Un “paradigma” può essere definito come un universo concettuale dal quale si origina una particolare tradizione di ricerca scientifica sorretta da una propria coerenza. Un complesso di assunti di base ne orienta, infatti, la selezione degli oggetti di studio e ne specifica i metodi di raccolta e interpretazione dei dati; stabilisce, cioè, le “regole del gioco” che devono essere osservate dalla comunità scientifica che condivide quel determinato paradigma[1]. Con “epistemologia” si intende: “teoria della conoscenza” ma anche “riflessione sui principi e i metodi della conoscenza scientifica”. Nella prima accezione le origini dell’epistemologia sono già rinvenibili nelle prime riflessioni filosofiche in merito a cosa è possibile conoscere e con quali metodi e strumenti. Nella seconda accezione l’epistemologia ha origini più recenti, nascendo con il circolo di Vienna agli inizi del novecento, come pensiero critico sulle effettive possibilità conoscitive della scienza, esplicitandone i metodi e le condizioni di validità. Nel senso più ampio con il termine epistemologia si fa riferimento alla conoscenza che, rivolgendosi a se stessa, studia la propria genesi in relazione alle proprie radici e matrici storiche, sociali, antropologiche ecc. I principali temi della riflessione epistemologica sono: che cosa è la scienza, quali sono i suoi parametri, qual è il confine tra ciò che è scientifico da ciò che non lo è, come si evolve la scienza. Temi questi che rimandano ad altri interrogativi che riguardano: il carattere di verità della conoscenza scientifica, la relazione tra conoscenza e realtà, la funzione dell’interpretazione, il ruolo dell’osservatore, i principi dell’osservazione, la natura delle leggi e della previsione ecc[2].
La scienza e il pensiero scientifico, come è noto, nascono con Galileo nel XVII secolo il quale elabora il metodo sperimentale rivolto essenzialmente alla ricerca delle leggi naturali. In breve tempo la scienza trova una propria autonomia, per mezzo dell’elaborazione dei relativi strumenti di osservazione e di raccolta dei dati, affrancandosi così dalla speculazione filosofica. Il metodo sperimentale diviene così l’unico processo in grado di produrre conoscenza certa. Tuttavia, come è noto, il metodo scientifico, grazie alle riflessioni nate nel contesto della filosofia della scienza a partire da Popper e dal dibattito post-popperiano, sia ormai da tempo entrato profondamente in crisi (cfr. Popper 1958, 1962; Kuhn, 1962; Carnap, 1964; Schlik, 1966; Medavar, 1970; Feyerabend, 1975; Marcuse, Popper 1977; Agassi, 1978; Carnap, Hahn, Neurath, 1979; Laudan 1979; Lakatos, 1980). Crisi che investe a maggior ragione quegli ambiti di studio ove l’oggetto da indagare risulta particolarmente complesso come nel caso della psicologia clinica. Dalla crescente consapevolezza delle difficoltà relative all’irriducibile complessità dell’oggetto di studio in psicologia e in psichiatria e grazie anche al continuo sviluppo di scienze come l’ecologia, l’etologia, lo studio dei sistemi si è reso necessario e imprescindibile una revisione dei classici principi del metodo sperimentale, per mezzo dell’introduzione di nuovi parametri interpretativi della realtà e anche dell’introduzione di nuovi approcci metodologici nell’organizzazione della ricerca scientifica. Lo statuto disciplinare e il metodo di ricerca propri della psicologia clinica sono strettamente connessi al dibattuto problema dei requisiti scientifici della disciplina, rispetto ai quali il mondo esterno alla psicologia, ha da sempre espresso perplessità. Effettivamente, se applichiamo alla psicologia clinica il più potente criterio di scientificità, ovvero la possibilità di falsificazione (cfr. K. Popper, La logica della scoperta scientifica, Torino, Einaudi, 1970) delle sue ipotesi esplicative, ci troviamo di fronte all’impossibilità di soddisfare tale criterio, poiché le ipotesi relative ai fenomeni psichici difficilmente si configurano come esaustive spiegazioni causali, e dunque falsificabili, né possono dirsi acquisite con procedimenti rigorosamente controllati, effettuati cioè secondo precise modalità di rilevazione, descrizione e misurazione dei fenomeni studiati. Inoltre, non solo la complessità dell’oggetto e dei fenomeni studiati dalla psicologia clinica (si pensi all’elevato numero di variabili coinvolte, ai lunghi tempi spesi nell’osservazione-ascolto, alla soggettività dei significati che l’individuo osservato attribuisce al mondo), ma anche il metodo che la contraddistingue risulta piuttosto lontano dalla logica del metodo sperimentale che caratterizza