Su suggerimento di Roberto Carnevali, sento profondamente di dare un mio contributo aggiungendo una “pietra” alla strada aperta da Guido Medri nel suo articolo.
Non intendo in tale sede dilungarmi o fornire un mio apporto in merito ai concetti già citati di medicalizzazione, istituzionalizzazione nè sul percorso storico della legge 180. Non ne ho le competenze per poterlo fare e soprattutto non ho vissuto, data la mia ancora relativamente giovane età, sulla mia pelle quei momenti e pertanto accolgo pienamente le riflessioni già portate dagli altri autori.
D’altra parte trovo estremamente “vero e attuale” il lapsus matrimonio-manicomio sottolineato da Guido Medri parlando di Cabibbe. Sia il matrimonio che il manicomio rappresentano un contenitore all’interno del quale il singolo può trovare spazio per realizzare (nel senso del “rendere reale”) un personale senso di appartenenza sperimentato, dai più fortunati, nella prima esperienza affettiva duale vissuta insieme al genitore primario. I più sfortunati invece, proprio perché non hanno potuto sperimentare esperienze di sintonizzazione affettiva, trattengono dentro di sé il “desiderio intimo di appartenenza” portandolo avanti senza mai sopirlo e con la speranza di esperimerlo in successive esperienze di vita contenitive che sia il matrimonio che il manicomio rappresentano. Perché contenitive? Entrambi consentono al singolo di “sentirsi al sicuro” da potenziali attacchi e prevaricazioni che derivano da quello che viene identificato come “mondo esterno” che ovviamente diventa “esterno” proprio nel momento in cui si va a costituire un qualcosa di “interno”. Gli attacchi e le prevaricazioni vanno in tale sede percepiti come l’antitesi della “non appartenenza”, ovvero tutte quelle manifestazioni relazionali che pongono il singolo “lontano da” e non “vicino a”. Il malato psichiatrico cerca la realizzazione di un “riconoscimento sintonico emotivo”. Non avendo avuto la possibilità di trovarlo nel mondo reale, se lo costruisce (e finalmente lo vive) in un mondo fantastico che a questo punto non so neanche se definirlo “allucinatorio”. Prima ancora dell’amore penso proprio sia il “sentirsi parte di” a far sì che il singolo riesca ad aprirsi ad una dimensione che solo successivamente si trasforma in amore. Il risuonare l’uno nell’altro consente al “malato di mente” così come al “non malato di mente”(non a caso non lo definisco “soggetto normale”) di sentire definito un proprio ruolo in uno spazio da lui riconosciuto come sintonico. In fondo (e anche in superficie) il matrimonio prende vita tra due persone che si riconoscono l’una nell’altro. Con ciò non voglio dire che entrambi vadano alla ricerca della “somiglianza” che quindi sembrerebbe garantire una risonanza. No. Sto parlando di una risonanza diversa dai tratti di personalità, dai gesti, dalle abitudini, dai “modi di fare”, bensì della risonanza emotiva. Di quell’espressione magica che avviene tra due persone quando si guardano, quando sono vicine e anche quando sono lontane. Parlo proprio della sintonia. Del sentirsi “parte di”. È questo sentimento a dare avvio a quello che poi si trasforma in amore e diventa un matrimonio. Anche nel manicomio si verifica lo stesso fenomeno. Il “malato di mente” si riconosce nell’altro e dall’altro viene ricnosciuto come simile. Tutto quello che rientra sotto il termine di “istituzionalizzazione” è creato da altri. Non dagli attori principali. La forte medicalizzazione, costruisce intorno al manicomio, e quindi anche all’immaginario dello stesso, un cordone stretto che va a ridurre la portata di “senso di appartenenza” che invece si pone come base sicura e primaria del manicomio stesso trasformandolo in uno spazio di “assenza di emozioni” rendendolo nell’immaginario comune uno spazio “privo di mente” (e secondo molti anche privo di emozioni come se fosse quindi la mente a determinare la presenza delle esperienze emotive). Allo stesso modo la forte “socializzazione e burocraticizzazione (come quella legale)” costruisce intorno al matrimonio un laccio che sembra più una catena. Il matrimonio definito come “tomba dell’amore”, “morte della sessualità” richiama un immaginario collettivo che conduce il singolo a diffidare del desiderio di “appartenere a” che invece ci rappresenta e del quale siamo costantemente alla ricerca. Proprio noi, come i “malati di mente”. La società ci sta abituando a scappare da tutto ciò che rappresenta un “contenitore” facendolo percepire come una “prigione”, boicottando il comune senso di vicinanza che ci contraddistingue e che desideriamo tutti quanti, malati e non, realizzare “insieme a”.
Roberto Carnevali, in uno dei nostri più sintonici incontri, guandandomi negli occhi con grande emozione mi disse parlando dell’amore in relazione a un rapporto di coppia di cui stavamo discutendo: “Hanno paura di affacciarsi sull’infinito!”. Sul momento, quest’idea dell’amore mi diede un senso di spaesamento, poi abbracciai l’idea che l’amore non è un ondata che travolge, ma qualcosa che riempie un vuoto presente e che soprattutto crea nuovi spazi vitali. E questo vale non solo per quello che oggi definiamo “matrimonio”, ma anche per il “manicomio”. Con questo splendido ricordo nel cuore concludo questo mio breve apporto che mi auguro porti altre riflessioni in vista di un confronto sempre più ampio su un tema di forte interesse e che abbraccia molti aspetti sia del nostro generativo lavoro che delle nostre vite private.