Pratica Psicoterapeutica

Il Mestiere dell'Analista
Rivista semestrale di clinica psicoanalitica e psicoterapia

NUMERO 10
1 - 2014 mese di Giugno
IL DIBATTITO
IL "NEGLET" DELLA FOLLIA
di Tania Ragazzi
Inizio il mio breve scritto citando testualmente le parole di Medri: “Dove sono finiti i malati di mente? Sembra che siano scomparsi dall’immaginario culturale. […] Cosa è successo? Una volta chiusi i manicomi, se ne sono andati gli schizofrenici?”

Le domande che Medri ha posto al termine del suo scritto sono state da me sintetizzate in un’unica domanda: “esistono ancora i matti?”, alla quale ha fatto subito seguito una forte reazione emotiva connotata da rabbia, impotenza, delusione perché subito collegata all’immagine di un giovane paziente che da poco ho ricevuto in studio. Un adolescente psicotico che a mio parere è stato “dimenticato” e lasciato in balia – alla sua giovane età – di deliri e allucinazioni, in uno stato di ritiro sociale e di coartazione emotiva. Dimenticato dalla struttura ospedaliera che lo aveva diagnosticato, dimenticato dal medico curante che non si è premurato di effettuare nemmeno una telefonata alla madre per sincerarsi del suo stato emotivo e dell’assunzione farmacologica prescritta. “Dimenticato” dai famigliari, in particolare la madre alla quale è affidato dalla separazione coniugale, ma che comprendo maggiormente perché anch’ella fragile, spaventata e negante qualsivoglia problematica psichica. Sì, i matti esistono. Il vissuto di impotenza è scaturito dal pensiero su come poter agire: io, psicologa-psicoterapeuta come potrei aiutare questo ragazzo? Come potrei evitare che cada nuovamente nell’oblio, nella dimenticanza? La delusione, invece, è stata in me suscitata da una presa di consapevolezza: certamente è opportuno in invio al CSM, da un bravo psichiatra che sappia cogliere, oltre al significato che il ragazzo esprime attraverso le sue verbalizzazioni bizzarre, la psicodinamica interiore, famigliare e relazionale che sta dietro. Che sappia accogliere anche la madre, con la quale il ragazzo vive in simbiosi. Ma esistono ancora psichiatri di questo tipo? Certamente si, ma non ho avuto la fortuna di incontrarli nella piccola realtà di provincia in cui vivo. Nel momento in cui mi sono trovata a riflettere circa a chi inviarlo, personalmente mi sono trovata in grossa difficoltà. Non vorrei apparire presuntuosa, arrogante, ma purtroppo la realtà che oggi si presenta è di un sistema sanitario in declino, carente di personale, spesso demotivato, dove sembra che la logica sovrana è la medicalizzazione, il rendicontare attraverso dati quantitativi circa gli accessi al Servizio, le cure fornite ed i tempi impiegati. Lascio solo intuire quanto poco spazio ci sia, in una visione così aziendale, per psicologi e psicoterapeuti.