invece la ricerca scientifica. Infatti, se con il metodo sperimentale l’osservazione di un comportamento deve essere il meno possibile condizionata dalla soggettività dell’osservatore, con il metodo clinico quest’ultima entra invece a pieno titolo nella relazione osservatore-osservato, utilizzando il coinvolgimento emotivo reciproco come mezzo di conoscenza. Se con la logica del metodo sperimentale i comportamenti si spiegano a partire da leggi generali stabilite, con la logica del metodo clinico i comportamenti si interpretano con assunzioni non contraddittorie e motivate, così da essere accettabili per la comunità scientifica e le interpretazioni assumono la forma di racconto, lontane dalle formalizzazioni del metodo sperimentale. Ma come è stato possibile un simile cambio di paradigma? Esso è avvenuto grazie alla sistematica critica e revisione dei principi di intelligibilità contemplati nella scienza classica per mezzo dell’introduzione di nuovi principi, sintetizzati in maniera precisa e puntuale all’interno del paradigma della complessità (Morin, 1977, 1980, 1982, 1985, 1986,) costituendo così la struttura portante di una nuova architettura dei processi e dei metodi della conoscenza. Morin (1982, 1985) identifica nei concetti di ordine, disordine, sistema e organizzazione i punti cardine del mutamento paradigmatico che negli ultimi decenni ha coinvolto i più disparati ambiti del sapere, anche l’ambito della psicologia clinica. Il sistema viene così definito come unitas multiplex, regolato da particolari tipi di relazioni tra il tutto e le sue parti e produttore allo stesso tempo di unità e diversità. Ciò che definisce il sistema stesso è la sua organizzazione in quanto essa protegge, mantiene e regola il sistema stesso. In estrema sintesi, la realtà non è stabile e immutabile, ma è un sistema in continuo cambiamento nel quale concorrono il disordine e la casualità degli eventi che costantemente la riorganizzano e la trasformano. Nella proposta di Morin (1982) il sistema da osservare è un concetto a doppia entrata: physis-psiche; ovvero, fisico alla base, psichico al vertice. Fisico a causa delle sue condizioni di formazione e di esistenza (interazioni, congiuntura ecologica, condizioni e operazioni energetiche e termodinamiche), e questo vale anche per un sistema di idee che possiede anche una componente fisica quali i fenomeni bio-chimico-fisici legati all’attività cerebrale; psichico per le sue condizioni di distinzione o d’isolamento, per la scelta del concetto focale (sistema, sottosistema, supersistema, ecosistema), un principio d’arte (di diagnostica), un principio di riflessione critica (sulla relatività delle nozioni e delle frontiere del sistema) un principio di incertezza. Tutto ciò entra e reagisce nel rapporto osservatore-osservato, divenendo centrale nella pratica clinica. Morin (1982) fissa alcuni principi rispetto al problema della relazione tra osservatore e osservato: a) principio di relazione tra l’osservatore e oggetto osservato; b) principio di introduzione del dispositivo di osservazione o di sperimentazione (apparato, griglia ecc. ecc.) e quindi dell’osservatore stesso in ogni processo osservativo; c) necessità di introdurre il soggetto umano - situato e datato culturalmente, sociologicamente e storicamente – in ogni studio antropologico o sociologico;d) necessità di una teoria scientifica del soggetto. Relativamente alle modalità dell’osservazione Morin (1982) individua alcuni principi che, secondo Lo Verso e Di Blasi (2011), possono essere una premessa utile rispetto ad un possibile progetto di ri-lettura della psicologia clinica: principio che stabilisce la necessità di legare la conoscenza degli elementi o parti a quella degli insiemi i sistemi che essi costituiscono, ovvero il riconoscimento dell’impossibilità di isolare le unità elementari e semplici alla base dell’universo fisico; principio di distinzione ma non di disgiunzione tra l’oggetto o l’essere e il suo ambiente. La conoscenza di ogni organizzazione fisica richiama la conoscenza delle sue interazioni con l’ambiente. La conoscenza di ogni organizzazione biologica richiama la conoscenza delle sue interazioni con il suo ecosistema; problematica delle limitazioni della logica, ovvero il riconoscimento dei limiti della dimostrazione logica in seno ai sistemi formali complessi. Considerazione eventuale delle contraddizioni imposte dall’osservazione/sperimentazione in quanto indici di un campo ignoto; necessità di pensare in maniera dialogica e per macroconcetti, legando in maniera complementare nozioni eventualmente antagoniste.
