Pratica Psicoterapeutica

Il Mestiere dell'Analista
Rivista semestrale di clinica psicoanalitica e psicoterapia

NUMERO 11
2 - 2014 mese di Dicembre
CLINICA
IL “POPPANTE SAGGIO” (“WISE BABY”) E LA TEORIA DEL TRAUMA. FERENCZI E L’APPROCCIO PSICODINAMICO RELAZIONALE NEL TRATTAMENTO DI PAZIENTI PSICHIATRICI
di Roberto Carnevali

 

In seguito a uno shock una persona può maturare improvvisamente in una sua parte, non solo a livello emozionale, ma anche a livello intellettuale. Cito il caso tipico del “sogno del poppante saggio”[…] dove un neonato o un bambino molto piccolo comincia improvvisamente a parlare e ammaestra saggiamente l’intera famiglia. La paura degli adulti privi di inibizioni, e perciò, sotto un certo punto di vista, pazzi, fa per così dire del bambino uno psichiatra; per diventare tale e difendersi dai pericoli rappresentati dalle persone prive di autocontrollo, egli deve sapersi innanzitutto identificare completamente con esse.

Sandor Ferenczi

(da “Confusione delle lingue tra adulti e bambini”)

 


L’immagine del “poppante saggio” [1] venne introdotta da Ferenczi per definire il costituirsi di un “sé” che si sviluppa in modo disarmonico, maturando rapidamente sul piano intellettivo senza una corrispondente maturità sul piano affettivo; questo avviene quando si ha un genitore che Ferenczi definisce “pazzo”, che costringe il figlio ad essere il suo “psichiatra”, e dunque a rendere ipertrofiche le proprie difese razionalizzanti, per prendersene cura e al tempo stesso garantirsi la sopravvivenza nel proprio mondo di appartenenza. In questo lavoro propongo, collegando quest’idea di Ferenczi alla teoria del trauma e all’“identificazione con l’aggressore”, una lettura psicodinamica relazionale di una forma grave di disagio psichico, portando l’esempio clinico di una paziente in trattamento psicoterapeutico di gruppo a orientamento gruppoanalitico presso un servizio psichiatrico territoriale in provincia di Milano.

 

Ferenczi parla per la prima volta del wise-baby nel 1923, nel suo scritto "The Dream of the Wise Baby"[2]; riprende poi questo sogno nel suo scritto di dieci anni dopo “Confusion of tongues between adults and the child. The language of tenderness and of passion”[3], sviluppando il discorso.

Pierre Sabourin, che firma la voce "The Dream of the Wise Baby" sul Gale Dictionary of Psychoanalysis[4], così ne parla:

 

“Il sogno del  Poppante Saggio” è un testo di una pagina che Ferenczi scrisse nel 1923. Si tratta di una descrizione di un tipico sogno adulto, non di una fantasia o di un mito, e non ha alcuna analogia con l'episodio di Gesù nel tempio che parla come un adulto con i dottori. Si racconta di un bambino molto piccolo, un neonato, con gli occhiali, che comincia a parlare e ammaestra saggiamente l’intera famiglia. Anche se Freud non ne fa menzione esplicitamente nell'edizione finale di L'interpretazione dei sogni del 1926, lo cita in questo modo[5]: "Del resto, il sogno è così intimamente legato all’espressione linguistica, che Ferenczi [...] può a buon diritto affermare che ogni lingua ha un proprio linguaggio onirico. In genere un sogno non è traducibile in altre lingue e nemmeno, direi, un libro come questo”.

