In novembre del 2014 sono usciti due miei libri, L’immaginario e il diavolo e Scegliere la dipendenza, entrambi in un’edizione nuova non tanto nella veste quanto nei contenuti, con delle modifiche significative rispetto alle prime edizioni.
Nel lavoro di revisione, rivolto principalmente a L’immaginario e il diavolo per proporlo insieme a Scegliere la dipendenza come due espressioni di un discorso unitario, mi sono imbattuto in alcuni aspetti del mio modo di scrivere e di cercare di trasmettere quello che penso, che mi hanno indotto a una riflessione di fondo.
Questa riflessione è diventata una postilla a Scegliere la dipendenza, in cui esplicito questo mio radicale cambiamento di punto di vista, e ritengo opportuno proporla ai lettori di Pratica Psicoterapeutica perché, come si vedrà, li coinvolge.
Mi sono accorto che parlare del diavolo e della diabolicità della funzione dell’analista mi è congeniale, perché c’è qualcosa che riguarda la mia storia personale che mi porta a gustare in modo particolare il piacere di fungere da elemento di rottura rispetto a un sapere costituito, del quale vedo più facilmente gli aspetti negativi, arrivando a volte a infierire su ciò che è istituito o a radicalizzare in senso distruttivo un discorso che parte invece per costruire. Constatare questo fatto mi ha permesso di riproporre il discorso della diabolicità in un modo più morbido, in sintonia con l’idea, centrale nel libro, di un immaginario per l’appunto “morbido”, che sappia entrare in un dialogo che non sia né prescrittivo né fonte di spaesamento; al tempo stesso ho trovato anche in Scegliere la dipendenza una tendenza alla radicalizzazione di discorsi che oggi penso di riuscire a vedere in modo nuovo, riconoscendo l’esasperazione di idee che, così come sono state proposte, possono portare a produrre proprio quello che intenderebbero superare.
Questo è accaduto in modo particolare in relazione a un ambito di discorso che ho ripreso da lavori proposti inizialmente su Pratica Psicoterapeutica, e ciò mi ha indotto a proporre in questo contesto le riflessioni che seguono, come sviluppo autocritico di idee che ho esposto in articoli comparsi nei numeri scorsi[1].
Parlo di ciò che si è mosso intorno al concetto di “narcisismo sano”, con il rifiuto, da parte mia, di una possibilità per l'individuo di rispecchiarsi in modo costruttivo nella propria immagine, portando conseguentemente a ritenere che il costituirsi della dimensione del “noi” debba significare il dissolvimento del soggetto. In realtà non ho mai pensato una cosa di questo genere, ma rileggendo l’ultima parte di Scegliere la dipendenza mi sono reso conto che in un eccesso di vis polemica mi sono espresso in un modo che rendeva possibile questo fraintendimento. Il discorso sul narcisismo così come l’ho proposto mi è apparso allora come niente più che un “esercizio di stile”, nel quale, partendo dal mito, ho costruito una rappresentazione “forte” in contrasto con uno dei punti fondamentali della psicoanalisi, dove si ha un “modello” di riferimento che fa uso del mito per proporre legittimamente un discorso, che può essere accettato o meno, ma che non può essere rifiutato a priori appellandosi a una sorta di lettura “assoluta” del mito stesso, che chiude il discorso in partenza non addentrandosi così in tutte quelle sfumature dense di significato che invece la lettura riflessiva riesce ad evidenziare, creando un dialogo.
Ho dunque ritenuto opportuno fare ammenda e togliere, in quest’ultima versione di Scegliere la dipendenza, che considero definitiva, tutta la polemica sul narcisismo, rendendomi conto, dopo averlo fatto, che non solo non veniva tolto nulla al discorso nel suo complesso, ma che anzi si apriva un ulteriore spazio di riflessione che ora cerco di offrire a chi legge, a conclusione di questo lungo e “sofferto” percorso.