Alla luce, dunque, delle elaborazioni avanzate dall’epistemologia della complessità si comprende come ogni teoria, modello ecc., debbano essere collegati innanzitutto con le condizioni dell’osservazione nelle quali vengono prodotte. Infatti, a monte di ogni processo conoscitivo si trova un atto soggettivo, o meglio intersoggettivo fondandosi essenzialmente sull’accordo con la comunità scientifica storicamente determinata. Come infatti abbiamo visto all’inizio del presente lavoro riguardo alla definizione di paradigma, la scienza è un campo aperto dove sono in lotta teorie, principi, visioni del mondo ecc.; lotta in cui vigono le “regole del gioco” relative anche al rispetto dei dati da una parte e obbedienza ai criteri di coerenza logica dall’altro. Ed è proprio grazie all’obbedienza a queste regole che si assicura la superiorità della scienza su altre forme di conoscenza (Morin, 1982). Tuttavia, è necessario ribadire come concetti, metodi, teorie e strumenti sono necessariamente parziali, in quanto contestualmente determinati dal punto di vista storico e culturale. Difatti, solo all’interno dello studio dei dispositivi messi in atto ha senso parlare di dati, variabili e loro connessioni (Nathan, 1993). Avviene quindi un importante spostamento del focus relativo alla verificabilità scientifica che muovendosi dall’attenzione ai procedimenti classici va adesso verso le teorie, i modelli e i dispositivi che guidano la conoscenza scientifica. Dalla prospettiva dell’epistemologia della complessità il metodo sperimentale in sé cessa di essere garante di verità oggettivamente data una volta per sempre, per divenire metodo di convalida di costrutti relativi e (storicamente) relativizzati alle condizioni di osservazione[3]; divenendo questa un ordine categoriale sovraordinato al metodo sperimentale (Di Maria & Giannone, 1998). In sintesi, pur non essendo nelle intenzioni della nuova epistemologia tratteggiata da Morin, svalutare fino a cancellare l’utilità del metodo sperimentale classico, tuttavia in essa si afferma come non sia corretto ridurre la qualificazione scientifica della ricerca ai procedimenti della riduzione, disgiunzione, quantificazione e ripetibilità. La scientificità oggi si fonda sulla necessità di esplicitare i quadri teorici e metodologici di riferimento, laddove la convalida della conoscenza derivi dalla coerenza del paradigma messo in gioco: «il modo in cui concettualizziamo il problema, le operazioni che mettiamo in atto per conoscerlo e i risultati che otteniamo in un dato contesto del quale osservatore e osservato sono entrambi parte»[4] .
Si affaccia, quindi, la necessità di un approccio relativista (Galzigna, 2008). Occorre, qui, una breve precisazione, che restituisca spessore e dignità teorica a questa espressione, troppo spesso banalmente distorta o faziosamente fraintesa. Essere relativisti significa riconoscere – sincronicamente e diacronicamente – la pluralità degli assetti di verità nell’ambito della ricerca scientifica: il che non implica né una deriva nichilista, che metta sullo stesso piano le varie alternative praticabili, né un esito scettico radicale, che tratti ogni singola alternativa come una delle tante e possibili credenze, caratterizzata esclusivamente dalla sua forza persuasiva, dalla sua capacità di imporsi nell’ambito della comunità scientifica e, più in generale, all’interno di un determinato contesto sociale e istituzionale[5]. L’epistemologo relativista, sempre attento alla configurazione interna e alla storicità delle teorie, riconosce e analizza il modo peculiare in cui, entro ogni singola episteme, la verità viene prodotta, riprodotta, controllata e garantita. Non sposa la tesi del «tutto va bene». Non giudica. Non prescrive. Non si pronuncia quindi – in maniera normativa – sul maggiore o minor valore di verità di ogni singola episteme: si limita a comprenderla dall’interno e a spiegarla, individuando sia i suoi rapporti (di esclusione, di antagonismo, di estraneità, di prossimità, di confronto) con altre formazioni discorsive, sia i contesti (anche non discorsivi) che la rendono più intelligibile. Ogni valutazione gerarchica e prescrittiva – capace di stabilire