Boss) e la psichiatria (Bleuler). Non solo, ma era stato esposto anche alla cultura junghiana, avendo vissuto in un Paese come la Svizzera che da sempre è patria dello junghismo.
Benedetti quindi aveva un retroterra culturale eterogeneo, potremmo quasi dire eclettico. Forse che allora Benedetti non era uno psicoanalista ma uno “psicoterapeuta”? Come i colleghi della SPP sanno, mi sono occupato a fondo della differenza tra psicoanalisi e psicoterapia (mi viene in mente ora che nella primavera del 1993 fui invitato a tenere tre seminari su questo argomento alla SPP, quando la sede era ancora in Via Guido d’Arezzo 4), e questo tema mi aveva sempre interessato perché approfondire questa differenza significa, a ben vedere, capire la identità della psicoanalisi, quindi un problema molto più importante: un modo per conoscere cosa è qualcosa capire innanzitutto cosa non è. Non mi soffermo qui sulle conclusioni a cui sono arrivato in queste mie riflessioni, non è questa la sede e occorrerebbe molto spazio, per cui rimando ad altri lavori (Migone, 1991, 1992, 1995a cap. 4, 1995b, 2000, 2001, ecc.); mi limito a dire che a questo riguardo mi sono sempre sentito molto vicino alle posizioni dell’ultimo Gill (1984, 1993, 1994).
Alla luce anche delle convinzioni che mi sono fatto a proposito della differenza tra psicoanalisi e psicoterapia, per rispondere alla domanda che prima ponevo, cioè se Benedetti possa essere definito uno psicoanalista o uno psicoterapeuta, occorre non dimenticare un fatto molto importante: lui lavorava prevalentemente con psicotici, cioè con pazienti gravi, difficili, per i quali, tra l’altro, lo stesso Freud riteneva non fosse indicata la tecnica psicoanalitica cosiddetta “classica”. Per questo io penso, in un modo che alcuni troveranno provocatorio, che Benedetti fosse un “vero psicoanalista” in quanto aveva capito bene che con i pazienti difficili quello che dobbiamo fare è aiutare il paziente in tutti i modi che possiamo, e proprio alla luce delle nostre conoscenze anche psicoanalitiche. Per sintetizzare quello che voglio dire, potremmo dire che “Benedetti era un vero psicoanalista proprio perché faceva lo psicoterapeuta”. Per comprendere appieno cosa intendo dire con questa affermazione occorre definire cosa intendiamo per psicoanalisi: la definizione che io preferisco – in sintonia con la concezione che aveva sposato anche Gill – è molto allargata, a tutto campo, in cui una teoria generale, quella della psicoanalisi, viene declinata nelle più diverse situazioni cliniche, mantenendo così una coerenza tra teoria e tecnica. Sottolineo la importanza del legame tra teoria e tecnica perché nell’annoso (e non a caso mai risolto) dibattito sulla differenza tra psicoanalisi e psicoterapia – così come si può vedere ad esempio nei tanti contributi di Wallerstein (1969, 1988, 1989, 1990, 1993, ecc.) – il legame tra teoria e tecnica si era incrinato dato che per “psicoanalisi” si dava, a mio parere erroneamente, una accezione legata a un tipo di tecnica, quella “classica”. Mi rendo conto che per entrare meglio nel merito di queste affermazioni dovrei dilungarmi in una serie di riflessioni teoriche che qui per brevità non posso fare, per cui rimando ai lavori che prima ho citato. Riguardo alla differenza tra psicoanalisi e psicoterapia mi sono confrontato varie volte, nel corso degli anni, anche con Kernberg, trovandomi su questo argomento in disaccordo con lui (in un recente libro Kernberg [2004, pp. 126-132] ha ripreso questo confronto con me; vedi anche Galatariotou, 1999-2000, 2000). Anche con lui ho argomentato – per sintetizzare, anche in modo provocatorio ma efficace – che a volte “si è veri psicoanalisti solo se si è psicoterapeuti”. Anche qui mi vedo costretto a far riferimento ad altri lavori che spiegano meglio cosa intendo dire, e per brevità rimando al mio confronto con Kernberg e Green (Green, Kernberg & Migone, 2008).
