Che presenza ha il tema della vecchiaia e della morte nella storia del pensiero e della clinica psicoanalitici? Su tali interrogativi ci parlerà Alfredo Civita, che ha dedicato particolare e lucida attenzione ad uno dei testi più enigmatici e affascinanti dell’opera freudiana, “Al di là del principio di piacere” e a quella pulsione di morte che ne è una delle concettualizzazioni più ardite e discusse. Non entro nel merito.
Dico però qualcosa sulla “ANGOSCIA di morte”, che incontriamo così frequentemente nella clinica del paziente anziano.
Come è noto Freud escludeva la presenza di una idea della morte nell’inconscio e interpretava l’angoscia di morte come un derivato psichico dell’angoscia di castrazione. Ci troviamo anche in questo caso di fronte a ipotesi e teorizzazioni profondamente discusse dalla psicoanalisi post-freudiana. Franco Fornari, che ho già ricordato, sosteneva che nell’inconscio filogenetico, teorizzato dallo stesso Freud insieme all’inconscio ontogenetico o della rimozione edipica, è presente una “idea primaria” della morte: essa è dinamicamente attiva, ma non come “pulsione di morte” bensì come “pre-concezione”, in senso bioniano, come pre-disposizione, filogenetica appunto, che, in connessione ed interazione con i Codici Affettivi primari, avrebbe il senso e la funzione di riconoscere il pericolo di morte e concorrerebbe ad orientare gli individui e la specie verso scelte di vita e di autoconservazione, ma anche di predisporli in qualche modo, psichicamente, all’esperienza di morte.
Ma tornando all’angoscia di morte, desidero ricordare qui alcuni orientamenti che si discostano dal discorso freudiano.
Robert Langs, ad esempio, ha individuato nell’angoscia di morte, intesa come angoscia primaria e non derivata, una delle sorgenti più potenti di quella ch’egli chiama “la follia nella vita quotidiana”, una follia di cui paziente e analista condividono le angosce e le difese deneganti. Da questa angoscia di morte quello che Langs definisce il “sistema inconscio di superficie” protegge l’Io utilizzando difese anche fortemente patologiche, persino di tipo psicotico, con le quali la “follia” del terapeuta può colludere per sfuggire a sua volta al terrore della morte.
A sua volta Harold Searles ha osservato che “proprio l’impostazione teorica della psicoanalisi, che si è concentrata principalmente sullo sviluppo infantile, ci ha impedito di tenere nella giusta considerazione il problema della morte, e questo indipendentemente dalle annose discussioni pro o contro l’ipotesi di una “pulsione di morte”.
E con accenti analoghi Emanuele Bonasia ha recentemente sottolineato come “nella maggior parte della letteratura psicoanalitica vi è poco spazio per il tema della paura della propria morte: ciò è in contrasto col ruolo da essa giocato in psicopatologia, nella clinica psicoanalitica e nella vita di ogni essere umano”. E in contrasto con Freud, che, come ho ricordato, riconduce l’angoscia di morte all’angoscia di castrazione, afferma la natura “reale” e “primaria” dell’angoscia di morte. Contro tale angoscia l’autore ipotizza, rifacendosi a Bion, “che la parte psicotica della personalità impegna tutte le sue energie allo scopo di disattivare l’apparato per pensare e alterare in tal modo la verità”.
Nella psicoterapia degli anziani, la trattazione di tale angoscia è tra i temi e i terreni principali di esplorazione, interazione ed elaborazione.
E tocco qui appena la questione della psicoterapia degli anziani e dei vecchi.
Le trasformazioni nel ciclo della vita fanno sì che, da qualche anno, sulla scena dell’intervento clinico, orientato in senso psicoanalitico, compaiano sempre più frequentemente uomini e donne di oltre sessanta ed anche settant’anni. Nei casi più favorevoli le buone condizioni di salute, il benessere socio-economico, le risorse psichiche e attitudinali, la motivazione del paziente, rendono l’ipotesi di una psicoterapia orientata e strutturata in senso psicoanalitico, una proposta clinicamente corretta ed appropriata.
Si pone qui il problema della “analizzabilità” del paziente anziano, ed anche in questo caso le posizioni teorico-metodologiche di molti psicoanalisti si sono sempre più frequentemente allontanate dalla originaria posizione freudiana, assai pessimista circa la possibilità di sottoporre utilmente pazienti troppo in là, a suo avviso, in età al trattamento psicoanalitico. Freud scrisse ad esempio: “l’età del paziente ha molta importanza ai fini del trattamento psicoanalitico, in quanto verso la cinquantina o dopo di questa, di regola viene meno l’elasticità dei processi mentali da cui dipende il trattamento”.
Si tratta di una valutazione che ormai risulta insostenibile ed è smentita da quanto la ricerca e le neuroscienze in particolare ci dicono ormai da molti anni circa le straordinarie capacità plastiche del cervello e di riorganizzazione dei processi mentali anche in età avanzata.