quale ha da essere, oggi, il metodo conoscitivo più valido, più «scientifico», più facilmente confermabile o più difficilmente falsificabile – viene quindi abbandonata, a profitto di un’analisi puntuale e ben localizzata della storia, della struttura e dei modi di produzione della verità scientifica. L’epistemologo relativista, ben lontano dalla postura caricaturale attribuitagli dagli avversari del relativismo – oggettivamente vicini, laici o cattolici che siano – non solo non valuta le teorie, come si è detto, ma nemmeno è disposto, more sceptico, a considerarle equivalenti proprio in quanto tutte estranee, anche se in maniera diversa, a ogni pretesa extrastorica di verità e di oggettività. Anche la tesi dell’incommensurabilità dei paradigmi – già affermatasi, con Kuhn e con Quine (per non citare che loro) – può funzionare come supporto di un approccio relativista. Salta, dentro la tesi dell’incommensurabilità, la distinzione tra un’osservazione concepita come neutrale rispetto alla teoria e la teoria medesima, che si affida all’osservazione e al riscontro empirico per essere confermata (Carnap) o falsificata (Popper). Entro tale prospettiva, si pensa che i fatti empirici e i dati osservativi siano sempre intrisi di teoria. Si pensa che non siano mai elementi bruti, immediati, ingenui. Insomma: l’osservazione, il fatto, il dato sensoriale, soprattutto in fisica (Duhem), sarebbe sempre theory-laden, cioè carico di teoria (Hanson). Un punto di vista assolutamente inapplicabile alle scienze psichiche e alla psichiatria. È possibile, oggi, accettare la tesi dell’incommensurabilità – e dell’indeterminatezza della traduzione (Quine) – senza delegittimare ogni ricostruzione razionale e storica delle scelte teoriche? Senza scivolare in un soggettivismo cieco, incapace di mettere a fuoco i modi peculiari, tipici di ogni paradigma, attraverso cui si instaura e si afferma un determinato regime di verità? Senza lasciar spazio a posizioni di stampo oscurantista? La risposta può anche essere affermativa, ma solo a patto di implicare una definizione più ampia della razionalità scientifica: una definizione disposta a includere, tra le variabili epistemologicamente rilevanti, anche quelle di carattere non strettamente scientifico,ma politico, istituzionale, antropologico, ideologico, filosofico, religioso, psicologico. Due soli esempi, in questa direzione: la posizione dell’intellettuale ebreo, fisico e storico della scienza, Yehuda Elkana e, in una certa misura, anche la posizione del filosofo della scienza Larry Laudan. Yehuda Elkana, nel suo importante testo teorico e metodologico (A Programmatic Attempt at an Anthropology of Knowledge), critica radicalmente quella che egli chiama la «ragione epistemica»: una ragione reificata, responsabile di produrre un’immagine disincarnata della scienza. Tale immagine sottrae la scienza – come ha scritto Aldo Gargani nel lucido saggio che introduce l’edizione italiana del libro – «alla varietà multiforme delle sue matrici sociali, antropologiche e alla morfologia differenziata dei suoi ingredienti intellettuali». Alla «ragione epistemica» Elkana contrappone una «ragione inventiva» – che definisce anche «metica», ispirandosi alla metis greca – capace di mettere a fuoco non soltanto i procedimenti logici e i sostegni osservativi di una scienza, ma anche i contesti che la influenzano e che la rendono possibile: quelli che Popper, riprendendo Reichenbach, definiva i «contesti della scoperta», distinguendoli dicotomicamente dai «contesti della giustificazione». Popper considerava questi ultimi i fattori più importanti: i veri fattori decisivi rispetto a ogni processo di ricostruzione razionale delle teorie scientifiche, della loro struttura e della loro coerenza interna. La scelta di campo dello studioso ebreo è senza dubbio chiara e inequivocabile. Una frase simile a uno slogan la sintetizza in maniera icastica ed efficace: ragione inventiva contro ragione epistemica. Questa frase figura come titolo di un paragrafo del primo capitolo del libro di Elkana. Sviluppando il concetto di «ragione inventiva», da lui proposto, siamo in grado di utilizzare una thick description. Un «mezzo