"A fine 1961 mi venne diagnosticato un neurinoma del nervo acustico, una grave malattia neurologica”.
Così scrive Benedetti nella sua autobiografia psicoanalitica. E continua - dopo aver descritto i suoi sintomi iniziali ed essersi meravigliato della forza con cui il suo Io ne aveva rimosso il significato - ricordando il suo incontro con il neurochirurgo che gli avrebbe asportato il tumore, il famoso prof. Hugo Krayenbühl, il quale gli disse con sarcasmo: “Nel Suo lavoro Lei ha avuto a che fare con le nevrosi, adesso deve sperimentare su di sé un tumore cerebrale”. Benedetti racconta di avergli chiesto se avesse avuto problemi con la professione di psichiatra, e il neurochirurgo confessò che originariamente avrebbe voluto diventare psicoterapeuta, ma che la delusione per la ricaduta di un cleptomane che credeva di aver guarito l'aveva condotto alla neurochirurgia (sia detto per inciso, il padre di Krayenbühl era psichiatra – ma credo che Benedetti non lo sapesse…).
Una reazione in qualche maniera analoga ebbe luogo in Benedetti dopo l’intervento, sia pure senza condizionarne, se non temporaneamente, l’orientamento professionale. Egli scrive: “I mesi dopo l’intervento furono spiacevoli. Mi infastidiva una strana sensazione di “piccolezza”; “in me tutto è diventato piccolo”, dicevo a mia moglie. Anche i rapporti spaziali mi sembravano piccoli. Pensai allora: se il mio stato somatico può disporre in questo modo del mio spirito, allora il mio spirito, per liberarsi, deve studiare lo stato somatico”.
Così, Benedetti iniziò lo studio nella neurologia, della neurofisiologia e della neuropsicologia, che portò, nel 1969, alla pubblicazione del volume (dedicato ai fratelli Calogero ed Eugenio) “Neuropsicologia” – di cui Benedetti nell’autobiografia non fa esplicita menzione, ricordando invece l’altra opera, “Segno, simbolo e linguaggio”, del 1971, in cui riprende gli argomenti neuropsicologici approfondendone e completandone la trattazione per quanto attiene il linguaggio e i suoi disturbi, nonché i disturbi di funzioni cognitive ed esecutive (afasia, amusia, aprassia, acalculia).
La “Neuropsicologia” (che – non è inopportuno ricordarlo in un’epoca in cui cose del genere non succedono più – era stata realizzata con contributi finanziari non solo della clinica psichiatrica dell’Università di Basilea, in cui Benedetti allora lavorava, e della “Freiwillige Akademische Gesellschaft della città di Basilea, ma anche delle case farmaceutiche Roche, Hoffmann e Sandoz) è un’opera poderosa; conta oltre seicento pagine e presenta una bibliografia di oltre 4000 titoli, citati, o discussi, nel testo.
È divisa in quattro parti:
1) Funzioni e modelli funzionali (che tratta, in diciotto capitoli, dei principi di neurofisiologia, delle funzioni cognitive, del sonno, dei sogni e d’altro in termini prevalentemente sperimentali-oggettivi, ma anche di un tema difficile e trascurato come la volontà, per finire con l’emozione, piacere e dolore, ansia e aggressività);
2) Strutture e sistemi topografici, in cui Benedetti discute, in dieci capitoli, le strutture cerebrali (ipotalamo, sistema limbico, talamo, corteccia e i vari lobi del cervello);
3) Struttura spaziale e temporale della mente, due soli capitoli dedicati a “Unità e dissociazione mentale” e “Il problema della localizzazione”, e infine
4) Le considerazioni finali, raccolte sotto il titolo “Confinia neuropsicologica”, in cui si toccano temi attuali allora come – e forse più – ora.
Credo che Benedetti abbia anticipato i tempi, se pensiamo a quanti neologismi con il prefisso “neuro-” sono, in anni recenti, entrati, più o meno legittimamente, nell’uso, quando parlava (primo capitolo di quest’ultima parte) di neuropsicologia e neurosociologia. L’opera si chiude con tre capitoli dedicati a “Neuropsicologia e psicosomatica”, “Neuropsicologia e psicoanalisi” e “Neuropsicologia e filosofia”.
E ciò oltre vent’anni prima dell’inizio della “Decade of the Brain” inaugurata da George Bush e destinata, oltre che alla scoperta di cure per le malattie mentali, a sensibilizzare specialisti e pubblico (anche) alle implicazioni etiche, filosofiche e umanistiche della ricerca sul cervello.