Una nota in calce al testo di Ferenczi introduce la nozione di “conoscenza effettiva” [tatsächliches Wissen], da parte dei bambini, della sessualità adulta. Se il sogno si ripete spesso illustra ciò che Ferenczi chiamò successivamente la funzione traumatolitica del sogno”, che consiste nel ritenere che il bambino possa aver goduto, quando era  attaccato al seno, di qualcosa di più di una reminiscenza sensuale. Questa conoscenza pone una domanda: È una conoscenza collegata a una percezione visiva o uditiva, a un’eccitazione autoerotica, o a un’intuizione in relazione a una fantasia primordiale? La risposta è chiara per Ferenczi: Si tratta di una conoscenza che è collegata ad eventi accaduti e a una maturazione precoce in conseguenza di un trauma, e dunque a un'esperienza di sofferenza. In “Confusione delle lingue tra adulti e bambini(1933/1955) ha scritto:. La paura degli adulti privi di inibizioni, e perciò, sotto un certo punto di vista, pazzi, fa per così dire del bambino uno psichiatra; [...]”. È incredibile quanto possiamo ancora imparare dai nostri "poppanti saggi”, dai nevrotici.

PIERRE SABOURIN

 

Il riferimento alla teoria del trauma di Freud viene da Sabourin riferito alla sfera della sessualità, e dunque la figura del wise baby appare legata all’idea di un trauma sessuale da lui subìto che lo fa diventare precocemente adulto a livello del pensiero, per diventare “lo psichiatra” dell’adulto e poter così prendersene cura controllandolo e neutralizzandolo rispetto all’eventualità della ripetizione dell’evento traumatico.

Voglio qui far riferimento a una visione del trauma più allargata, in cui prendere in considerazione non un solo evento traumatico (anche ripetuto ma comunque puntuale e ben collocabile nel tempo), ma un contesto relazionale destabilizzante, dove uno o più adulti sono uninhibited non solo e non necessariamente nella sfera della sessualità, ma in una dimensione affettivo-emozionale che caratterizza in modo forte l’intreccio delle relazioni in cui il soggetto è immerso nel primo periodo della sua vita. Ciò determina lo strutturarsi di una personalità “wise baby” che si fa carico della “pazzia” del contesto in cui vive, cercando di “curarlo” attraverso i propri pensieri. Diventa così lo “psichiatra” che cura la follia che caratterizza il suo nucleo familiare, controllando con i propri pensieri le manifestazioni di questa follia da parte delle persone che lo compongono. Come già detto all’inizio, in questi casi lo sviluppo affettivo-emozionale non avviene di pari passo con quello intellettivo, e lo squilibrio fra i due processi può provocare uno stato di sofferenza rispetto al quale il soggetto vive una condizione di impotenza, perché ha strutturato le sue difese intorno al pensiero razionale, con il quale cerca di controllare, spesso in modo efficace, la pazzia del mondo circostante, senza poter fare altrettanto con il proprio disagio, del quale ha il più delle volte una percezione tutt’altro che chiara.

 

Porterò ora un esempio clinico.

Lavinia ha passato da poco i quarant’anni, e si è rivolta al CPS in cui lavoro quando ne aveva poco più di trenta, in un momento particolare, in cui aveva perso la memoria relativamente al periodo degli ultimi sei anni della sua vita.

Nella sua cartella clinica trovo un test di livello intellettivo (WAIS), somministratole da una collega, in cui risulta avere un punteggio di 110, decisamente elevato, se si considera per di più che la sua frequenza scolastica si è fermata alla quinta elementare, e che solo in età adulta ha conseguito il diploma di terza media in una scuola serale. Ha un’epilessia diagnosticata con riscontro elettroencefalografico, la cui prima manifestazione è avvenuta nella tarda adolescenza, con una crisi consecutiva a un incidente stradale.

Già dal primo colloquio si stabilisce fra me e la paziente un rapporto di particolare sintonia. Fin da subito collego la sua amnesia alla possibilità che abbia cercato di rimuovere qualcosa di importante a livello emozionale, e questo la colpisce e la spaventa, ma al tempo stesso le dà l’impressione di essere “capita”, e nota la differenza fra il mio modo di relazionarmi a lei e quello a cui è abituata nel contesto neurologico in cui è seguita per la sua epilessia. I primi mesi di terapia sono caratterizzati da frequenti salti di seduta, dovuti all’esplodere di crisi epilettiche che a volte avvengono con una frequenza e un’intensità elevatissime (fino a 10 crisi nel giro di pochi giorni) che a volte richiedono che venga ricoverata. Con tutto ciò, Lavinia non demorde, e appena si rimette in sesto viene alla seduta con la voglia di capire, costi quel che costi.

