Quando il collega Guido Medri mi ha chiesto di scrivere una riflessione inerente alla giornata commemorativa su Gaetano Benedetti ho pensato che l’unica e sola traccia linguistica che avrei potuto delineare sarebbe stata caratterizzata da ciò che il mio ascolto emotivo aveva sperimentato all’interno dell’accogliente stanza milanese, una specie di area transizionale formatasi dall’incontro tra il pensiero clinico di Benedetti e i ricordi ad esso legati; un disegno empatico tracciato da coloro che insieme a lui e al suo fianco hanno sperimentato quanto una persona, un uomo d’altri tempi, profondamente e precocemente minato dalla sofferenza, sia riuscito a ri-disegnare contorni e contenuti di quell’area relazionale analitica caratterizzata dal susseguirsi di oscillazioni emotive mortifere, dolorose, ma al contempo creative e “affamate” di vitalità.
Ho percepito gli interventi esposti come un delicato, impolverato, emotivo album di ricordi composto da immaginarie pagine lentamente e affettivamente sfogliate, fotografie in bianco e nero sparpagliate all’interno di un collage di ricordi personali unite a innumerevoli disegni prodotti dai pazienti; un gioco di colori e ombre in grado di sollecitare alla vista e alla mente di coloro che lo stavano osservando i contorni di quell’affettivo paio di occhiali somiglianti a quelli di Benedetti, occhiali che dal mio vertice osservativo rappresentavano quel suo modo altro di osservare la sofferenza e il dolore all’interno di una relazione analitica.
Una relazione costantemente volta verso la co-costruzione di una dimora affettiva entro cui sostare, sperimentare, significare, attendere e sentire lasciandosi toccare da quegli imprevedibili e, alle volte, per nulla semplici movimenti psichici che una mente fortemente spaventata sa mostrare.
Un “desiderio d’incontro” che Benedetti sembrava aver cucito addosso come un abito finemente confezionato all’interno di quella vita affettiva familiare siciliana colorata dal suo giovane e curioso sguardo che “spiava” il mondo affacciato ad una finestra che diveniva, all’interno del proprio psichismo, un prezioso e fondamentale scorcio sulle relazioni che, seppur in maniera ancora sfuocata, avrebbero rappresentato e caratterizzato la vita e gli incontri tra mondi emotivamente inscindibili.
Un bambino bisognoso e desideroso di relazioni reali o fantasticate, incontri che nell’età adulta lo hanno obbligato ad incontrare la sua malattia, un’esperienza che affacciatasi a quella finestra interna gli ha impedito di volgere lo sguardo altrove, costringendolo ad osservare, in largo e in lungo e in profondità, tale incontro.
E, forse, proprio quella finestra affacciata sul mondo esterno e citata dallo stesso Benedetti nel libro “Benedetti e Cremerius: il lungo viaggio” a cura di Susanna Kuciukian, è stata uno tra i primari strumenti affettivi che lo hanno avvicinato al proprio psichismo aiutandolo ad imbastire e assemblare, nel tempo, quella personale finestra interna; uno sguardo emotivo che lo ha aiutato e accompagnato durante l’intero arco della propria esistenza caratterizzata da un costante e instancabile lavoro di trasformazione personale.
Un continuo lavoro di elaborazione e trasformazione affettiva volto ad osservare gli infiniti movimenti relazionali, un’apertura attraverso la quale ricercare sempre nuovi e creativi sguardi che sapessero, in qualche modo, sollecitare affettività e curiosità clinica.
Mi rappresento lo sguardo clinico di Benedetti, nell’incontro con la propria sofferenza, come un abile architetto affettivo che ha saputo costruire un immaginario ponte su cui far scorrere innumerevoli riflessioni, emozioni, pensieri e relazioni tra conoscenze neurologiche e analitiche che lo hanno accompagnato all’interno di personali luoghi psichici consentendogli la messa a punto di qualcosa che definirei “straordinaria vitalità creativa”.