Non è nelle mie possibilità fare neppure un tentativo di sintesi di tutto quanto Benedetti presenta in questa sua opera che – pur essendo un “opus magnum” – non sembra averlo coinvolto granché, emotivamente. Come si capisce dalla sua autobiografia, il suo primo interesse era (sin dalla gioventù) l’Altro, soprattutto il malato psichico grave; e di lui, della sua sofferenza, della sua “Non-Esistenza” le ricerche sperimentali non forniscono che un quadro frammentario, riduttivo, molto incompleto.
Credo non sia fuori luogo confrontare la “Neuropsicologia” con un altro, ben più celebre manuale: I “Principles of Neural Sciences” di Eric R. Kandel e James H. Schwartz, uscito nel 1981. Se non si tiene conto delle tre appendici, il manuale ha all’incirca lo stesso numero di pagine della “Neuropsicologia”, una bibliografia di meno di mille titoli ed è stato scritto da venti autori. Certo, un confronto “quantitativo” non ha molto senso, se non per dare un’indicazione generica della mole del lavoro portato a termine da Benedetti; ma il “taglio qualitativo” della “Neuropsicologia” è particolare perché, al di là della documentazione scientifica, indica – a chi la sa vedere – la destinazione di tutto questo sapere, destinazione che trascende la ricerca e passa nell’applicazione clinica, nella terapia, nella relazione con il paziente – e va ancora oltre; un “taglio” personale “appassionato” come solo un autore unico poteva dare.
Nei “Principles of Neural Sciences” l’aspetto della terapia, pur evocato, è invece limitato alle possibili terapie biologiche.
Benedetti riporta, nell’autobiografia, una lettera inviatagli dal suo maestro e nume tutelare Manfred Bleuler, e datata 10 febbraio 1991. Bleuler aveva 88 anni, sarebbe morto tre anni dopo. Egli scrive:
“Mio caro Gaetano,
il tuo lavoro “Psichiatria senza psicodinamica e senza psicoterapia?” mi ha occupato costantemente. È un grande documento a favore della nostra “psichiatria”, cioè di una psichiatria in cui la cosa più importante è il singolo malato e lo psichiatra sta accanto al paziente.
Sono sempre più conscio di come la cosiddetta psichiatria “scientifica” tradisca se stessa. Essa è già “non-scientifica” nella misura in cui si fonda su rappresentazioni sbagliate. La psichiatria statistica si fonda su schemi diagnostici, e questi si basano su un postulato irrealistico, vale a dire sul postulato che, nell’ambito psicologico e psicopatologico, i concetti abbiano limiti definiti. Non li hanno…”.
Probabilmente, Bleuler aveva in mente l’ormai avvenuta diffusione planetaria dei manuali diagnostici e statistici di matrice americana, i ben noti DSM, la cui prima edizione risale al 1952, contava 145 pagine ed elencava un’ottantina di diagnosi (più eventuali sottogruppi), mentre che la più recente, la quinta, è del 2013 per l’edizione americana, di quest’anno per quella italiana e, di pagine, ne conta più di 1000, di diagnosi più di 200 con innumerevoli sottogruppi, sottotipi e livelli di gravità.
Da un’edizione all’altra, i quadri clinici sono stati approfonditi, ridefiniti e suddivisi; ma in parte, forse, l’aumento di diagnosi si deve a ciò che Kant, nel “Saggio sulle malattie della mente” descrive ironicamente con le parole: “...non vedo di meglio, per me, che imitare il metodo dei medici che credono di essere stati molto utili al loro paziente per aver dato un nome alla sua malattia…”.
Come è noto, le critiche di Bleuler sono condivise da molti, e il cosiddetto “approccio categoriale” sta forse cedendo il passo a uno “dimensionale” (ma già anche il termine “dimensione” non soddisfa, e si comincia a parlare di “domain”. Sia come sia, non si può non prendere nota di come sia difficile (e spesso arbitrario) inserire il paziente (che noi conosciamo per la sua specificità, unicità e – spesso – complessità) in una o più delle categorie diagnostiche di questi manuali, che – per dar ragione di certi quadri clinici – ammettono persino la diagnosi, in un certo soggetto, di due e più “disturbi di personalità”. Non sostengo che questo approccio sia sbagliato, soprattutto se è per fini di ricerca; ma è ovviamente semplicistico, come – di regola – lo sono gli studi “scientifici” che su di esso e solo su di esso vogliono basarsi. Bleuler vedeva bene e lontano.
Ma torniamo alla “Neuropsicologia, e in particolare al capitolo “Neuropsicologia e psicoanalisi”.