Un primo elemento che emerge è il suo aver sviluppato un atteggiamento di rifiuto nei confronti della possibilità di collegare le sue crisi (pur radicate in uno sfondo organico rilevato all’elettroencefalogramma) ai suoi stati emotivi. Benché fosse evidente che i contenuti e le riflessioni che emergevano nelle sedute fossero sconvolgenti, e che da quando era venuta in psicoterapia la frequenza delle crisi fosse aumentata in modo estremamente significativo, Lavinia si rifiutava di prendere in considerazione l’idea che ci fosse un collegamento fra le due cose. Questo fatto dipendeva dal modo decisamente scisso in cui veniva trattata nel contesto del trattamento neurologico a cui era sottoposta. Da un lato il trattamento era farmacologico e fondato su elementi “obiettivi” dati dall’esito di esami specifici, dall’altro veniva trattata, in particolare da operatori dell’ambito infermieristico, come se si “facesse venire” le crisi, e dunque capitava che venisse “sgridata” se le aveva frequentemente, con un generico invito a “reagire”, fare leva sulla “volontà” e altre banalizzazioni di questo tipo, che non facevano altro che accrescere il suo senso di frustrazione e di impotenza e la sua oppositività nei confronti dell’idea di un’implicazione psicologica delle sue crisi.

La particolare sintonia empatica creatasi fra noi riuscì però, nell’arco di un tempo relativamente breve, a permetterle di fare delle differenze, e di capire che l’ipotesi di un’implicazione psicologica delle sue crisi era da me proposta non in termini colpevolizzanti, ma come elemento su cui fondare la possibilità di attivare in lei delle risorse che le permettessero di non subire passivamente il suo stato. Facendo dei collegamenti che dessero un senso ai suoi momenti critici avremmo potuto affrontare certi aspetti della sua vita cogliendo delle possibilità trasformative che fino ad allora erano rimaste sepolte dietro una logica fondata solamente sui dati “oggettivi”. Lavinia cominciava a capire la preziosità delle sue risorse affettive, e a cogliere l’opportunità di mettere la sua brillante intelligenza al servizio di queste risorse, anziché, come tendenzialmente aveva sempre fatto, cercare di inquadrarle in schemi rassicuranti che implicitamente ne mortificassero le caratteristiche più peculiari.

Intanto la sua amnesia cedeva il passo ai ricordi, che via via riaffioravano, portando con sé dolori profondi che Lavinia capiva aver voluto rimuovere. Nei sei anni che erano stati dimenticati suo figlio era passato dall’infanzia all’adolescenza, avendo molti problemi collegati al suo stato di salute, le prime due delle sue sorelle avevano avuto dei forti contrasti con lei, e la sua famiglia nel complesso aveva manifestato disagi estremi, con un senso di frammentazione che Lavinia in questo modo aveva potuto non vedere. In più, come fatto contingente, le era stato riscontrato un problema alle gambe che aveva comportato la necessità di un’operazione chirurgica, ed è stato al risveglio da quest’operazione che si era trovata, dopo una crisi epilettica, in questo stato di amnesia.

Dopo circa due anni di terapia individuale, in cui i ricordi riemergono con pienezza, propongo a Lavinia di entrare in un gruppo di terapia a orientamento gruppoanalitico; lei accetta e inizia un cammino ancora in corso dove porta sé stessa in modo ricco e costruttivo, con un alternarsi di momenti in cui le crisi si attenuano fino quasi a sparire (v. più avanti) a momenti in cui si hanno crisi ravvicinate (mai comunque come nei primi tempi della terapia) a distanza di pochi giorni l’una dall’altra.