Un incontro tra un prima, un durante e un dopo malattia divenuto trampolino da cui, forse, personalmente e professionalmente ri-partire potendo affettivamente e clinicamente usare l’unione che esiste tra forzate difficoltà psichiche e fisiche e annesse emozioni.
Timori e desideri costantemente affacciati a quell’unica vitale finestra attraverso la quale rintracciare le proprie radici affettive, prioritarie e vitali relazioni che in determinate faticose situazioni diventano fondamentali lanterne capaci di illuminare oscuri anfratti rimasti assopiti.
Ecco dunque, l’elaborazione e la creazione di un trattato, descritto da coloro che lo hanno avvicinato, un capolavoro caratterizzato da magistrali pagine, forse, pensate e scritte da Gaetano Benedetti come se l’incontro con quella “corporeità altra” lo avesse in maniera “nuova” avvicinato ad esplorare, a ritroso, l’inestimabile e intricato mondo neurologico e psichico racchiuso in ciascun essere umano, un intricato e sconfinato luogo apparentemente simile negli esseri umani, ma al contempo straordinariamente unico e ancorato all’interno di personali storie caratterizzate da nomi e cognomi.
Un capolavoro medico-clinico scaturito e smatassato, forse, anche da quel complicato e inaspettato incontro con la difficoltà psichica e la limitazione fisica che abitano uno stato di malattia, un’esperienza emotiva che traccia un solco incancellabile, una linea che somiglia a quella che delimita l’orizzonte, ma differentemente da essa delimita terre non appartenenti al mondo esterno, ma al proprio mondo affettivo.
La malattia può scomodare profondamente gli impalpabili vissuti affettivi di vicinanza e distanza insiti all’interno delle primarie relazioni affettive, aggiustamenti emotivi che, forse, Benedetti aveva cominciato a ricercare attraverso i curiosi sguardi giovanili che posava sulle relazioni ambientali che lo circondavano, incontri che sentiva come preziosi momenti di condivisioni emotive.
Non conoscevo Dorotea, sua figlia, ed è stato emozionante ascoltarla mentre ad alcuni di noi raccontava simpatici, affettivi e malinconici ricordi di suo padre e di sua madre; brevi affettive pennellate rivolte ad una coppia che ho nitidamente immaginato abbracciata all’interno di una vita vissuta e affrontata stando insieme all’interno di quella relazione creatasi dall’incontro di due individualità, forse, con il primario bisogno/desiderio di sentire le emozioni, oltre che di viverle.
Una donna, la mamma di Dorotea, che, penso, abbia saputo essere e stare al fianco di Benedetti sempre; una donna che ha potuto trasmettergli quella concreta e costante vicinanza affettiva che a Benedetti, forse, è servita per addentrarsi nel profondo viaggio verso le antiche vicinanze affettive, alle volte, sperimentate eccessivamente severe per la propria curiosa vitalità.
Un sentire e una vitalità profondamente radicate in quelle radici affettive che Benedetti fino alla sua morte ha tenuto vicino a se, anche attraverso quella sua tazza di latte sempre accompagnata dai dolcetti obbligatoriamente siciliani divenuti, negli ultimi momenti della propria esistenza, la dolce e calda cena; una cena che probabilmente sapeva riportarlo a quelle sue origini, a quella sua terra, a quei sapori, a quegli odori, a quei ricordi affettivi che avevano caratterizzato e colorato l’intera e vitale esistenza individuale e famigliare.
Uno stare-con affettivo sul quale Benedetti poteva affettivamente contare, una possibilità relazionale che sapeva sdoganare all’interno del proprio setting terapeutico nell’incontro con i pazienti; un personale stare-con che all’interno di quella terra terapeutica, spesso abitata da profonde e gravi sofferenze psichiche, sapeva creare nuovi elementi affettivi scaturiti all’interno della relazione tra il sentire di Benedetti e il sentire del paziente.
Benedetti, un uomo, un terapeuta in costante allenamento emotivo, un allenamento rivolto verso la possibilità di lasciarsi toccare e invadere dai dolorosi frammenti psichici, “imparando” a non rimanerne preda; un buon contenitore che sentendo le emozioni sapeva poi come restituire al paziente elementi separati, elaborati, bonificati e funzionali a poter essere usati.