Mi sono laureata nel 1999 a Padova in Psicologia, sono “giovane” del mestiere. Non ho vissuto come i colleghi più anziani, di cui ho letto gli articoli, le vicissitudini e le lotte riformanti circa i manicomi, il passaggio agli ospedali psichiatrici, al territorio, agli SPDC. Posso solo portare la mia soggettiva testimonianza circa ciò che ho vissuto, gli ideali che mi animavano, il fascino che esercitava per me la follia. Ancora in quegli anni a Padova esisteva la grande possibilità di potersi confrontare, durante il percorso di studi, con la follia. Opportunità di poter vivere e confrontarsi con le emozioni che l’incontro con un matto poteva suscitare. Per me era essenziale: volevo intraprendere la strada clinica. Ma sarei stata in grado di reggere emotivamente tale incontro? Ricordo il fascino che esercitava su di me la clinica, la terapia psicodinamica, la psichiatria. In altre parole, le ombre che ci animano, anche colorite di “follia”. Desideravo ad ogni costo sperimentarmi emozionalmente non solo con i matti descritti sui libri, ma con quelli reali. All’epoca c’era la possibilità, per chi sosteneva l’esame di Psichiatria con il Dott. Colombo, di accedere ad una sorta di “stage”, come lo chiamerebbero oggi gli studenti, all’Ospedale Psichiatrico dei Colli. Come descrive Cabibbe nel suo libro “Matrimonio manicomio” vi erano grandi padiglioni, un parco enorme, una chiesa, un bar ed un piccolo centro diurno dove gli studenti potevano intrattenersi ed intrattenere i matti che vi potevano accedere liberamente. Persone spesso ormai sole, lì abbandonate anni addietro, depositarie di una lunga carriera manicomiale, persone cronicizzate nella loro follia, giovani e anziani, ma anche semplicemente ritardati mentali, storpi dalla nascita o con gravi deficit sensoriali. Persone, queste ultime, forse “rinchiuse” tanti anni prima, ma che matti non lo erano. Alcuni nomi li ho persi, ma i loro volti, le loro fattezze, le loro bizzarrie sono in me ancora molto vivide. Luigina, Jack, Vittorina e tanti altri che forse oggi sono ormai deceduti e definitivamente dimenticati. Ricordo un ragazzo alto un metro e novanta, camminava a grandi passi come un robot, girava e rigirava per i viali del parco e io dietro e al fianco. Raccontava la propria visione delirante della realtà destando in me paura, curiosità, stupore, incomprensione circa la sua logica bizzarra. A noi studenti era severamente vietato accedere ai reparti, in questi grandi padiglioni chiusi, dai quali dalle porte di servizio si vedevano solo infermieri intenti a fumare una sigaretta. La mia curiosità però era enorme. Mi ponevo domande che oggi vivo come ingenue, ma all’epoca erano per me importanti: perché non potevamo entrare? Era pericoloso? Perché quelle persone non uscivano mai? In un’occasione furtiva riuscii ad entrare per una visita che fu davvero molto fugace. Ciò che vidi mi lasciò un vuoto dentro, un senso di incredulità, un’enorme disagio, tanto che oggi il ricordo di quella visita è come se fosse opacizzato da una coltre di nebbia, sfumato. Avevo la mente piena di ideali costruiti da ciò che avevo appreso dai libri: i manicomi non esistevano più, i ricoverati avevano guadagnato la propria dignità di malati e di persone…ciò che vidi non vi corrispondeva. Ampi saloni con persone in ogni cantone, vestite, mezze svestite, con in dosso solo la “camicia di forza”, abbandonati a terra, su sedie a rotelle al centro di enormi stanze, molte piangenti, tutte in un loro mondo privato. Vidi delle persone sole, abbandonate, senza identità e dignità. Ma non erano stati chiusi i manicomi? Uno psichiatra mi rispose: “certo, finalmente sono liberi, i cancelli sono aperti, possono entrare e uscire…a volte qualcuno scappa e dobbiamo cercarlo!”. Mi sembrò una risposta contraddittoria: perché delle persone, seppure disturbate, sentivano la necessità di fuggire da quel luogo? Ma non erano stati chiusi i manicomi e quindi i relativi interventi clinici e “non interventi” anche disumani? Percepivo tale risposta come un “non senso” per una giovane, non ancora psicologa, che nulla sapeva della storia manicomiale, della lotta intestina durata anni, ma solo infarcita di ideali grazie alla legge 180. Successivamente a questa esperienza in ex manicomio, riuscii anche ad accedere ad un’altra presso il reparto di Diagnosi e cura 3, sempre di Padova. Ve ne erano tre di reparti di psichiatria e questo era l’unico aperto agli studenti di psicologia. Il primario appariva medico dalla mente aperta, potevamo partecipare alle riunioni d’equipe e contribuire con nostre impressioni ai pazienti ricoverati, ci lasciava girare per il reparto, nelle camere, nell’unico salone che all’occasione veniva adibito ad attività: giochi corporei accompagnati dalla musica, drammatizzazioni di fiabe, giochi di ruolo. Era l’unico reparto, seppure al secondo piano, senza sbarre alle finestre: me ne accorsi un giorno in cui facemmo ginnastica in un piccolo cortile, guardai in alto, verso il nostro reparto e vidi altri pazienti, ricoverati, che ci osservavano attraverso le sbarre, come fossero imprigionati, dai quali sembrava trasparire dal volto il bisogno viscerale di poter tornare alla vita. Successivamente alla laurea, ovviamente, volli proseguire con la mia esperienza in psichiatria e svolsi il tirocinio presso il CSM e, in piccola parte, in reparto. Rimanevo per ore con giovani e anziani psicotici, parlavamo, li ascoltavo, mi mostravano i propri lavori svolti al centro diurno. Vi rimasi, in tutto, 12 anni. Dapprima come tirocinante psicologa, poi come psicoterapeuta, successivamente come volontaria psicoterapeuta. Non nego che vi rimasi, non solo per proseguire la mia esperienza, ma nella speranza di potermi inserire. Cosa che non avvenne.