Prima di concludere questi miei brevi ricordi, vorrei menzionare un’altra occasione in cui ebbi modo di interagire con Benedetti e di riflettere sulla sua identità teorica. Fu al congresso “New Trends in Schizophrenia. Nuovi orientamenti conoscitivi e comprensivi e prospettive terapeutiche e riabilitative in tema di schizofrenia”, che assieme ad alcuni colleghi organizzai il 15-17 aprile 1988 in occasione del Novecentenario dell’Università di Bologna (Migone, Martini & Volterra, 1988), al quale invitammo non solo Gaetano Benedetti ma vari altri noti ricercatori in questo campo, come Luc Ciompi, John Gunderson, Marvin Herz, Mario Maj, Georges Lanteri-Laura, Julian Leff, Loren Mosher, Carlo Perris, Norman Sartorius, ecc. In quella occasione Benedetti disse che in psicoanalisi si alterna sempre comprensione a supporto, a seconda del momento e dei bisogni del paziente schizofrenico. Il confronto allora era con i colleghi statunitensi: Gunderson al congresso aveva riportato i dati emersi dall’importante studio controllato e randomizzato, da poco concluso sotto la guida di Alfred Stanton, condotto al MacLean Hospital di Boston sulla terapia psicoanalitica della schizofrenia, in cui era stato dimostrato che per molti pazienti una tecnica supportiva era più efficace della psicoanalisi. Il problema però, per comprendere meglio il risultato di questa ricerca, è che vi sono tradizionalmente grosse differenze tra gli Stati Uniti e l’Europa nel modo di praticare la psicoanalisi: Benedetti, come altri terapeuti europei, era più eclettico e flessibile, e come si è detto è stato esposto a diverse influenze culturali, per cui si può dire la ricerca riportata da Gunderson et al. (1984, 1988) sia un importante test sul modo con cui viene praticata la terapia psicoanalitica degli schizofrenici da parte di analisti americani formati in modo “classico”, quindi su un certo tipo di psicoanalisi, non sulla psicoanalisi.
Il problema dunque, di nuovo, è definire cosa intendiamo per psicoanalisi. Solamente interpretare i contenuti latenti, senza riguardo per la struttura psichica nella sua globalità e per il rapporto emotivo che il paziente in quel momento è in grado di avere col terapeuta? Come riaffermò Galli (1988) mentre a quel convegno di Bologna ribatteva a Gunderson, è stata proprio la crisi di questa psicoanalisi “ortodossa”, basata sulla centralità dell’interpretazione e trasmessa in modo stereotipato in molti istituti psicoanalitici classici (soprattutto londinesi e nordamericani), quella che ha stimolato la ricerca di un altro concetto forte per connotare il metodo psicoanalitico (riscoprendo il contenitore, il rapporto emotivo, l’empatia, ecc.), come il concetto di setting, in alcuni casi innalzandolo a vero e proprio fattore curativo accanto a quello dell’interpretazione, senza rendersi conto però di ripercorrere passi fatti dal movimento psicoanalitico molto tempo prima (vedi anche Galli, 1990, 1992, 2006, 2013, 2014).
Voglio concludere queste mie brevi riflessioni in cui ho ricordato Gaetano Benedetti citando un passaggio di Freud del 1910, molto esplicito al riguardo:
«È un concetto da lungo tempo superato e derivante da apparenze superficiali, quello secondo il quale l’ammalato soffrirebbe per una specie d’insipienza, per cui, se si elimina questa insipienza fornendogli informazioni (sulla connessione causale della sua malattia con la vita da lui trascorsa, sulle esperienze della sua infanzia, e così via) egli dovrebbe guarire. Non è un tale “non sapere” per se stesso il fattore patogeno, ma la radice di questo “non sapere” nelle resistenze interne del malato, le quali in un primo tempo hanno provocato il “non sapere” e ora fanno in modo che esso permanga. Il compito della terapia sta nel combattere queste resistenze. La comunicazione di quanto l’ammalato non sa perché lo ha rimosso, è soltanto uno dei preliminari necessari alla terapia. Se la conoscenza dell’inconscio fosse tanto importante per il paziente quanto ritiene chi è inesperto di psicoanalisi, basterebbe per la guarigione che l’ammalato ascoltasse delle lezioni o leggesse dei libri. Ma tali misure hanno sui sintomi della malattia nervosa la stessa influenza che la distribuzione di liste di vivande in tempo di carestia può avere sulla fame» (Freud, 1910, p. 329).
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