Come tutta l’opera, esso è denso di informazioni vagliate criticamente alla luce di una profonda conoscenza non solo della teoria freudiana (e qui mi riferisco soprattutto a quella degli inizi, più direttamente ispirata a modelli “fisiologici”) ma anche della cultura biologica dei maestri di Freud (Brücke, Meynert, Exner), da un lato, come pure, dall’altro, delle ricerche allora più recenti che smentivano oppure confermavano le tesi psicoanalitiche.
Nella prima parte del capitolo, intitolata “Ha la psicoanalisi una dimensione biologica?”, tra molte osservazioni che non è possibile riprendere qui, eccone una, fondamentale (p.565): “La formulazione psicoanalitica e il suo correlato neurofisiologico possono descrivere lo stesso evento, ma in una scala diversa di osservazione. Essi non sono dei sinonimi, appartengono a diversi linguaggi, e non possono essere sostituiti uno con l’altro nella stessa frase” – che ribadisce con parole nuove quanto scriveva Aristotele nel “De Anima” (403a – 403b): “Diversamente definirebbero il fisico e il dialettico ciascuna di queste affezioni, ad esempio che cos’è la collera: per quest’ultimo è il desiderio di vendetta o qualcosa di simile, per il primo il ribollire del sangue o del calore che sta intorno al cuore. Dei due, uno rende conto della materia, l’altro della forma e cioè della nozione”.
Entrambi, Benedetti e Aristotele, si collocano su una posizione diversa da quella di Freud quando, in “Al di là del principio di piacere” (1920), scrive: “La biologia è veramente un campo dalle possibilità illimitate, dal quale ci dobbiamo attendere le più sorprendenti dilucidazioni; non possiamo quindi indovinare quali risposte essa potrà dare, tra qualche decennio, ai problemi che le abbiamo posto. Forse queste risposte saranno tali da far crollare tutto l’artificioso edificio delle nostre ipotesi”.
Questa frase, in cui Freud si mostra ottimista sulle possibilità della biologia e piuttosto pessimista sul futuro della psicoanalisi, ipotizza che la prima possa sostituirsi alla seconda; Benedetti ed Aristotele ci dicono che ciò non è possibile, pur con tutte le “dilucidazioni” e gli avvicinamenti.
Nelle sue riflessioni, Benedetti, freudiano dichiarato, si dimostra un eterodosso, nel senso del detto (attribuito ad Aristotele) “amicus Plato, sed magis amica veritas”.
Ecco un esempio (p.569-570): «… nel capitolo su “gli istinti e le loro vicissitudini”, Freud avanza la tesi dell’odio primario degli oggetti: “non si può negare” egli afferma “che l’odio originariamente caratterizzava la relazione dell’Io con il mondo esterno, con gli stimoli che questo introduce. All’inizio sembra che il mondo esterno, gli oggetti e ciò che viene odiato siano identici”. E ancora: “L’odio, in rapporto agli oggetti, è più antico dell’amore. Esso deriva dal primordiale ripudio del mondo esterno, con i suoi stimoli pervasivi, da parte dell’Io narcisistico”. Come poco ci convincono queste asserzioni quando semplicemente osserviamo i bambini, con la loro gioia di nuove esperienze, scoperte e contatti col mondo! Ma cos’altro non è la tesi freudiana se non la logica conseguenza dell’assunto precedentemente discusso, dell’ipotesi che l’apparato nervoso sviluppa la sua funzione maggiormente vitale per l’organismo proprio per liberarsi dagli stimoli che lo minacciano? Se ogni aumento di energia è spiacevole, allora lo sconforto risultante da quest’esperienza altro non può definirsi che odio per l’oggetto.
Queste deficienze nelle premesse biologiche della prima psicoanalisi son divenute man mano più visibili sia in seguito a una certa ortodossia conservatrice che sotto la forma della fedeltà a Freud ha inibito l’ulteriore ripensamento delle posizioni iniziali, sia in seguito alle numerose esperienze psicoterapiche, che naturalmente tendono, come ogni esperienza ricca di significato, a modificare la teoria. Un esempio del problema ci viene dato dalla paradossalità e dall’evoluzione del concetto psicoanalitico d’inconscio: mentre più volte nei suoi scritti Freud si esprime, sulla base delle sue osservazioni psicologiche, a favore di una “regione psichica” relativamente poco strutturata, Jung è l’antesignano di un concetto altamente strutturale. La neuropsicologia ci fornisce dati che sono a favore di questa seconda ipotesi».