Un contenitore analitico che, forse, inconsapevolmente aveva cominciato a formarsi precocemente affacciato a quel mondo giovanile relazionale in parte sentito solitario, ma al contempo impreziosito dalla sua vivace curiosità nei confronti della vita e delle esperienze ad essa connesse, una spinta vitale tesa verso contenitori e contenuti emotivi “altri” che stimolassero i personali contenitori e contenuti affettivi; penso alle sue poesie come a compagni di viaggio, contenitori di emozioni e al contempo contenuti delle proprie emozioni, parole scaturite da quella giovanile ricerca emotiva volta a lasciarsi raggiungere e “invadere” dalle emozioni insite all’interno delle relazioni.
Uno stare-con ricordato in maniera differente dai suoi allievi-colleghi, parole emotive e cognitive che hanno saputo creare un coro di pensieri che ha piacevolmente toccato la mia immaginazione creando frammenti di vita fotografati da differenti vertici osservativi.
Ecco, quindi, comparire sullo scenario del mio psichismo un elegante e professionale Maestro emotivamente attento a “salvare” i propri “allievi” catapultati all’interno di un’empasse clinica nel confronto con altri Maestri, un analista, un uomo, un confidente, un compagno di viaggio che durante i rientri effettuati in macchina per fare ritorno a casa “accettava” la velocità di guida di colui che, seduto al volante della propria auto, si dichiarava amante della velocità.
E ancora, un analista che sapeva condividere e accogliere nella propria casa i colleghi che sentivano di divenire affettivamente parte di quel nucleo familiare allargato, un analista che, differentemente da Cremerius, preferiva essere anticipatamente informato rispetto ai casi che si sarebbero discussi all’interno delle supervisioni, una modalità d’essere che, forse, ci accompagna nuovamente a quelle sue origini, alla sua terra siciliana, a quel suo elegante mondo antico, alle volte sentito eccessivamente controllato, ma elasticamente modulabile attraverso riflessioni e pensieri relazionali.
La sua voce, la sua mimica, la sua elegante compostezza e professionalità mi hanno rimandata al bambino Benedetti, ad un bambino accudito, amato, forse, da un affetto eccessivamente austero e solitario, un bambino curioso e al contempo riflessivo, assetato di relazione, ma al contempo accoccolato tra le sue emotive e toccanti poesie; un bambino che ha osservato il proprio divenire adulto senza mai perdere di vista i primari sguardi riuscendo a creare sinergia tra vissuti riflessivi, controllati, nobili, vitali, giocosi, curiosi e scherzosi.
In dirittura d’arrivo penso ai suoi figli e alla loro scelta di lasciare ad un Istituto di Perugia tutto il materiale clinico del loro padre, un mondo clinico e personale che Benedetti ha lasciato a tutti quanti noi, un lascito che racchiude a mio modo di sentire tutta la vita di Gaetano Benedetti, un potersi separare che diviene la sola e unica capacità emotiva di mantenere per sempre ciò che è stato creato e abitato.
Un movimento affettivo che con tutta evidenza apparteneva a Gaetano Benedetti, un analista, forse, da sempre alla ricerca di quell’omeostasi tra vicinanza e distanza affettiva, clinicamente ed emotivamente attratto dalla costante oscillazione tra bisogno di vicinanza e difesa da essa, un’esistenza emotiva in costante movimento che gli ha permesso di creare, all’interno delle relazioni terapeutiche, fondamentali movimenti affettivi relazionali capaci di avvicinare e contenere pazienti molto gravi.
Chiudo gli occhi e l’immagine che si crea nella mia mente è costituita da quel suo paio di occhiali posati sul suo volto, un volto che sapeva silenziosamente guardare e ascoltare, un volto racchiuso nei lineamenti di sua figlia Dorotea che, silenziosamente ed elegantemente, ha osservato e ascoltato i ricordi di quanti hanno potuto guardare il viso di suo padre, un padre, un uomo, un analista che ha saputo indossare innumerevoli occhiali affettivi.