Scegliere la dipendenza è un’operazione rischiosa, non solo per chi la compie, ma anche per chi è l’oggetto della scelta. Decidere di dipendere da qualcuno e di voler vivere in sintonia con la sua vita può essere l’aprirsi di un mondo meraviglioso di scoperte ma anche il rinchiudersi in un mondo di prescrizioni vicendevoli fatte nella più totale buona fede e, proprio per questo, possibili fonti di colossali fraintendimenti. La dimensione del rispecchiamento nell’altro necessita di uno spazio di rispecchiamento in se stessi che dà la misura della possibilità di condividere. È vero che siamo il frutto della nostra storia, e che dunque l’aprirci verso l’altro ci può portare alla conoscenza di mondi che senza quell’incontro sarebbero rimasti fuori della nostra portata, ma l’idea dell’adesione totale a un “noi” che “deve” essere costruito insieme non fa che costituire un nuovo mondo immaginario, nel quale si instaura un gioco di potere dato dal tentativo inconscio da parte di entrambi (se parliamo ad esempio del rapporto di coppia) di far prevalere la propria idea di “noi” su quella dell’altro.
Non ritengo, con ciò che sto dicendo, di aver fin qui proposto qualcosa di utopistico che si scontra con la realtà della vita; al contrario, ritengo che il “noi” sia un aspetto fondamentale della vita, e che sia possibile arrivarci attraverso un percorso di consapevolezza di sé che non può prescindere dal riconoscersi come individui. Qui riemerge l’idea di “narcisismo sano” come propositiva, non in contrasto, ma addirittura come presupposto per un rispecchiarsi nell’altro che non può partire che da un rispecchiarsi con soddisfazione in se stessi. L’identità del “noi” può costituirsi a partire da un sufficiente senso della propria identità da parte delle persone che lo compongono, mentre non può configurarsi che come un’utopia l’idea di un “noi” in cui ciascuno fonda la propria identità nel rispecchiarsi nell’altro, “pretendendo” che costui faccia lo stesso e instaurando, come s’è detto, un estenuante gioco di potere mosso nel profondo da un’oscura distruttività.
E qui riprendo brevemente il caso di Bruna per portare un nuovo elemento di consapevolezza. La sua capacità di dare senza remore a persone con le quali ha rapporti affettivi anche intensi ma non esclusivi, e di perdere questa capacità in particolare nel rapporto di coppia, appare, alla luce del discorso or ora fatto, leggibile in una nuova chiave. Bruna ha cercato nel suo rapporto di coppia un riscatto dalla percezione squalificata di sé che l’ha accompagnata per tutta la vita. Dopo il fallimento del primo matrimonio, quel suo senso di inadeguatezza si è ulteriormente rinforzato, e il secondo marito “doveva” ridarle un’identità positiva a tutto tondo. Bruna si è sempre data da fare per essere una buona moglie, dichiarando il suo amore e dandolo per scontato come totale e assoluto, sentendo con questo il diritto di “pretendere” una contropartita. Il fallimento del rapporto l’ha fatta precipitare in uno stato di disperazione perché il modo in cui veniva percepita dal marito era ciò che costituiva la sua identità, e adesso si trova a non poter pensare a un futuro in cui ricostruire la propria vita perché le sembra impossibile far ripartire un processo estenuante come quello messo in atto per tutto il periodo del suo secondo matrimonio, sentendosi per di più vecchia e dunque ancor più bisognosa di rispecchiarsi negli occhi di qualcuno che cancelli le parti dolorose della realtà. L’elemento nuovo è l’idea di poter “chiedere” e non “pretendere” l’amore, e rispetto a questo Bruna può trovare aiuto nel guardarsi allo specchio percependo realisticamente la propria immagine e decidendo di “spenderla” nel mondo, senza aspettarsi riconoscimenti trionfalistici e anche accettando la possibilità di un riconoscimento diverso rispetto alle proprie aspettative.
[1] “Scuola, lettino e contratto narcisistico. Io la penso così”, Pratica Psicoterapeutica n. 3 - 2/2010.
“Narcisismo sano?”, Pratica Psicoterapeutica n. 6 - 1/2012.
“Amae nel binomio necrofilia-biofilia. Un parallelismo tra il pensiero di Takeo Doi e quello di Erich Fromm”, Pratica Psicoterapeutica n. 7 - 2/2012.
“Il narcisismo tra idem e autòs”, Pratica Psicoterapeutica n. 7 - 2/2012.
“Amae nella clinica”, Pratica Psicoterapeutica n. 8 - 1/2013 (a questo lavoro è stato tolto il lucchetto con l'autorizzazione della paziente, per permettere ai lettori di questa postilla di coglierne il pieno significato).