In queste pagine, Benedetti anticipa di molto testi come i “Clinical Studies in Neuro-Psychoanalysis” di Karen Kaplan-Solms e Mark Solms (del 2000), il “Psychiatry, Psychoanalysis and the New Biology of Mind” (del 2005) del già citato Eric Kandel, premio Nobel per medicina e fisiologia nel 2000, l’ancor più recente “A ciascuno il suo cervello” di François Ansermet e Pierre Magistretti (del 2008), e altri.
L’atteggiamento di Benedetti è di apertura e al contempo di profondità; una profondità che non è (o non è solo) l’approfondimento di aspetti particolari nell’esame di ogni dettaglio o variante. È profondità nel tenere sempre in considerazione i valori che – esplicitamente o implicitamente – informano la ricerca, che sia quella sperimentale oppure quell’altra, peculiare forma di ricerca che è la psicoterapia, la quale richiede talvolta anche la trasgressione, il “boundary crossing” di cui parla, p.e., Glen O. Gabbard.
Mi permetto, per concludere, di raccontare un episodio recente che mi riguarda.
Il mese scorso si è tenuto ad Ascona, nel canton Ticino, il congresso internazionale “Brain Circuits for Positive Emotions”, che ho contribuito a organizzare e che, seppur largamente ignorato dai media, è stato un successo. Nonostante che il nome faccia pensare solo a strutture nervose, il congresso è stato interdisciplinare, con contributi di neuroanatomisti, neurologi, primatologi, psicologi (tra i quali Jaak Panksepp), psichiatri e filosofi, con temi che spaziavano dall’organizzazione e funzionamento sociali dei bonobo all’irrisolto dilemma tra determinismo e libero arbitrio (tema che – ricordo – Benedetti tratta nell’ultimo capitolo della “Neuropsicologia”).
Per un colpo di sfortuna, i due colleghi invitati a parlare su aspetti legati alla psicoterapia dovettero, all’ultimo momento, annullare la loro partecipazione. Sentii allora una sorta di “senso del dovere” (forse inopportuno e autolesionista) di improvvisare un mio intervento che – certo molto semplicemente – desse voce all’aspetto che personalmente ho più a cuore, quello clinico, che – tra ricerche su modelli animali e altre su umani, ma sempre sperimentali – non aveva ricevuto attenzione alcuna.
Parlai di un singolo aspetto di una terapia in corso da molti anni, i disturbi del sonno. La paziente è stata vittima di gravi abusi sessuali dall’infanzia alla prima età adulta ed ha – come conseguenza – abusato di sostanze psicotrope di ogni tipo per anni. Per anni è stata ospite di comunità terapeutiche ed è stata ricoverata molte volte in cliniche psichiatriche, con diagnosi che – al di là della tossicodipendenza – andavano dall’ “isteria” alla schizofrenia, passando, com’è naturale, per il disturbo borderline. Superate le dipendenze, persino quella tremenda dall’alcol, spariti gli stati dissociativi che in passato dominavano il quadro clinico, ammorbidite le difese e riportati alla coscienza e in parte elaborati i troppi e pesanti vissuti traumatici, persistevano disturbi del sonno refrattari a ogni terapia farmacologica e a ogni intervento terapeutico. Il sonno era agognato e temuto, perché le poche ore in cui la paziente ne avrebbe potuto godere erano infestate da incubi in cui “il rimosso ritornava” in forma iperrealistica. Né i sonniferi classici, né i neurolettici e gli antipsicotici, né gli antidepressivi, né gli “outsider” ormai obsoleti della farmacopea, come il meprobamato (che solo i più anziani ricorderanno) portavano giovamento.
Sulla scorta di informazioni emerse nelle sedute, decisi allora di commettere una trasgressione: feci alla paziente (ormai quarantenne e alta un metro e ottantacinque) un dono, il più grande orsacchiotto che la mia compagna riuscì a trovare. Dormì dodici ore, e l’effetto si protrasse per settimane.
Anche se non ha risolto la patologia della paziente, questo intervento ne ha migliorato molto lo stato. È chiara la sua valenza simbolica, ma anche quella affettiva.
Io credo di poter dire che – senza l’insegnamento e senza il rapporto stretto che ho avuto con Benedetti – non avrei mai intrapreso il trattamento di casi così difficili, e ciò pur essendo per carattere portato a “tentare l’impossibile”; Benedetti non mi ha insegnato a trasgredire, ma di sicuro ha rinforzato la mia capacità di cercare con dedizione, di insistere, di perseverare; con le parole della sua “Meditazione” (in “Riflessioni ed esperienze religiose in psicoterapia”, p.8), di “vedere possibilità, movimenti, speranze e di rallegrarmi anche di barlumi e ombre”.