Meneguz ci ha voluto rendere partecipe delle sue esperienze come infermiere psichiatrico. Ne è uscito uno scritto emozionante. Dobbiamo ringraziarlo per averci riportato a un periodo della storia della psichiatria facendoci rivivere, attraverso un’esperienza sul campo in qualità di operatore, quanto fascino ed interesse suscitasse in noi la dimensione della follia. Qualcosa del genere era già accaduto in Inghilterra (vedi Laing e Cooper) e in Francia (vedi Racamier), ma si trattava di esperienze del tutto isolate che avevano un valore soprattutto indicativo; e anche negli Stati Uniti in maniera ben più strutturata,con l’esperienza ad esempio di Chestnut Lodge, ma l’approccio era stato assolutamente tecnico, basato sulla visione psicoanalitica. La risposta in Italia, a partire dalla “Istituzione negata” di Basaglia, aveva invece un carattere politico e intendeva sovvertire l’intero assetto istituzionale. Si trattava di “far saltare le mura del manicomio”, di portare la cura sul territorio, di combattere “la camicia di forza del farmaco” e affinché questo avvenisse occorreva un passaggio di consegne, dal medico psichiatra di formazione accademica all’operatore psichiatrico (fosse pure uno studente) che sapesse portare una visione critica dei rapporti di potere che avevano alienato la persona e di cui la psicosi era la più diretta delle testimonianze.
Nel ’68 ero già specialista in Neuropsichiatria e mi sono ritrovato proprio nel mezzo della contestazione. Ero stato nel manicomio giudiziario di Castiglione delle Stiviere e mi ero dimesso dopo qualche mese nauseato dal sadismo dell’istituzione. Ricordo ad esempio di un giovane paziente che, legato al letto da giorni, era riuscito con la mano libera a levare alcuni fili di metallo dalla rete su cui giaceva e li aveva ingeriti in un estremo tentativo di mostrare la sua disperazione. Il primario, a suo parere a scopo educativo, aveva prescritto altri dieci giorni di contenzione. Avevo lavorato nella clinica universitaria di Cazzullo (dove ho conosciuto Ferruccio Cabibbe) e mi consideravo senz’altro una vittima della logica accademica. Ero stato poi assunto dall’ospedale psichiatrico di Limbiate (il famoso Mombello) e, tanto per cambiare, ero entrato in conflitto con l’assessore Perruzzotti (era un politicante, peggio di un professore universitario). Ero poi entrato in servizio presso l’ospedale Maggiore e lavoravo all’Origgi (l’altrettanto famoso Neurodeliri), altrimenti chiamato Guardia Psichiatrica Prima, un reparto incredibile che avrebbe davvero meritato uno dei reportage che si fanno adesso, da mostrare in televisione. Basti dire che per raggiungere gli studi medici la mattina, scavalcavo le barelle in corridoio. Non mi mancava quindi la voglia di cambiare. Ad un congresso di psichiatria, subito dopo Cazzullo, uno studente aveva chiesto il microfono e dichiarato che poiché tutto si riduceva ad una malattia organica, il prossima congresso avrebbe dovuto avere come titolo: “ La Psichiatria e la merda”. Che divertimento sentirlo; la contestazione, quella era la strada da seguire! Erano tempi straordinari, si era in uno stato di euforia, pareva che tutto fosse possibile, avevamo il mondo a portata di mano. Ero ormai sempre più decisamente orientato a sinistra. Facevo parte del Manifesto, avevo dato vita ad un gruppo con Spinella ed anche Rostagno e si leggevano Marx e Sartre. Curioso e assetato di nuove esperienze ero stato a Gorizia prima e ad Arezzo con Pirella poi. Conoscevo Basaglia, Pirella, Jervis, Vieri Marzi e consideravo Paolo Tranchina, il direttore dei Fogli di Informazione, il migliore dei miei amici. C’ erano quindi tutte le premesse per una mia piena adesione al fiorire del nuovo movimento anti istituzionale. Dopo un primo momento di entusiasmo invece, i miei dubbi non facevano che aumentare. In particolare non tolleravo le tante riunioni, i tanti collettivi dove ci si chiariva tutto tranne quello che si doveva fare con il paziente; registravo con crescente impazienza una scollamento sempre più irritante fra l’ideologia del movimento e la pratica clinica. Per giunta venivo considerato con un certo sospetto perché avevo incominciato un’analisi personale. A titolo esemplificativo ricordo il congresso mondiale di psichiatria organizzato da Psicoterapia e scienze umane dove Benedetti era stato dileggiato ed attaccato per aver dichiarato che lo psicotico, se agitato e violento, per essere curato va prima contenuto al letto. Che potevo fare, se non essere d’accordo con il professore.