per descrivere la complessità del pensiero». Un mezzo per descrivere la scienza come «sistema culturale», abitato da una pluralità di concetti, di teorie, di pratiche discorsive differenziate, che interagiscono e che si sovrappongono tra di loro. La thick description (espressione che Elkana prende a prestito dal filosofo Gilbert Ryle e dall’antropologo Clifford Geertz) ha come oggetto il pensiero scientifico in tutta la complessità dei suoi linguaggi e delle sue concatenazioni. Descrivere questa complessità significa mettersi nelle condizioni di stabilire connessioni fra teorie scientifiche, fra culture, fra pratiche discorsive, considerate come ambiti comunicanti e traducibili. Nella sua valorizzazione della ragione inventiva, Elkana utilizza discipline e opere differenti. Tra i suoi punti di riferimento alcuni contributi della ricerca antropologica (da Clifford Geertz aMary Douglas) assieme alla lezione di importanti storici della scienza (da Thomas Kuhn ad Alexandre Koyré) e di un filosofo come Ludwig Wittgenstein. Elkana utilizza il Wittgenstein delle Osservazioni filosofiche, oltre ai suoi seguaci Suppe, Hanson e Toulmin: in quest’ambito, il contesto della scoperta, con buona pace di Popper, assume un ruolo sempre più importante e la scienza, conseguentemente, viene concepita come un processo che si svolge, per dirla con Suppe, «all’interno di una Weltanschauung o di una Lebenswelt». E «sotto questo profilo», sono parole di Suppe, citato da Elkana, «i compiti dei filosofi della scienza coincidono con quelli dello storico e del sociologo della scienza». Porre attenzione alle «condizioni» della ragione non significa, come ha sostenuto con rigida faziosità Thomas Nagel, «screditare gli appelli all’oggettività della ragione». Significa invece assegnare ai differenti regimi di verità, che si diversificano nel tempo e nello spazio, un duplice statuto: conoscenze oggettive e al tempo stesso conoscenze storiche che si sviluppano entro precise condizioni sociali, culturali, psicologiche eccetera. Paradossalmente, chi nega la co-appartenenza delle due dimensioni – quella oggettiva e quella storica – finisce, tout court, per screditare la possibilità stessa di una storia delle scienze. Nessuno può negare il fatto che «la ragione», come scrive Nagel, pretenda di «offrire un metodo per trascendere ciò che è semplicemente sociale o semplicemente personale». Con un inevitabile corollario, che Nagel non potrà mai sottoscrivere: questa «doppia trascendenza» si sviluppa sempre a partire da precise «condizioni », e perciò le sue modalità saranno necessariamente diversificate nel tempo e nello spazio. Anche Larry Laudan[6], polemico verso le implicazioni scettiche e reazionarie della tesi di incommensurabilità, si muove all’interno di una nuova e più ampia concezione della ragione scientifica. Questa prospettiva gli permette di storicizzare i due modelli (two models, 1981), i due grandi poli tradizionali della spiegazione scientifica: quello induttivo e quello ipotetico-deduttivo. Lo si sa: i two models evocati da Laudan sono entrambi necessari allo scienziato. Come fa notare con fine e profonda ironia Ian Hacking (2000), «nella vita dello scienziato le due concezioni della pratica scientifica sono almeno binoculari, e si sa che abbiamo imparato a usare due occhi molto tempo fa». Spiegando il passaggio storico da un modello all’altro, Laudan sostiene che un’attenzione specifica al lavoro concreto e quotidiano degli scienziati – più di qualsiasi riferimento al dibattito tra i filosofi – ci permette di capire perché in certe fasi e in certi settori diventa dominante uno dei due tipi di ragionamento scientifico. Contestualizzare le opzioni, non rimanendo esterni ma entrando in medias res, calandosi dentro le articolazioni specifiche della ricerca. Questo rappresenta un fertile aspetto del lavoro di Laudan. Il secondo aspetto, quello più discutibile, che convive con il primo, implica un atteggiamento normativo da parte dell’epistemologo: una sua sterile pretesa di diventare l’arbitro della razionalità, cioè colui che è in grado di stabilire quale ragionamento scientifico può essere considerato corretto. Si tratta di una