Un primo parere favorevole, in ambito psicoanalitico, al trattamento di pazienti anziani fu espresso nel 1919 da Karl Abraham che in “La prognosi di trattamenti psicoanalitici in età avanzata”, riferisce di aver conseguito in alcuni di tali trattamenti “successi tra i migliori tra lui ottenuti in generale”.
Il primo autore a parlare espressamente di psicoterapia degli anziani anche in termini di una specifica tecnica di trattamento è M.Grotyahn nel 1955, in un articolo in cui riferisce il trattamento di un settantenne con aspetti di demenza senile.
Ma il primo lavoro in cui uno psicoanalista riferisce in modo dettagliato il trattamento psicoanalitico di un anziano è un articolo di H. Segal del 1958, di cui ha riferito ampiamente Franco De Masi, che dell’articolo ci ha dato un’esposizione organica. Il caso della Segal è di grandissimo interesse perché dimostra come la psicoterapia dell’anziano non è, di per sé, diversa dalla psicoterapia analitica in altre età della vita e dimostra altresì come decadenza senile e angoscia di morte possano essere affrontate ed adeguatamente elaborate solo attraverso un lavoro squisitamente analitico. Anna Segal fu altresì tra i primi autori a distinguere l’angoscia di morte inconscia da quella cosciente. Una distinzione ripresa da Daniel Quinodoz che, a proposito dell’angoscia di morte inconscia, scrive:
“Si tratta di un’angoscia legata a sentimenti persecutori di colpa che rende difficile il lavoro dell’invecchiare. A volte, infatti, vediamo dei vecchi inaspriti che inconsciamente vivono il loro invecchiamento e la loro morte come una rivincita che prenderanno, a loro spese, gli oggetti interni verso i quali si sono mostrati aggressivi.
Credono allora di essere perseguitati da questi ultimi e ne diffidano: a poco a poco, arrivano a diffidare di tutti coloro che li circondano, e questo rende sempre più difficile vivere accanto a loro(...) .Avrebbero a volte bisogno dell’aiuto di un terapeuta per integrare i sentimenti inconsci di odio e di amore che provano per le figure importanti della loro vita (….).Vivrebbero allora l’approssimarsi della morte in un’atmosfera meno persecutoria”.
In un lavoro del 1969 Grete Bibring, riflettendo sul tema della psicoterapia dell’anziano, ha sottolineato come essa ponga il terapeuta non solo di fronte a difficoltà e a svantaggi, ma anche di fronte a vantaggi e potenzialità: la ricchezza dell’esperienza di vita e dei ricordi e, talora, una capacità di distanza per lo più assente in pazienti più giovani. Nel 1980, infine, per la prima volta compare in un congresso dell’IPA, una relazione ufficiale dell’analisi di un paziente anziano, quella tenuta da Pearl King, che dichiara di considerare in via di principio, i pazienti anziani come buoni candidati per il trattamento psicoanalitico non diversamente da pazienti di diversa fascia di età.
E in Italia la Turillazzi Manfredi, in un articolo del 1990, ha preso posizione in modo deciso e radicale sul tema, affermando che “se c’è un momento della vita in cui è il caso di fare l’analisi è la vecchiaia”.
E l’analizzabilità dei pazienti anziani è stata, ancora, sostenuta da altri diversi autori italiani da Stefano Mistura ad Alberto Spagnoli, da Maria Pierri ad Ezio Izzo, a Franco De Masi.
Personalmente ritengo, e mi avvio alla conclusione, che la psicoterapia dell’anziano e del vecchio sia anche, oltre che un’esperienza terapeutica, anche un’esperienza di libertà, di accettazione e di verità: libertà dall’angoscia e dai fantasmi interni; accettazione dell’invecchiare e del morire come parte della vita e come suo nutrimento; e scoperta di quella verità su di Sé la cui ricerca compete alla psicoanalisi.
La liberazione dall’angoscia di morte non implica l’acquisizione di una sorta di indifferenza atarassica al morire, che rimane comunque, anche dopo una psicoterapia, un pensiero doloroso; essa però consente di liberarsi da quei fantasmi per i quali il morire è profondamente associato a sentimenti di colpa e, ancor più, alla sottomissione interna, inconscia, ad oggetti arcaici, abbandonici o persecutori.
Sono tali fantasmi a rendere il pensiero della morte insostenibile.
Allo stesso modo la psicoterapia dell’anziano non trasforma l’invecchiare in una fase gioiosa ed esaltante del ciclo di vita. Invecchiare vuol dire, irreparabilmente, decadere, subire perdite: di persone, di ruoli sociali, di forza, di bellezza; e tuttavia la psicoterapia psicoanalitica può aiutare l’anziano ad accettare tutto ciò come un destino necessario, che, allo stesso modo del morire fa parte del programma di vita dell’uomo, un programma che attraverso la morte degli individui apre spazi di vita per nuovi individui e nuovi progetti vitali.