Non è di questo tuttavia che voglio parlare. Intendo invece anch’io, seguendo le orme di Cabibbe e Meneguz, entrare nel vivo della mia esperienza come operatore psichiatrico; a partire da quello che è accaduto con l’attuazione della 180. Mi ricordo come fosse ieri : era un Sabato pomeriggio e Goldwurm decideva di operare secondo la legge e chiudeva gli ospedali psichiatrici di Milano ai nuovi ingressi. La prassi consueta, operativa da decenni, era che il paziente psichiatrico veniva visitato nel pronto soccorso dell’ Ospedale Maggiore e del Policlinico. In entrambi questi ospedali operava un reparto di psichiatria, chiamati Guardia Prima e Guardia Seconda, gli unici in Lombardia e forse in tutta Italia. Lo psichiatra disponeva di varie opzioni a seconda dell’urgenza e soprattutto della gravità o meno del caso. Poteva rimandare a casa il paziente con una terapia o meno, trattenerlo per breve tempo nel Pronto Soccorso (se si trattava ad esempio di un forte stato di ansia o di un tentato suicidio con conseguenze mediche o chirurgiche ecc.), ricoverarlo nel reparto di psichiatria dell’ospedale (quello che ho appena descritto) oppure inviarlo agli ospedali psichiatrici. La stessa cosa accadeva al Policlinico, in Guardia Seconda). Quest’ultima decisione si imponeva per definizione nel caso si trattasse di un ricovero coatto, contro la volontà del paziente. A partire da quel giorno i pazienti inviati in O.P. (Mombello e il Paolo Pini) ci tornavano indietro ed era quindi del tutto inutile mandarceli. Tutto questo avveniva senza che nessuno di noi se lo aspettasse, senza nessuna riunione preparatoria, senza un minimo di preparazione sul piano organizzativo, senza che il primario neppure ce ne avesse parlato, senza che l’ospedale fosse avvertito. Al medico del pronto soccorso, cui non era pervenuta alcuna direttiva in proposito, non restava quindi che inviare il paziente nel reparto dell’ospedale, un reparto che fino ad allora aveva ospitato solo la cosiddetta piccola psichiatria (crisi di panico, depressioni, tentati suicidi, intossicazioni da alcool, stati di demenza ecc.), praticamente aperto (c’era una porta a vetri con una semplice serratura), ospedaliero per l’appunto, già strapieno, assolutamente privo delle strutture adatte (le stanze erano a sei letti, si mettevano barelle nel corridoio, i servizi igienici erano improponibili ecc), con un personale infermieristico del tutto impreparato ecc.. Ad aggravare le cose, nel giro di qualche giorno,anche gli altri O.P. seguivano la stessa procedura, rimandavano il paziente indietro. Ne è conseguito che i pazienti di tutta la regione non disponevano più di nessun ospedale che li potesse ricoverare e venivano tutti inviati a Milano nelle due Guardie psichiatriche, ossia,come dicevo, in quelli che erano gli unici reparti di psichiatria situati in una struttura ospedaliera che non fosse l’ospedale psichiatrico. Lo so che sembra inverosimile, ma è andata proprio così. Vi lascio immaginare le conseguenze. È successo il finimondo, nel giro di qualche giorno siamo tutti impazziti (Un collega, fuor di metafora, ha avuto un crollo psicotico, e abbiamo dovuto curare pure lui). Litigi, botte, colluttazioni, gesti autolesivi, grida, comportamenti osceni,fughe. Un incubo, sembrava di essere precipitati in una sorta di girone dantesco. Non entro nei dettagli. Ho sempre presente alla memoria il portone a vetri che faceva da ingresso all’atrio del reparto perché veniva preso sistematicamente d’assalto e scardinato, per cui ogni giorno si chiamavano gli operi per aggiustarlo. Le uniche difese erano la contenzione al letto e i farmaci, da dispensare a tonnellate, mentre si contava soprattutto sulla forza fisica degli infermieri.
I medici erano allo sbando, non sapevamo più a che santo votarci. La Direzione Sanitaria sembrava non si fosse accorta di quello che stava succedendo, salvo protestare quando qualche paziente riusciva a scappare e veniva trovato in giro per l’ospedale; il primario si era volatilizzato, era del tutto inutile sottoporgli delle domande o chiedergli che prendesse dei provvedimenti. Era saltata ogni gerarchia in ordine alle decisioni per le cure, le contenzioni,le accettazioni,le dimissioni, anche perché si era in continua emergenza, tutto accadeva secondo un ritmo febbrile che richiedeva risposte immediate ben prima di un qualsivoglia momento di riflessione o di discussione.