pretesa patetica e irrealizzabile, soprattutto se si presume di poter esercitare questa funzione di arbitraggio collocandosi all’interno dei contesti della ricerca. Nell’ambito della costruzione di un’epistemologia clinica – di un’epistemologia interna – applicata alla psichiatria, la ricerca del percorso scientificamente corretto non può non essere una ricerca corale, lontana da qualsiasi atteggiamento normativo e prescrittivo da parte dell’epistemologo. Due mosse di Laudan, strettamente collegate tra di loro, sono comunque assolutamente apprezzabili: contestualizzare e storicizzare le opzioni, mettendo a fuoco le loro radici sia all’interno della ricerca scientifica militante sia all’interno di ambiti più ampi e diversificati. Di seguito si propone una sintesi dei nuclei essenziali della nuova qualificazione del concetto di scientificità: gli oggetti dell’osservazione sono complessi; sono influenzati da molteplici variabili; sono isolabili dai loro contesti solo per comodità di osservazione; “esistono” in rapporto a specifici vertici teorico-metodologici e all’interno di specifiche culture. Le indicazioni metodologiche relative ai principi citati riguardano: definire in modo non riduttivistico l’oggetto; individuare il più ampiamente possibile le variabili che lo compongono e ne influenzano il funzionamento; mettere in relazione gli elementi o parti di un insieme tra loro, con l’insieme che costituiscono e con il più ampio contesto in cui sono inseriti, rovesciando la logica dell’isolamento propria del metodo sperimentale classico; usare la logica e/e invece della logica o/o, in un ribaltamento della logica della disgiunzione del metodo sperimentale classico, agendo invece per connettere ipotesi e modelli differenti, verso una visione integrata delle molteplici sfaccettature della realtà; sottoporre a osservazione principi e modalità dell’osservare, la relazione tra osservatore e osservato e lo stesso soggetto osservante; procedere come se le variabili necessariamente “distinte” fossero effettivamente rappresentative dell’oggetto di analisi; accettare il criterio che la ricerca definisce verità molteplici, connesse agli specifici dispositivi di osservazione adoperati; aprire al controllo intersoggettivo poiché la verità scientifica e clinica poggiano sull’intersoggettività, e cioè sull’accordo della comunità scientifica e professionale, anch’esse socialmente e culturalmente determinate; privilegiare il concetto di connessione tra i fatti rispetto a quello di causa; studiare ed esplicitare il dispositivo di osservazione – set(ting) in psicoterapia – costruito per visualizzare i dati che poi verranno studiati. Grazie quindi a queste nuove coordinate è possibile ridisegnare un nuovo concetto di scientificità, nel contesto del quale possono essere compresi lo studio scientifico di “oggetti qualitativamente complessi” come nel caso della psicologia. In merito alla logica che guida la ricerca, nel 1969 Rapaport lamentava l’esistenza di “una teoria singola per singolo metodo”, ovvero il fatto che un ricercatore divenisse schiavo del metodo utilizzato, sviluppando una teoria in grado di prevedere soltanto i fenomeni che era possibile mettere in luce con quel particolare metodo o con uno strettamente affine[7]. Oggi è molto più chiara la necessità di costruire approcci multimetodo di ricerca, ovvero di disegni che prevedano l’utilizzo di strumenti di matrice teorica diversa, per poter confrontare i rispettivi risultati (secondo la logica e/e). Senza mai in ogni caso perdere di vista il “come se”, ovvero la consapevolezza che il metodo adoperato da una particolare prospettiva di ricerca coglie solo alcuni aspetti e che altri metodi e altre impostazioni ne coglierebbero altri, superando la mera accettazione delle differenze di metodo per avviare un confronto serrato, cercando eventuali connessioni e relazioni tra le ipotesi differenti, piuttosto che cercare di affermarne una sull’altra. La logica della connessione vale anche per il rapporto tra le diverse discipline, le diverse teorie dentro una disciplina e i relativi oggetti di osservazione. In quest’ottica si mostra l’utilità di connettere l’antropologia con