Brevemente, la storia di Lavinia è questa. È nata in Sardegna, quarta di sei figli (tre femmine prima di lei, un maschio e una femmina dopo) e nel periodo della sua infanzia i suoi genitori viveveno un momento di particolare difficoltà, tanto che quando lei aveva quattro anni lei e le tre sorelle più grandi sono state collocate in orfanotrofio, mentre solo il fratello più piccolo restava con i genitori (l’ultima sorella non era ancora nata). Resta in questo luogo, di cui ha un bruttissimo ricordo di violenze e punizioni, fino a nove anni, poi torna in famiglia e viene subito messa a lavorare, nella trattoria che i genitori, emigrati al nord, avevano aperto. Finisce così le elementari e, benché le insegnanti dicessero ai genitori di continuare a farla studiare perché era molto dotata, viene tenuta a casa e messa a servire ai tavoli e ad aiutare in cucina. Negli anni dell’orfanotrofio la madre ha un brutto incidente, ricostruito allora come una fatalità in cui era partito un colpo da un fucile che l’aveva ferita; in realtà la madre era depressa e in un momento di disperazione aveva cercato di spararsi con quel fucile, riuscendo solo a ferirsi in modo abbastanza grave, restando in una condizione di invalidità per un paio d’anni, con postumi pressoché permanenti.

Non sto a descrivere le molte altre vicissitudini occorse a Lavinia nell’arco della sua vita. Dirò solo che il suo unico figlio ha oggi vent’anni, ha dalla nascita una cisti al cervello (che non ha comunque compromesso le sue funzioni cognitive) che i medici hanno ritenuto non fosse opportuno operare, e ha avuto sporadiche crisi epilettiche che lo hanno fatto stare in trattamento farmacologico per alcuni anni; finché, essendo trascorso il tempo richiesto senza recidive, è stato dichiarato “guarito” e il trattamento farmacologico si è concluso. Prima di lui c’è stato un aborto, che in un primo tempo Lavinia ha descritto come spontaneo, e poi ha invece ammesso essere stato “procurato”, cosa che le ha dato dei fortissimi sensi di colpa, ma che ha sentito di dover fare per la deresponsabilizzazione da parte del marito, che in quel momento non si sentiva di diventare padre, e solo nella gravidanza successiva ha accettato questa responsabilità, peraltro solo parzialmente. Dal marito si è infatti poi separata, e la gestione del figlio è stata sempre problematica per l’atteggiamento di scarsa responsabilità dimostrato costantemente da lui. Attualmente ha un compagno con cui ha finalmente trovato la stabilità affettiva e un senso di condivisione, che si traduce in una reale progettualità.

La famiglia d’origine è sempre stata fonte di problematicità, e vorrei incentrare l’attenzione su questi aspetti, per argomentare intorno a Lavinia come valido esempio di “wise baby”.

 

Una volta, dopo uno sfogo di pianto irrefrenabile in gruppo, dicendo che la madre avrebbe dovuto rendersi conto della sua totale inadeguatezza al ruolo per l’appunto di madre, Lavinia non ha crisi per sei mesi, e descrive situazioni in cui sente che “in passato mi sarebbe venuta una crisi, e invece adesso non mi viene e sento tanto dolore e tanta voglia di piangere”. Questo episodio esprime in modo emblematico l’importanza del rapporto conflittuale con la madre, e la rilevanza della sua condizione affettivo-emozionale per l’insorgere delle crisi epilettiche, che pure hanno una base organica. I due picchi estremi di frequenza delle crisi sono le dieci crisi in pochi giorni che avvenivano tra una seduta e l’altra all’inizio della terapia, e i sei mesi di assenza di crisi dopo l’episodio or ora raccontato. E in entrambi i casi è il rapporto tra il pensiero e i sentimenti a giocare un ruolo fondamentale.

