Ringrazio Guido Medri per l’affettuosa recensione del mio libro e ringrazio anche i colleghi che sono intervenuti nella discussione successiva. E provo a dire ancora la mia.
In realtà è solo dopo la pubblicazione del libro che ho iniziato a riflettere in modo distaccato e a farmi, in modo esplicito, delle domande sul perché l’ho scritto, cosa volevo comunicare. Mentre lo scrivevo e, prima ancora, quando ci pensavo, ho cercato di mantenere un diverso stato d’animo che consisteva fondamentalmente nel desiderio di raccontare. Direi un desiderio narcisistico – in senso buono, spero – di raccontare delle storie ai nipotini.
Naturalmente anche adesso non so dare delle risposte. Tuttavia mi sono ritrovato nella frase di Medri “sembra che i malati di mente siano scomparsi dall’immaginario culturale”. Non quindi dai Servizi di Psichiatria, anche se il dibattito sulla prassi psichiatrica è certo interessante.
Perché questo sia avvenuto è impossibile stabilire; o, meglio, le possibili cause sono molto numerose e diverse. Del resto nel libro dico chiaramente che continuo a ritenere un fatto affascinante e misterioso il passaggio di contenuti psichici, di valori, di idee, dai singoli alla società, e viceversa. È qualcosa, a mio parere, che si può solo descrivere, “fotografare”. E più la fotografia è soggettiva ed emotivamente partecipe, più è fedele.
Immaginario culturale, clima culturale, spirito del tempo, sono tutti concetti sfuggenti, fonti di possibili fraintendimenti, eppure insostituibili.
Io ho cercato di descrivere l’immaginario culturale di un’epoca diversa, nella quale il tema della psichiatria era molto presente (molto più di adesso) ed era avvertito, nei suoi diversi aspetti, come un tema caratterizzante di ogni avanguardia culturale, non solo degli addetti ai lavori. Anzi, è stato il periodo della commistione e confusione dei ruoli. Probabilmente una delle mie ambizioni consiste nel pensare che la descrizione di quel passato possa avere un valore di giudizio critico verso il nostro presente.
Ora, visto che sono uno psicoanalista che si rivolge a degli psicoanalisti, posso provare a dire qual è il contesto teorico che si accompagna alla mia narrazione. Uso questo termine (si accompagna) ad indicare il fatto che non c’è stata alcuna consapevole volontà di rendere consequenziali i due aspetti. Sono momenti diversi, accomunati dal fatto di essere entrambi pensati da me: ognuno può dare le sue interpretazioni.
Cito a questo fine alcune frasi di un mio intervento recente fatto in occasione di uno dei tanti convegni sulla crisi della psicoanalisi, che si è svolto un mese fa e quindi pochi mesi dopo la pubblicazione del libro; si intitola ”Fine dei viaggi?”, perché prendevo in esame l’uso e il declino di alcune metafore tipiche della psicoanalisi. Qualche frase, spero non troppo slegata, per non abusare della vostra ospitalità.
“A mio parere i mutamenti intervenuti nella prassi psicoanalitica e la crisi stessa che sempre più investe ogni scuola di psicologia del profondo, devono essere affrontati attraverso un’autocritica radicale. Intendo, con questo, non solo l’autocritica individuale, a cui siamo di solito allenati proprio dalla specifica preparazione analitica, ma la messa in discussione di un sistema comune di certezze. Cosa non facile dopo tutta la fatica che un candidato fa per essere accolto in un’associazione psicoanalitica…”
“…Ognuno di noi è abituato a dire, e pensare, rispetto a grandi uomini del passato, che essi pur continuando a suscitare la nostra ammirazione per la loro genialità, erano anche, inevitabilmente, figli del loro tempo. La stessa frase invece, detta a proposito di Freud da un freudiano, o a proposito di Jung da uno junghiano, crea qualche difficoltà e non si sente pronunciare molto spesso (anche se convegni come questo, che implicano già nel titolo una qualche forma di autocritica, si vanno facendo più frequenti)…”
“…In realtà non è solo il timore di eresia a rendere difficile la prospettiva storica per uno psicoanalista che vuole riflettere sulla sua disciplina. La psicoanalisi di Freud, e forse ancor più la psicologia analitica, costituiscono delle visioni del mondo, dei modi di interpretare la realtà. Anche la prospettiva storica, a sua volta, è un modo di interpretare la realtà; e l’integrazione tra queste due prospettive è tutt’altro che facile…”
“…Tuttavia i mutamenti intervenuti inducono a domandarsi, e domandarci, che senso abbia insistere a sottoporci a una preparazione che probabilmente non è quella richiesta nella maggior parte dei casi. Come se, tornando alla metafora dei viaggi, la preparazione degli psicoanalisti continuasse ad essere simile a quella di una guida alpina, o di un conoscitore della foresta amazzonica, anziché quella di un tecnico aereonautico o di un operatore turistico. Che è ciò che chiede la maggior parte delle persone che si rivolgono a uno psichiatra o uno psicologo…”
“…La “fine dei viaggi” riguarda la fine di un modello che potremmo chiamare eroico e, più in generale, la fine delle certezze morali della modernità, dato che nel viaggio iniziatico era chiara la presenza di un imperativo morale. È questo infatti il punto problematico: con il ridimensionamento inevitabile e la perdita, alla fine, del modello eroico, perdiamo anche la tensione morale che era ad esso collegata…
…Ma, Z. Bauman scrive: “credo che la frustrazione della certezza rappresenti un guadagno per la morale”. La fine della certezza, infatti, può portare ad una morale più profonda, anche se di difficile definizione. Disancorata, almeno in linea di principio, proprio da quei valori a cui non crediamo più. Ma ancorata a cosa?
La morale postmoderna di cui parla Bauman, che deriva dalle concezioni di Lévinas, non può essere spiegata con motivazioni razionali, come quella della necessità di una convivenza sociale. È un dato irrazionale che addirittura precede la formazione dell’Io. Lévinas lo definisce “essere per l’altro”, ed è indipendente dalla reciprocità.
In questa sede mi limito a notare che questa ipotesi, apparentemente così poco razionale, quasi mistica potremmo dire, sembra invece assolutamente compatibile con la ormai nota scoperta dei neuroni specchio…
…Quello che è certo, e che interessa uno psicoanalista, è che questa dimensione morale di fondo, che possiamo chiamare innata, [beninteso, accanto all’aggressività] e che può anche essere considerata una meta a cui tendere, si attua, per quanto possibile, nel rapporto a due.
Non sono molte, oggi, al di fuori del rapporto analitico, le occasioni che abbiamo di vivere un rapporto profondo e autentico con l’altro. Ma quello analitico, si obietterà subito, è un rapporto a pagamento, e non certo privo di finalità pratiche. Eppure la forma caratteristica della relazione analitica, la sua ritualità, con tutte le sue ombre che, d’altra parte, sono anch’esse costitutive di questa relazione, tende a quel modello morale disinteressato. Tanto che, se l’analisi si avvicina troppo a una cura di tipo medico, perde la sua specificità e anche, si può dire, il suo fascino.”