Durante gli anni di università avevo letto un libro di Gaetano Benedetti “La psicoterapia come sfida esistenziale”. Rimasi affascinata dalla carica emotiva ed umana che sapeva trasmettermi. L’autore sosteneva di dover scendere insieme al paziente nel pozzo nero in cui era immerso ed insieme risalire. Era per me una metafora coinvolgente, mi aveva trasmesso la convinzione che i matti potessero essere curati, non solo con l’aiuto farmacologico, ma con un psicoterapia, attraverso una “speciale” relazione che poteva instaurarsi tra paziente e terapeuta. Durante gli anni di specializzazioni ebbi anche l’opportunità di ascoltare Benedetti ad un congresso: mi commossi. Quell’uomo minuto, con l’accento duro, tedesco, sapeva commuovermi profondamente. Percepii in lui un grande pathos. Trasmetteva la convinzione, il credo, che anche le persone che soffrono di psicosi possono essere curate.

I matti esistevano allora ed esistono ancora oggi, resto della convinzione che si possono curare psicoterapeuticamente e con l’aiuto farmacologico, ma bisogna crederci, essere capaci, sentire una profonda vocazione, così come trasmetteva Benedetti. Sono sicura che i matti esistono, ma gli psichiatri che ci credono? Credo che esistono ancora, ne sono convinta, ma rispetto alla mia limitata esperienza nei servizi pubblici non ne ho incontrati. Negli anni ho potuto osservare una sempre maggiore attenzione alla medicalizzazione, tentativi estemporanei di terapia psicodinamica, famigliare, un sentire nell’aria il peso dell’ineluttabilità verso la cronicità, sia guardando con sfiducia alla psicoterapia, alla relazione con il paziente, sia mantenendo medicalizzazioni per anni senza dare la possibilità al paziente di poter mostrare il proprio progresso. Insomma, non vorrei essere troppo dura, ma ho l’impressione che si sia instaurato, prevalentemente, una sorta di meccanismo di esercizio di potere medico che segue logiche biologiche e che negli anni ha forse portato molti ragazzi verso un appiattimento della propria coscienza e vitalità.

Tornando al ragazzo che ho citato, infine, mi sono rivolta ad una psichiatra che stimo per il suo modo di porsi con alcuni pazienti, che non abusa nell’utilizzo di farmaci, ma che non pratica psicoterapia e da subito ha affermato di non avere il tempo di seguire, anche solo con dei colloqui periodici, la madre del ragazzo. Come si suol dire, meglio di niente. Chiaramente vorrei affiancarmi alla psichiatra. Però non posso fare a meno di provare una grande tristezza per questo ragazzo che si è affidato a me con fiducia, sforzandosi di aiutarmi a comprenderlo, credo, probabilmente per il suo enorme bisogno di non essere ancora dimenticato.

Continua a tornare questa parola “dimenticato” che non trovo sia un caso, ma molto significativa di ciò che forse stiamo vivendo. Ho l’impressione che a livello umano e sociale si stia vivendo una sorta di regressione temporale, regressione ad un prima delle grandi lotte basagliane. Ma dove sono finiti quegli ideali? Erano ideali utopistici, pertanto irraggiungibili? Sono stati fagocitati dalla logica del potere? Come afferma anche Carnevali non sembra esservi più nemmeno il tentativo di comprendere la malattia mentale, la sua psicopatologia, nel senso etimologico del termine, perché sostituita con un agire efficientista-farmacologico, medicalizzando la follia, descrivendola come una malattia come le altre e quindi riconducendola ad una logica prettamente medico biologica: causa-effetto, sintomo-farmaco. Infine, ho l’impressione, che si stia tornando a neglettare la follia, che all’epoca veniva rinchiusa ed emarginata in luoghi protetti (per i “normali”), oggi viene nuovamente neglettata, ma forse in modo più subdolo e fasullo: non si negano le cure agli psicotici, ma nel contempo non si curano! Vengono accolti nei servizi, vengono proposte molte attività riabilitative, vengono somministrati farmaci, ma nella sostanza non sembra vienir modificato nulla nella loro psico-pathos-logia. Infine, anche se sento di ripetere ciò che da sempre è reputato scontato: forse per l’uomo è più facile negare e addirittura neglettare la follia perché istintivamente teso per la sua sopravvivenza a differenziare un Noi da un Loro, a sancire nettamente la normalità dalla patologia, a rifuggire le proprie ombre e i propri lati interiori che a volte possono essere vissuti come folli. Per concludere vorrei citare le parole di Gianni Moretti tratte dal suo libro “Un clown sul divano” nel paragrafo “Elogio dell’ambivalenza: “Il normale, quindi, teme il folle perché questo testimonia anche la sua follia. Egli cerca di ristabilire la rassicurante struttura duale folle-non folle, struttura che gli permette di ritrovarsi in seno a un grande “Noi” da cui l’altro è l’escluso” o un incidente” destituito di senso e quindi non più inquietante. Tra l’incapacità di esprimersi del folle e la paura di comprendere del normale esiste quindi una barriera apparentemente insuperabile.”

 

 

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