Quando Lavinia è venuta in terapia, il suo pensiero era andato in tilt, non le permetteva più di controllare una situazione che a livello delle emozioni le sfuggiva da tutte le parti, e dunque la sua mente si era rifugiata in un’amnesia che cancellava sia il periodo di maggiori disagi dovuti alla patologia del figlio, sia il suo disagio che era la causa dell’operazione chirurgica, sia, e questa era la cosa più rilevante, tutti i contrasti che avevano portato alla rottura con le sorelle più grandi, e che comunque riguardavano anche la famiglia nel suo complesso; e in questo senso, la sua amnesia aveva fatto sì che tutti i familiari le si stringessero intorno in modo affettuoso e soccorrevole, creando, forse per la prima volta nella sua vita, un clima, peraltro provvisorio e inconsistente, di “famiglia unita”, di cui Lavinia aveva un bisogno estremo. Si era svegliata dall’operazione in una situazione di vuoto di ricordi, descrivendo il mondo che la circondava come se fosse quello di sei anni prima, in cui tanti eventi dolorosi che non riusciva più a controllare con i suoi pensieri non erano ancora accaduti, e dunque con l’illusione di aver recuperato la fisionomia della persona lucida e determinata che riteneva di essere. Paradossalmente, con l’amnesia aveva raggiunto la condizione di essere “senza pensieri”, ritenendo inconsciamente di essere più sicura così piuttosto che in una situazione dove il pensiero non riesce ad essere un buon controllore della situzione. E in più, altrettanto inconsciamente, era riuscita e rendere coeso quel gruppo che fino ad allora era stato frammentato e per lei fonte di angoscia e di senso di abbandono.

Nell’episodio di sfogo nei confronti della madre, avvenuto dopo due anni di terapia individuale, nei quali aveva totalmente recuperato i ricordi dei sei anni rimossi, e tre anni di terapia di gruppo (ed è per l’appunto in gruppo che la situazione si è verificata), si era prodotta in lei una notevole trasformazione, e la necessità di controllare le sue emozioni e i suoi affetti attraverso la lucidità del suo pensiero razionale aveva ceduto il passo a una reale capacità riflessiva. Col figlio i rapporti erano molto cambiati, e anche a livello affettivo aveva cominciato a proporsi nelle relazioni senza la necessità di un dominio assoluto sulla situazione e sulle persone. Rispetto alla sua “maternalità”, in particolare, aveva sviluppato una capacità critica attraverso la quale il figlio aveva potuto aprirsi molto di più, e in alcuni ambiti del loro rapporto la fiducia aveva permesso l’allentarsi del suo bisogno di controllo. Lo sfogo in gruppo contro la madre venne all’apice di un riattraversamento critico nei confronti della persona di sua madre e del suo modo di essere madre, al quale, pur non volendolo, aveva capito di essersi per molto tempo uniformata.

Nel momento di massimo disagio la madre, che non aveva le sue risorse intellettive, si era sparata con un fucile, rendendosi invalida nel tentativo di farla finita; Lavinia ripeteva questa scena ogni volta che aveva una crisi epilettica, riemergendo alla vita al risveglio, con la baldanza di chi riprende le fila di un pensiero e ricomincia il suo lavoro di controllore del mondo che lo circonda. Nel momento di sfogo contro la madre, Lavinia si è affacciata su un mondo nuovo, dove si può riattraversare criticamente il passato e differenziarsi dalla propria storia, e per un po’ ha vissuto in una dimensione in cui il dolore può essere accolto, e per quanto grande sia non porta alla necessità di “staccare” e momentaneamente dissolversi. Dopo quei sei mesi le crisi epilettiche sono ricomparse, mai più con la frequenza di prima, ma a volte anche a breve distanza l’una dall’altra, sempre comunque in circostanze di cui Lavinia coglie il significato, e sulle quali cerca, con il gruppo, di formulare ipotesi di senso. Va anche considerato il fatto che all’ultimo controllo neurologico con elettroencefalogramma le è stato detto che la condizione organica alla base dell’epilessia è notevolmente peggiorata, e dunque ci sarebbero motivi per un intensificarsi della frequenza delle crisi.