la biologia, la filosofia, la sociologia e la psicologia, in un continuo dialogo tra gli esponenti dei diversi indirizzi di studio. Dai più recenti studi nei vari campi è venuto alla luce come le antiche dicotomie mente/corpo, individuo/gruppo, mondo interno/esterno, biologico/culturale, conscio/inconscio possano rivelarsi fuorvianti e parziali. La ricerca gruppoanalitica rappresenta un esempio particolarmente interessante di un percorso di questo tipo. Ma si pensi anche alle ricerche di Edelman (1992), Stern (1985, 1995), Bebe e Lachmann (2002), Fonagy, Gergely, Jurist e collaboratori. E ancora, dalla ricerca psicologica emerge in maniera inequivocabile come sia impossibile isolare il soggetto dal contesto con il quale è in relazione. Anzi, è proprio la relazione caratterizzarsi come lo specifico oggetto di indagine in grado di aiutarci a comprendere la fondazione e lo strutturarsi dello psichico. Ma quali sono, infine, le principali conseguenze dell’epistemologia della complessità nell’ambito della ricerca in psicoterapia? Sono evidenti le numerose e insormontabili difficoltà del metodo sperimentale classico in questo campo: basti pensare al tentativo di isolare le variabili a quello di mirare ad una verifica “depurata dalla soggettività” dei partecipanti. Depurare la psicoterapia dalla soggettività significherebbe depurarla del suo stesso precipuo oggetto di indagine. È infatti indubbio che quanto più il lavoro psicoterapeutico si approfondisca orizzontalmente ovvero nella ricerca dei significati affettivo-relazionali e verticalmente cioè nella durata del tempo, tanto meno esso si presta al lavoro di delimitazioni delle variabili. In altre parole, non è possibile, né tanto meno utile utilizzare metodi nati per certi scopi e per certi oggetti e in determinati contesti per studiare oggetti completamente diversi. Queste considerazioni lasciano comunque aperta la questione della valutazione e della scientificità dell’oggetto “psicoterapia”. Già da diversi anni si lavora sulla costruzione di metodologie adeguate all’oggetto e non adattare e costringere questo alle metodologie possedute[8]. L’epistemologia della complessità ha contribuito a reintrodurre, tra l’altro, anche il valore scientifico della ricerca qualitativa: narrativa, osservativa, single case ecc. (Di Nuovo, Lo Verso, 2005; Elliot, 2002; Dazzi, Lingiardi, Colli, 2006).
[1] Cfr. T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Come mutano le idee nella scienza, Torino, Einaudi, 1969.
[2] È utile ricordare – volendo identificare il campo dell’epistemologia – che a tutt’oggi, nel mondo universitario anglosassone, coesistono due significati del termine: uno ristretto, che individua come oggetto dell’indagine la conoscenza scientifica (e in particolar modo le scienze della natura), e uno più allargato, strettamente filosofico, che funziona come sinonimo di teoria della conoscenza. Anche nell’ambito di questo secondo significato, tuttavia, vi è chi definisce l’epistemologia, in termini generali, come teoria della conoscenza e della giustificazione (per esempio Robert Audi), e chi – come Nicolas Everitt e Alec Fisher –, pur muovendosi entro gli ambiti disciplinari della filosofia, privilegia la conoscenza logico-matematica (Cfr. R. Audi, Epistemology, London-New York, Routledge, 1998, e N. Everitt, A. Fisher, Modern Epistemology, New York 1995).
[3] La concezione psicoanalitica della vita psichica non può assolutamente evitare questo terreno di confronto, pena il rischio di “eterizzare” le proprie categorie e di non cogliere la loro specifica inerenza a un contesto sociale e antropologico, per forza di cose mutevole nel tempo e nello spazio. Leach in un testo del 1959 – Rethinking Anthropology – nato come Lettura commemorativa dedicata a Malinowski, rimprovera al suo venerato maestro di avere costruito una teoria antropologica esclusivista, proprio perché troppo legata agli specifici materiali empirici della sua indagine: e cioè le famose popolazioni melanesiane delle isole Trobriand. Potremmo forse dire la stessa cosa di Freud: i suoi materiali empirici – i suoi «trobriandesi» – sono, a ben guardare, gli uomini e le donne del secondo Ottocento.
