Raccolgo volentieri l’invito che Medri ci rivolge a riflettere sulla 180, su dove sono finiti i matti e tante altre questioni.
Io non ho avuto, come Medri, Cabibbe[1] e Carnevali, la fortuna o forse la sventura di lavorare in un ospedale psichiatrico. In merito ho soltanto conoscenze di letteratura psichiatrica, di letteratura in senso stretto, penso ai romanzi tanto discutibili quanto incantevoli di Tobino, e poi soprattutto di storia della psichiatria. Ma se un fenomeno sociale tanto importante qual è stato il manicomio per quasi due secoli, non lo si è vissuto effettivamente da dentro, è sicuramente meglio non parlarne. Ne farò un breve cenno solo alla fine.
Dunque non parlerò dei manicomi, ma delle mie due uniche esperienze in servizi territoriali di salute mentale. Il primo risale ai primi anni Ottanta nel CPS di Pavia diretto allora dal prof. Fausto Petrella, il quale intuendo forse già qualcosa su di me mi aveva invitato a partecipare alle riunioni di equipe che si svolgevano per due o tre ore il lunedì mattina. Allora non ero ancora psicologo patentato, ma assistevo alle riunioni a pieno titolo. Partecipava a queste riunioni anche il nostro Marco Francesconi che in seguito diede le dimissioni per dedicarsi unicamente all’insegnamento e alla pratica privata. Credo che l’imprinting circa la vocazione a lavorare con i matti et similia ebbe luogo proprio durante queste riunioni eccezionalmente ricche e libere. Vi partecipavano, con gli stessi diritti, psichiatri, psicologi e infermieri. Ricordo che mentre aspettavo il treno alla stazione di Pavia per far ritorno a Milano scrivevo appunti a non finire sui casi clinici, e alla cui discussione anch’io avevo preso parte.
La seconda esperienza in un servizio fu molto più lunga, quasi dieci anni, e si svolse, tra gli anni Ottanta e Novanta presso la Clinica psichiatrica Guardia Seconda del Policlinico di Milano. Non era già più il prof. Cazzullo a dirigere la clinica, ma il prof. Invernizzi, del quale, al di là del suo burbero atteggiamento, ho un ricordo molto buono. Per iniziativa del prof. Salvatore Freni venne istituito presso la Guardia Seconda un vero e proprio servizio di psicoterapia. Tra i tanti eminenti personaggi che partecipavano alla discussione dei casi e alle supervisioni di gruppo ricordo il prof. Emilio Fava che in seguito ebbe a trasferirsi ad Affori.
Quando cominciai a frequentare la Guardia Seconda, avevo finalmente ottenuto l’abilitazione al lavoro di psicologo, per cui seguivo in psicoterapia tre pazienti o anche di più, e facevo numerose prime visite, come si suol dire.
Dove sono finiti i matti? Sono finiti qui tra ambulatori e reparti psichiatrici dell’ospedale generale. Basta fare anche un rapido tour per un reparto psichiatrico per vedere dal vivo la follia: la depressione psicotica e delirante, la schizofrenia acuta ancora in piena fase di sintomatologia positiva. E a questo punto affiora la grande differenza medica e di civiltà tra il manicomio e la psichiatria sul territorio. I pazienti ricoverati, magari con TSO, presso un SPDC o un reparto psichiatrico, devono a un certo punto essere dimessi. Al di là delle tribolazioni che la dimissione può provocare nei familiari, è precisamente in questo obbligo di dimettere il paziente, che si coglie l’immensa differenza tra psichiatria manicomiale e psichiatria territoriale.
Le lunghe o interminabili degenze che facevano tutt’uno con la psichiatria manicomiale oltre a essere iatrogene, come è stato sperimentalmente dimostrato, implicavano che nessuna psicoterapia, di qualsivoglia orientamento, potesse avere la minima speranza non dico di successo ma almeno di un qualche miglioramento. E di cosa si doveva migliorare in un manicomio? Meglio adattarsi, accomodarsi in uno stato di cose che poteva essere addirittura confortevole, ma che portava con sé intrinsecamente la perdita in pari tempo di speranza e vitalità.
I pazienti anche molto gravi che vengono dimessi dai reparti della psichiatra territoriale, vanno talvolta incontro a una guerra persa in partenza, ma se le circostanze familiari e sociali sono favorevoli, non corrono il rischio terribile di rassegnarsi, non possono che continuare a lottare.
[1] È davvero singolare che anche a me capitò insistentemente, durante un seminario o qualcosa del genere, di incorrere nel medesimo lapsus: matrimonio al posto di manicomio. Anch’io lascio volentieri al lettore il piacere di sbizzarrirsi sul significato del lapsus, un significato che di certo deve essere diverso dal lapsus identico di Cabibbe. Oppure no?