 

Voglio ora portare un esempio di come Lavinia abbia strutturato nella fase iniziale della sua vita una personalità “wise-baby”, raccontando in particolare, come emblematica, una situazione venutasi a creare, e il modo in cui Lavinia l’ha gestita.

Innanzitutto da bambina Lavinia era costantemente sovrappeso, al limite dell’obesità (quando inizia la terapia ha un fisico ben proporzionato, e solo da quando ha trovato la stabilità affettiva con l’attuale fidanzato – col quale ha deciso di sposarsi tra un anno – ha acquistato qualche chilo di troppo, senza comunque diventare obesa ma solo un po’ sovrappeso); quello del peso corporeo è un problema che caratterizza tutte le donne della famiglia: la madre è obesa da sempre, e adesso ha raggiunto vertici preoccupanti (100 chili di peso per poco più di un metro e cinquanta di altezza) e le prime due sorelle, in passato formose in modo adeguato e apprezzate per la loro bellezza (in particolare la più grande), sono diventate entrambe a loro volta obese. Lavinia è dunque passata dalla condizione di essere la meno apprezzata sul piano estetico ad essere quella con il fisico più bello, ribaltando dunque l’immagine di sé agli occhi degli uomini; e questa competizione è avvenuta (risolvendosi in una “vittoria”) con le tre figure femminili (la madre e le due sorelle più grandi) con le quali ha la maggior conflittualità (con le altre due sorelle i rapporti sono buoni; col fratello c’è distanza, ma questo riguarda i rapporti di lui con l’intera famiglia, dalla quale ha voluto staccarsi per fare la propria vita).

Lavinia si è trovata a dover fare i conti con la sua nascita, vissuta evidentemente con delusione da parte dei genitori, che hanno continuato a far nascere figli alla ricerca di un maschio e hanno invece trovato in lei la quarta figlia femmina (l’ultima figlia, ancora femmina, nata dopo l’agognato maschio, è di parecchio più giovane, ed è venuta in un momento in cui la famiglia si era riunita e si era rilanciata in avanti, e dunque ha probabimente rappresentato il frutto di una maggior intesa fra i genitori, di cui peraltro Lavinia ha goduto poco, perché già inserita in una vita propria fuori dalla famiglia d’origine).

Ha dunque cercato di occupare uno spazio nel quale riuscire gradita a tutti, per evitare di sentirsi estromessa in quanto intrusa e non desiderata. Già questo dà il segnale della nascita del wise-baby. Lavinia osservava il mondo circostante, si sentiva esposta a vessazioni di vario genere (la madre la picchiava pressoché ogni giorno per i motivi più futili) e affinava il suo pensiero per cogliere gli spazi nei quali collocarsi per acquistare un po’ di potere, e per esercitare un buon controllo su ciò che le stava intorno. Visto che non riusciva ad essere “bella” cercò di risultare “simpatica”, e il fatto di essere la più intelligente della famiglia le dava un’opportunità in più per indirizzare le cose verso la conquista di spazi propri, negli anfratti lasciati liberi dai soprusi a cui era esposta.

Nella tarda adolescenza era diventata una figura popolare nel locale che lei e la sua famiglia gestivano. I clienti le si rivolgevano con simpatia e confidenza, e lei era l’amica di tutti, con la quale si conversava volentieri. Tra i frequentatori del locale c’era un giovane, che s’era innamorato, peraltro non ricambiato, della sorella maggiore, e Lavinia raccoglieva le sue confidenze di spasimante deluso che cerca conforto in un’amica. Pian piano venne ad occupare uno spazio sempre maggiore nel cuore del ragazzo, e alla fine divenne la sua compagna; e quello fu l’uomo che divenne suo marito.