Un exemplum cruciale, a questo livello, è quello relativo alle forme della paternità. Il complesso di Edipo (cE), a partire da Freud, diventa un asse di riferimento della psicopatologia: nasce come categoria universale, come baricentro di tutta l’antropologia psicoanalitica. La struttura triangolare del cE viene insomma considerata una struttura universale, presente in ogni tipo di cultura, e non soltanto nelle società organizzate attorno alla famiglia coniugale. Bene. Questo è un classico esempio di generalizzazione arbitraria, smentita non soltanto da molti antropologi (a cominciare dallo stesso Malinowski), ma anche da uno sguardo analitico non superficiale sulle forme della paternità nelle società occidentali di quest’ultimo quarantennio. Il padre castrante, separatore, fonte del principio di realtà, matrice del Super-io – autentica architrave del cE – è spesso assente negli scenari familiari dell’Occidente contemporaneo, dove è emersa, come presenza senza dubbio non maggioritaria, ma comunque importante e visibile, la figura del padre accudiente (nella letteratura di lingua inglese, a partire dagli anni ottanta, si è parlato di un nurturing father, o di un care-giving father): una figura che presuppone, tra le altre cose, un superamento dei tradizionali parametri dell’identità maschile, così come si sono storicamente imposti perlomeno fino agli anni sessanta del xx secolo. Questa vera e propria mutazione antropologica dell’identità mascolina e della figura paterna ci costringe a rivedere criticamente la classica triangolazione edipica, così come è stata proposta da Freud: una mutazione – mi permetto di dire – che non ha ricevuto, in ambito psicoanalitico, la dovuta e necessaria attenzione. Risulta rilevante constatare che oggi la produzione di quella che alcuni autori (per es. Ragabulto, 1994) chiamano una frattura rispetto alla coppia originaria madre-bambino possa dipendere, in molti casi, non soltanto dalla funzione del padre (sessualmente e fisicamente inteso), ma da una complessa dialettica tra unione e separazione, che non è più la stessa, rispetto a cent’anni fa, se il padre è care-giving e se la madre, alla pari del padre, è essa stessa portatrice di un principio di realtà. Nei nuclei familiari in cui è presente la figura del care-giving father, il bambino, già nei primi mesi di vita, vive un duplice livello di intimità fisico-affettiva, garantito – anche se, ovviamente, con modalità differenti – da entrambe le figure genitoriali. Questa nuova situazione – una vera e propria rivoluzione antropologica, troppo spesso ignorata nell’ambito delle scienze dell’uomo – dovrebbe costringere la psicoanalisi a una revisione critica di alcune sue categorie basilari e a una maggiore attenzione a quel nesso tra psiche e storia. Insomma, mi sia con sentita una annotazione ironica: è innegabile che l’attuale contesto storico-sociale sia fortemente mutato rispetto ai tempi del fondatore della psicoanalisi. In considerazione di questo profondo mutamento mi pare che i tempi siano abbastanza maturi per “mandare in pensione” il Super-Io, rimanendo quindi aperta la necessità di un profondo rinnovamento teorico-pratico della psicoanalisi.
[4] G. Lo Verso & M. Di Balsi, Gruppoanalisi soggettuale, Milano, Cortina, 2011 pg. 36.
[5] T. Nagel, L’ultima parola. Contro il relativismo, Milano, Feltrinelli, 1999.
[6] L. Laudan, Science and Hypothesis: Historical Essays on Scientific Methodology, Dordrecht, Reidel, 1981; Id., Beyond Positivism and Relativism: Theory, Method and Evidence, Boulder, Westview, 1996. Cfr. inoltre I. Hacking, La natura della scienza. Riflessioni sul costruzionismo, Milano, McGraw-Hill Libri Italia, 2000.
[7] È stato Kant infatti ad insegnarci che facciamo scienza nel momento in cui ritroviamo nella natura ciò che noi stessi vi abbiamo posto. Dal punto di vista della psicologia clinica, ogni teoria è stata generata a partire dalla concreta situazione terapeutica: a strutturare in ultima analisi l’organizzazione concettuale di ogni modello è stata l’esperienza del setting, il vivo rapporto con l’altro. Da qui la necessità di ridare un primato epistemologico al lavoro clinico, pensandolo in profondità e modellando su di esso l’elaborazione teorica, per evitare l’astrattezza di una ragione generalizzante e ritrovare la densità di un’esperienza viva e insieme colta da una razionalità che appartenga esclusivamente e specificamente alla relazione terapeutica (cfr. F. Perls et al.,Teoria e pratica della terapia della Gestalt, Roma, Astrolabio, 1971).
[8] La “scientificità del proprio tema” di cui parlava Heidegger (cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, Torino, 1969) non sopporta e non ha d’altronde bisogno di un metodo prestabilito da applicare senza differenza alcuna ad ogni situazione, ma si definisce in relazione alla forte idea aristotelica: «l’oggetto stesso deve determinare il metodo della sua comprensione» (cfr. H.-G.Gadamer, Il problema della coscienza storica, (a cura di V. Verra) Napoli, Guida, 1969, pg. 24).