Pratica Psicoterapeutica

Il Mestiere dell'Analista
Rivista semestrale di clinica psicoanalitica e psicoterapia

NUMERO 11
2 - 2014 mese di Dicembre
CLINICA
RIFLESSIONI SUL PRESENTARE UN CASO CLINICO
di Alberto Lampignano

Ho letto i casi clinici descritti da Amelia Lenti e da Alfredo Civita e commentati da Guido Medri e da Giorgio Meneguz.

Ho fatto, come sempre, un po' di fatica a seguire e a immaginare la situazione clinica. Può essere, come credo che sia spesso, un mio limite. Se fosse solo così, non scomoderei i colleghi con questo mio scritto. Devo confessare che i casi clinici solitamente li leggo come “prova” degli assunti teorici che l'autore dell'articolo o della relazione propone ai lettori o agli ascoltatori. Li considero come un corollario, a volte di poca importanza rispetto all'assunto o agli assunti che si vuole proporre.

Nonostante sia per lo più refrattario, quando sono io a proporre una situazione clinica, a “manipolare” i contenuti della situazione clinica, devo ammettere che la trasposizione dell'oralità nella scrittura mi costringe ad aggiustamenti che spesso mi rendono insoddisfatto, sia perché non mi riesce di rendere l'atmosfera sostanziale della relazione, sia perché nel tentativo di renderla il più aderente possibile agli avvenimenti, distorco o semplifico ciò che è accaduto nella stanza d'analisi. Insomma, per dirla in breve, considero la narrazione del brano clinico come uno strumento persuasivo, ma insoddisfacente, per sostenere la tesi che desidero dimostrare.

Siccome non credo basti affermare da parte mia la difficoltà o forse l'impossibilità di comunicare in modo soddisfacente quanto avviene nella relazione terapeutica, cerco di avanzare qualche considerazione che la corrobori.

Penso che tutti possiamo essere d'accordo che tra paziente e analista avvengono tante più “cose” di quelle che riusciamo ad osservare. Finalmente Jacobs con il concetto di enactment ha sfatato il mito dell'analista osservatore neutrale che coglie il senso vero delle comunicazioni del paziente. Anzi nel concetto di enactment è affermato senza esitazioni il concetto secondo cui è lo stesso psicoterapeuta a immettere nella relazione contenuti inconsci, i quali incontrando quelli del paziente danno luogo ad “agiti”, a difficoltà relazionali. Solo se l'analista è proclive a mettersi in discussione si può giungere a scoprire le dinamiche in atto. Altrimenti, come in effetti succede,  l'analista coglie solo parzialmente il significato dell'esperienza, distorcendola evidentemente, poiché non può non proiettare sul paziente le sue problematiche inconsce.

Mi si dirà che Pratica Psicoterapeutica con la presentazione del caso clinico vuole solo promuovere delle discussioni per affinare la nostra competenza analitica. E questo è un obiettivo commendevole. Ma è importante tenere presente qualche aspetto della questione che può sfuggire. Innanzitutto mi sembra che solitamente il commentatore ritiene di “vedere” meglio dell'analista le dinamiche narrate (non è il caso di Medri che alla fine del suo commento, sinceramente e scientemente, ammette: “non mi riesce di capire”).

Lo stesso “errore”, a mio parere, viene operato nella situazione di supervisione, dove si suppone che il supervisore esperto colga l'essenza psicodinamica meglio, più correttamente – o addirittura “come le cose stanno” – rispetto all'analista. Solitamente il supervisore – come anch'io ho sperimentato – è attento alle dinamiche del paziente, certo quelle che intercorrono con l'analista, ma il focus è sul paziente. Nella mia pratica di supervisore il focus lo indirizzo sull'analista in supervisione, sulle sue difficoltà, su come lui sente il paziente, perché, secondo me, il supervisore può sapere “qualcosa di appropriato” solo in ciò che sperimenta direttamente. Il supervisore non saprà mai neppure approssimativamente cosa è “realmente accaduto” in una seduta tra paziente e analista. Il supervisore può solo sapere qualcosa dell'analista, le sue difficoltà con un determinato paziente, scoprire insieme a lui quali sono i problemi e gli ostacoli e così permettere all'analista di “riposizionarsi” dentro se stesso e nella stanza d'analisi.

Mi sono soffermato sulla situazione di supervisione, perché se il supervisore non ha un accesso privilegiato alla conoscenza del paziente, ma si trova in una situazione di maggior distanza dell'analista stesso, a maggior ragione credo che esista una distanza di difficile percorribilità tra l'analista che espone per iscritto un suo caso clinico e il lettore.

Ciò non significa che dissento rispetto a una iniziativa come quella di cui stiamo parlando. Penso che se siamo consapevoli dei suoi limiti, allora può diventare anch'essa preziosa. Partendo da un vertice osservativo che non ostracizzi i limiti, che ho cercato sinteticamente di evidenziare, ma li contempli, allora possono sorgere pensieri che, attraversando la distanza, si possano situare più vicino all'oggetto osservato, e creare nuovi pensieri – non verità, né una migliore conoscenza – che possano concorrere ad arricchire la conoscenza e a dilatare la nostra disposizione a sentire e a conoscere.

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