Abbiamo qui un buon esempio di come la strategia del wise baby sia caratterizzata da una forte ambivalenza, e porti al raggiungimento di risultati che da un lato, sul versante del pensiero razionale, possono risultare soddisfacenti, perché corrispondenti all’obiettivo circoscritto che si voleva raggiungere, ma dall’altro, sul versante degli affetti e delle emozioni, lasciano una traccia di amarezza e di sconforto, perché mortificanti rispetto all’immagine di sé e agli obiettivi reali di vita in senso prospettico. In questa situazione, si vede dunque come Lavinia riesca a raggiungere l’obiettivo di “portare via” il fidanzato potenziale alla sorella, allora più bella e più desiderata di lei, e dunque di riportare una vittoria che apparentemente le dà un senso di pienezza e di conquista; d’altra parte, prendendosi quest’uomo che la sorella non voleva e che in partenza era innamorato di questa e non di lei, si colloca in una dimensione di “ripiego”, portando avanti l’immagine di sé stessa come “seconda scelta”, che di per sé viene rifiutata e solo dandosi da fare con strategie accattivanti riesce a ottenere un riconoscimento, come è successo in famiglia e come Lavinia pensa debba succedere nel resto del mondo. Questo vissuto è centrale in Lavinia, e l’ha accompagnata per tutta la vita; su questo dunque si incentra gran parte del lavoro terapeutico, come elaborazione, attraverso il legame empatico che si è instaurato fra di noi, della sua possibilità di essere accettata senza bisogno di costruire razionalmente un’immagine di sé adeguata alle esigenze e alle aspettative dell’altro.

 

Voglio ora proporre una breve considerazione su come sia presente nel wise-baby un aspetto di identificazione con l’aggressore. E lo farò portando l’esempio di Lavinia in relazione alla figura materna. Come abbiamo visto, l’essere madre di Lavinia si connota in termini estremamente problematici, prima di tutto sul versante della dicotomia “accettazione-rifiuto”, che è stato centrale per lei come figlia alla sua nascita. Il primo figlio è stato abortito, e il secondo è nato con un problema congenito di una certa entità, che ha comportato anni di cure e di affanni. Lavinia ha più volte esplicitato la consapevolezza di forti vissuti di rifiuto nei confronti del figlio, e in gruppo ha raccontato (e altre volte ripreso) di un suo sogno ricorrente in cui segue la bara di suo figlio morto, al suo funerale; vive tutto questo con grandi sensi di colpa, e solo negli ultimi tempi del lavoro analitico è riuscita ad uscire dal meccanismo “colpa-riparazione”, accedendo a una dimensione di “carico di responsabilità” attraverso la quale gestire l’ambivalenza. Avendo subìto una madre rifiutante, Lavinia è diventata a sua volta una madre rifiutante, e per anni ha agito alcuni automatismi in questo senso senza averne consapevolezza, sviluppando vissuti diversificanti rispetto a quest’immagine solo attraverso il lavoro analitico, peraltro in modo profondo e sostanziale.

Altri aspetti collegati all’identificazione con l’aggressore sono la figura della donna obesa, che per anni ha incarnato in analogia alla madre, e, soprattutto, il momento della “crisi” come una sorta di “dissolvimento di sé” in cui mollare tutto e passivamente affidarsi a un mondo ostile che può fare di noi quello che vuole. Come detto più sopra, il maldestro tentato suicidio della madre e le crisi epilettiche di Lavinia hanno una matrice comune, data dal “non farcela più” e sottrarsi al contatto col mondo attraverso una fuga, che è prima di tutto fuga da sé stessi. E in questo senso anche l’amnesia rientra a pieno titolo in quest’ambito di rappresentazioni.