Ero preoccupato, ansioso, sempre in allarme per evitare un possibile disastro. Si imbottivano i pazienti di farmaci, salvo poi doverli dimettere spesso ancora in pieno delirio, senza alcun criterio clinico, perché scadevano i giorni previsti dalla legge e perché mancavano i letti e soprattutto in Pronto Soccorso si dovevano rimandare a casa pazienti gravissimi che avevano un disperato bisogno di contenimento e cure, sempre per il motivo che non c’era posto per loro. Per giunta non esisteva nessuna struttura ambulatoriale presso la quale inviarli. Una responsabilità enorme, delle condotte che,eseguite da un medico, erano semplicemente delinquenziali.
A quel punto, non si trattava tanto, almeno per quanto mi riguardava, di perseguire delle condotte che avessero un senso, un’intenzionalità terapeutica, quanto di salvaguardare me stesso. Temevo un intervento disciplinare dell’Ordine, di incappare in una denuncia, di subire delle ritorsioni, che il paziente si facesse del male o facesse del male ad altri, di comparire sui giornali, insomma di combinare dei guai che potessero venire scoperti. Eravamo tutti più matti dei matti che curavamo e anche matti pericolosi, come loro. Il disagio per le famiglie ed i pazienti era enorme. Parecchi di loro si sono suicidati ; non so dare delle cifre (in verità, non l’ho mai voluto sapere), ma sicuramente si è trattato di numeri consistenti. Ammetto inoltre di avere avuto paura, proprio paura fisica. Mia moglie lavorava in ospedale e le chiedevo di non venire mai in reparto perché temevo per la sua incolumità.
Credo,dal punto di vista professionale, di avere toccato il fondo. Mancavano le premesse per la relazione, non c’era spazio per sentimenti di simpatia o per momenti di condivisione che sollecitassero un’istanza riparativa, di aiuto. Insomma non si poteva creare un’ alleanza di lavoro, ogni paziente era semplicemente una grana in più, se non addirittura un nemico. Ricordo bene la mia insofferenza, il fastidio, il mio prendere le distanze. Il pomeriggio facevo il terapeuta e, come entravo in reparto, mi rivestivo della insensibilità e della durezza di un nazista. Una dissociazione addirittura violenta, che scattava in automatico; un bel rompicapo per chiunque avesse a cuore un minimo di coerenza e di integrità. È interessante notare come fossi in uno stato di continua apprensione, ma non provassi dei sentimenti di colpa. Ero molto lucido: la situazione era quella, io non c’entravo per nulla, l’unica cosa che avrei potuto fare era passare all’offensiva e denunciare quello che stava accadendo, ma era più opportuno che non lo facessi (ci sono andato vicino più volte). Dunque, “à la guerre comme à la guerre”, il pomeriggio aiutavo il paziente, la mattina salvavo me stesso.
A distanza di tempo, nel giro di un anno circa, la situazione via via si è normalizzata. Si sono aperti gli SPDC (ben tre, solo all’Ospedale Maggiore) e i CPS e la psichiatria sul territorio ha incominciato a funzionare. Dopo un paio di anni ho dato le dimissioni e, se Dio vuole, ho lasciato la pratica istituzionale. Non avendone fatto veramente esperienza non sono in grado di dire se la cura del paziente psicotico ha fatto il salto di qualità auspicato. Nel periodo di oltre un anno in cui ho lavorato in un SPDC, comunque non mi è parso proprio. Tante novità, tante chiacchiere, tanta attenzione al recupero dei pazienti, ma la vera cura era sempre quella: farmaci, farmaci e ancora farmaci.
Cosa dire? Ricordo Diego Napolitani che in un gruppo sull’irrazionalità e il sadismo dell’istituzione, affermava che non c’è mai limite al peggio. Risolviamo la questione in questo modo: si è trattato di un momento di transizione che si è esplicitato in un periodo di follia istituzionale e il sottoscritto ha avuto la sfortuna di trovarcisi nel mezzo. La colpa, se proprio vogliamo andare a ricercarla, è di tutti e quindi non è di nessuno, tanto meno di Basaglia. Basta non soffermarsi a pensare che la 180 è nata per mettere fine alla violenza della istituzione sul malato mentale! Certamente non vi era alcuno che volesse fare del male a chicchessia. Si è trattato di una certa superficialità, di ritardi nella programmazione, della mancanza di sinergie fra istituzioni. Insomma, siamo in Italia, ci siamo abituati; in questo paese è successo ben di peggio.