Rispetto alle crisi, si può osservare una altro aspetto interessante: per quanto il figlio di Lavinia non possa configurarsi complessivamente come un wise-baby, ha assunto però una caratteristica di tale figura in relazione alle crisi epilettiche della madre. Lavinia ci ha recentemente descritto situazioni in cui lei aveva una crisi epilettica e suo figlio, che aveva cinque o sei anni, sapeva esattamente cosa fare, e provvedeva a soccorrerla e a chiamare il personale sanitario adatto a fare fronte alla situazione che si era creata. Del resto, quando Lavinia era bambina, era lei a sapere cosa fare quando la madre entrava in crisi e, in preda allo sconforto diceva che “non ce la faceva più”. Le stava vicino, la supportava e in questo modo otteneva che la madre si riprendesse e tornasse a picchiarla per motivi futili, garantendo comunque la sua presenza e l’esistenza di un rapporto con lei.

 

Concludo con una considerazione sulla relazione instauratasi fra me e Lavinia. Questo mio contributo si colloca in uno spazio dedicato al pensiero dei padri della psicoanalisi nei confronti delle gravi patologie psichiche. La gravità della situazione di Lavinia è data dalla sua storia terribile, mentre a livello di risorse umane si può dire che è una persona con una dotazione notevolissima, e questo ha giocato un ruolo fondamentale nel buon andamento della terapia.

Nel proporre la figura del wise-baby come chiave di lettura per un lavoro analitico sulla relazione, voglio sottolineare come l’eredità più grande lasciata da Sandor Ferenczi, che del concetto di wise-baby è il creatore, sta nelle sue straordinarie risorse umane, che si traducono in una valorizzazione del legame empatico come strumento principe della terapia analitica. Ho cercato di fare mio questo insegnamento, e credo che con Lavinia il punto fondamentale del nostro lavoro sia stato un’intesa immediata a livello empatico, e lo sviluppo, sulla base di questa, di un’alleanza che ha saputo farci affrontare e superare le grandi difficoltà che una struttura difensiva forte e agganciata anche sul corpo come la sua ha posto sul nostro cammino. Abbiamo saputo, insieme, andare “al di là”.

 

Bibliografia

Ferenczi, Sándor (1923), “Der traum vom ‘gelehrten Säugling’" Internationale Zeitschrift fürärztliche Psychoanalyse, IX, 70.

Ferenczi, Sándor (1933), “Confusion of tongues between adults and the child. The language of tenderness and of passion”, in Final contributions to the problems and methods of psycho-analysis (pp. 156-167). London: Hogarth. (Original work published 1933 [1932]).

Freud, Sigmund. (1900a). The interpretation of dreams. Parts I and II. SE, 4-5; tr. it. in Freud S., Opere, vol 3, Boringhieri, Torino, 1966.

Sabourin, Pierre (2005), “The Dream of the Wise Baby”, International Dictionary of Psychoanalysis. Copyright © by The Gale Group, Inc.



[1] Questo lavoro è stato presentato in forma di relazione al XVIII INTERNATIONAL FORUM OF PSYCHOANALYSIS 2014 – 17-19 September, 2014 Kaunas, Lithuania – Psychoanalysis, Trauma and Severe Mental Disorders.

[2] Ferenczi, Sándor. (1923). “Der traum vom ‘gelehrten Säugling’" Internationale Zeitschrift fürärztliche Psychoanalyse, IX, 70.

[3] Ferenczi, Sándor. (1933). “Confusion of tongues between adults and the child. The language of tenderness and of passion”, in Final contributions to the problems and methods of psycho-analysis (pp. 156-167). London: Hogarth. (Original work published 1933 [1932])

[4] International Dictionary of Psychoanalysis. Copyright © 2005 by The Gale Group, Inc.

[5]  Freud, Sigmund. (1900a). The interpretation of dreams. Parts I and II. SE, 4-5; tr. it. in Freud S., Opere, vol 3, Boringhieri, Torino, 1966, p. 102, nota a piè di pagina.


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